Tre domande sulla violenza maschile …di Giulia Blasi

Mettiamo in fila un po’ di concetti di base che possono tornare utili nella conversazione pubblica sul tema. Sarà la prima di una serie.
Sono successe cose. Le motivazioni della sentenza per una violenza sessuale sentenza per una violenza sessuale – accertata – che ha visto assolvere i due stupratori perché l’errata percezione della volontà della ragazza avrebbe impedito, e cito testualmente, di “ritenere penalmente rilevante la loro condotta”. In sintesi: sì, hanno abusato di lei, non hanno rispettato la sua volontà e violato il suo consenso, ma è colpa del porno e non colpa loro.
Poi c’è stato lo stupro di gruppo avvenuto a Palermo, che per ora sembra quello che in America chiamano “open and shut case”, sette ragazzi di cui uno minorenne che si gettano – e sono parole loro, prese dai loro messaggi – come “cento cani su una gatta” e ne abusano per “farle passare il capriccio”, perché “la carne è carne”, poi se ne vanno tranquilli in rosticceria¹. E quando scoprono che lei li ha denunciati, si ripromettono di cercarla e prenderla a testate.
E prima ancora il bidello dei dieci secondi, le reazioni alle accuse a Leonardo La Russa, i casi delle molestie nell’ambiente della pubblicità, insomma, ci troviamo in un momento.

La novità rispetto al solito, mi pare, è questa: con ogni incidente di questo tipo che finisce in cronaca, aumenta il numero degli uomini che entrano in maniera visibile e centrata nella conversazione sulla cultura maschile e sulla responsabilità degli uomini nel cambiamento. C’è qualcosa nell’aria, non so se lo fiuto solo io o se l’abbiano percepito anche altre persone, comunque io me la rischio e lo dico: fratelli, vi vediamo. Andate avanti così, se c’è da aggiustare il tiro ci faremo sentire.
Approfitto di questa sensazione per mettere in fila un po’ di cose che mi sembrano importanti, in maniera sintetica ma, spero, chiara.
Le tre domande a cui vorrei provare a dare delle risposte (parziali e incomplete, ma si fa quel che si può) sono queste:

Da dove nasce la violenza maschile?

Chi è responsabile della violenza maschile?

Cosa possiamo fare per eliminare la violenza maschile?


Da dove nasce la violenza maschile?
La stragrande maggioranza degli atti di violenza contro le persone è commessa da individui di genere maschile.
Questo è un dato rilevato dall’Istat, che ovviamente ha bisogno di spiegazioni: e le ipotesi possibili sono solo due.
La prima è che sia una questione biologica. Gli uomini sono semplicemente portati alla violenza, per questioni ormonali. È il testosterone, non ci si può fare niente. Mettiamo per un momento da parte la veridicità e scientificità di questa affermazione, che è nulla: se davvero fosse così, gli uomini dovrebbero essere trattati esattamente come qualsiasi animale feroce, quindi confinati e limitati nei movimenti, perché rappresenterebbero una minaccia non solo per le donne ma anche per gli altri uomini. Il determinismo biologico non lascia scampo: se a renderti aggressivo è il tuo mix ormonale, prima o poi qualsiasi uomo sarà aggressivo. Quindi vanno limitati tutti, per precauzione. Anche i leoni ammaestrati del circo finiscono per azzannare il domatore: non esiste un leone sicuro.
L’ipotesi ormonale è molto popolare fra gli uomini che ritengono la violenza un fatto inevitabile, come un fenomeno atmosferico, perché nessuno si spingerebbe mai a postulare seriamente di vederli messi in gabbia. Danno quindi per scontato che debbano essere le donne a tutelarsi, limitandosi. Compito impossibile, dato che gli stupri sono sempre avvenuti, anche quando le donne non avevano alcuna libertà di movimento, ma l’idea diffusa che l’unica strategia possibile sia questa li facilita nella loro missione: assolversi da ogni responsabilità, individuale e collettiva, e scaricare la colpa sulle vittime. Lo hanno fatto anche gli autori dello stupro di gruppo di Palermo, che nelle chat accennano all’idea che la ragazza che hanno aggredito “si volesse fare tutti”. È stata colpa sua, come era colpa della ragazza di Firenze se chi l’ha stuprata ha pensato di poterlo fare: la sua condotta pregressa li ha fatti sentire autorizzati a scavalcare il suo consenso.
Chi ritiene che la violenza maschile “succeda”, come la grandine, non pensa che siano gli uomini a dover essere limitati nei movimenti. La metafora dell’animale feroce, qui, fa il giro e torna indietro, perché di fatto ci stiamo comportando come se vivessimo non in una società di umani, ma in un villaggio sperduto e assediato dai leoni, dove non c’è altro modo di vivere che non sia nascondersi. Maschi come bestie, insomma: incontrollabili e incontrollati.
Chi sostiene questa ipotesi, tuttavia, si affretta sempre a scagionarsi da ogni accusa: no, lui no, lui non fa niente, lui è bravo. I violenti sono gli altri. Sempre gli altri. Chi? Gli altri. Ne conoscesse mai uno.
La seconda ipotesi, molto più robusta, è che la violenza maschile sia una questione culturale. Non sono gli ormoni, quindi, ma è una scelta derivante dalla combinazione di fattori ambientali come l’educazione in famiglia e a scuola e la pressione fra pari, la rappresentazione mediatica della violenza come espressione di maschilità “forte”², i discorsi giustificazionisti (“L’uomo è cacciatore”, oppure, come dicevamo “Se stai a casa non ti succede niente”) e strutturali. Educhiamo maschi e femmine in maniere diverse, con aspettative diverse e ruoli diversi³. Una certa forma di prepotenza è parte del pacchetto base dell’educazione maschile: la chiamiamo “decisione” o “sicurezza di sé”, ma è prevaricazione e totale noncuranza per le esigenze, i desideri, la volontà e il benessere di chi ci circonda. La violenza come comportamento appreso è un’opzione non deterministica (quindi, che non considera gli uomini come violenti in pectore, né la biologia come radice della violenza), che chiama in causa il sistema e costringe gli uomini a interrogarsi sulle loro responsabilità individuali e, soprattutto, collettive.

Chi è responsabile della violenza maschile?
Ogni volta che si esprime questo concetto basilare – che la violenza è responsabilità di chi la commette, ma che nasce da un problema sistemico e che riguarda tutti gli uomini – arrivano subito quelli che NON PUOI GENERALIZZARE IO NON SONO COSÌ, eccetera. Allora la rispieghiamo da capo.
C’è una differenza abissale fra “colpa” e “responsabilità”. La colpa la puoi solo espiare, la responsabilità te l’assumi. La colpa non prevede azioni positive, al massimo azioni riparative. Chi è responsabile risponde, letteralmente, di quello che ha fatto e farà rispetto al problema di cui si fa carico. È facile vedere la differenza.
Nessuno ha colpa delle condizioni in cui nasce, che siano o meno privilegiate. Un uomo bianco, eterosessuale, cisgender e borghese viene al mondo in una condizione di assoluto privilegio rispetto al resto della società, e sul suo essere bianco, eterosessuale e cisgender ha maggiori possibilità di costruire le condizioni che lo porteranno ad accumulare ricchezza. Questa non è una colpa, nessuno sceglie dove e come nascere, al massimo – e nemmeno sempre – sceglie come vivere. Chi può davvero guardare davanti a sé e dirsi “Posso essere quello che voglio” ha la responsabilità di creare un mondo che consenta a tuttǝ di vivere la stessa libertà.
La cultura maschile, come dicevamo, è basata su una forma di sopraffazione semplicemente perché il mondo è fatto a misura degli uomini, ai quali è assegnato in automatico il maggior valore sociale. La rappresentazione simbolica di questo squilibrio è nel nome: la maggior parte delle persone nate all’interno di un rapporto eterosessuale porta il cognome del padre, e per la legge italiana la donna aggiunge ancora il cognome dell’uomo al proprio all’atto del matrimonio. Il fatto che l’utilizzo di questo nuovo cognome sia facoltativo non cancella l’assenza della reciprocità: la legge non prevede che sia un uomo ad aggiungere al proprio il cognome della moglie. A livello simbolico e pratico è l’uomo a dominare sulla donna, come predicato dalla maggior parte delle religioni monoteistiche nella loro interpretazione più stringente⁴.
Ci sono solo due modi di agire su questa disparità: ignorandola (perché ti porta un vantaggio sul piano pratico e simbolico) o riconoscendone l’iniquità. La seconda scelta prevede una messa in discussione complessiva di quello che significa essere e identificarsi come uomini nella società. In pratica, tocca riconoscere di essere parte di una cultura di genere, e cominciare a smontare quello che la compone. Un lavoro immane, simile a quello fatto dalle donne per oltre due secoli e con maggior vigore negli ultimi cinquant’anni: le donne, però, avevano una motivazione molto più forte. Era in gioco la loro sicurezza e sopravvivenza⁵. Gli uomini non si sentono minacciati, anzi, hanno molto da guadagnare nel mantenere questa rendita di posizione.
Hanno anche molto da perdere, però, perché la violenza maschile non colpisce certo solo le donne, tanto che le vittime di omicidio (nel dato complessivo) sono a maggioranza maschi, uccisi da altri maschi. La maschilità, per come la conosciamo, è intrisa di una necessità costante di provare a sé stessi e agli altri di essere capobranco: c’è chi risponde a questa richiesta affannandosi a esserlo (e ne soffre, com’è inevitabile) e chi invece la respinge, perché ne percepisce l’ingiustizia e la tossicità. Sono questi ad accettare la responsabilità di cambiare il modello di maschilità, ma si scontrano subito con la realtà: in un mondo di Ken, non è per niente facile essere Allan⁶.

Cosa possiamo fare per eliminare la violenza maschile?
Noi, nel senso delle donne impegnate sul fronte delle questioni di genere: niente.
Dico sul serio. Non è una nostra responsabilità, noi abbiamo già parecchio da fare su altri versanti, prima di tutti quello dell’educazione delle altre donne per evitare che passino dalla parte dell’oppressore collaborando a opprimere le altre donne, cosa che non le protegge sul lungo periodo ma dà l’illusione della sicurezza. Abbiamo scritto libri, molti libri, per decenni, in cui abbiamo spiegato nei dettagli cosa non funziona e perché, e come era ed è possibile uscirne. Le nostre energie sono altrove, ma abbiamo comunque fornito tutti gli strumenti necessari per iniziare il percorso a chi finora è rimasto fuori dal discorso avviato dai femminismi.
E in molti lo stanno facendo. Non moltissimi, non tutti, e sono molti di più quelli che si sentono al di sopra di ogni necessità di messa in discussione (provate a fare presente a un maschio bianco eterocis che sta dicendo una cazzata su qualcosa che ha a che vedere con le donne, e vedete come scatta inferocito). Parecchi non ne vogliono sapere perché si sentono minacciati nella loro maschilità, appunto, e qualcuno diventa proprio aggressivo alla sola idea di dover fare fatica.
Eppure succede. E ripeto, non spetta alle donne fare il lavoro di pedagogia, né è pensabile che le madri possano sostituirsi nella creazione di modelli identitari e relazionali maschili⁷. È una fatica che deve essere assunta dagli uomini in prima persona. Il dialogo c’è, l’appoggio pure, ma il percorso non può essere individuale, ogni uomo per sé puntellato da una donna che se lo accolla. No, il lavoro deve essere collettivo, come lo è stato il nostro. La buona notizia è che è già in parte fatto. Quella cattiva è che bisogna introiettarlo e portarlo nella società degli uomini, e no, non possiamo farlo noi. Lo devono fare gli uomini, con tutto quello che comporta in termini di rendersi un po’ antipatici, sottrarsi a certe dinamiche, educarsi a vicenda a non dare per scontato niente.
Noi abbiamo faticato, e il risultato è un mondo un po’ meno stronzo anche con gli uomini. Continueremo a faticare, perché il lavoro non è finito e il mondo è ancora troppo stronzo, ma siamo prontissime a condividerla, la fatica. (Continua.)

Giulia

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Note:

1. La violenza, come già illustrato da Izzo, Ghira e Guido ai tempi del Circeo, mette fame.

2. Risolvere un conflitto a scazzottate, certo, ma anche forzare la resistenza di una donna a un contatto fisico, perché dietro quel “no” si nasconde un desiderio che attende solo di realizzarsi: sono due solo dei tanti esempi possibili di questo decisionismo maschile.

3. Sulle specifiche di questa educazione differente ho scritto in maniera estesa in Rivoluzione Z, ma consiglio molto anche i testi di Lorenzo Gasparrini, che si concentra sul lato maschile, molto meno esplorato.

4. I femminismi interrogano questo dato dalla loro fondazione, per cui nessuno mi chieda “testi”, tutti i testi dei femminismi parlano di questo, in un modo o nell’altro.

5. Le donne conservatrici che conquistano il potere traggono vantaggio da questo lavoro enorme, ma sono funzionali al sistema. Non aspettiamoci mai da una conservatrice che lavori con e per le altre donne, non importa quanto a parole prometta di farlo.

6. Leggi la newsletter su Barbie.

7. Come argomentato altrove, le donne che puntellano il patriarcato lo fanno per una varietà di motivi, ma a fare gli uomini si impara dagli altri uomini.

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