[…] Coloro che immersi in una prospettiva infausta fanno, nonostante tutto, professione di fede nel destino fausto dell’umanità, sono promotori di una visione del mondo «politically correct», la buona educazione linguistica e comportamentale diventata modo di pensare e canone di vita. Non vogliono imparare dagli errori del passato. Preferiscono rieducare la storia, riscrivendola nel presente. Hanno una fede assoluta (e non del tutto consapevole) nei miracoli della tecnologia e considerano ogni problema dell’umanità come problema tecnico da risolvere scientificamente. Peccato che la tecnica non ha mai risolto alcuno dei conflitti che attraversano la storia umana spesso li aggrava a partire dalle guerre. Non esistono algoritmi che renderanno il nostro mondo più pacifico, libero e democratico capace di trarre forza costruttiva dai conflitti, piuttosto che lasciarsi andare alla loro deriva distruttiva.
Si continua ostinatamente a confondere il substrato logistico della nostra vita (dove è importante la stabilità e una ragionevole prevedibilità) con i desideri, gli affetti e il pensiero immaginativo che la rendono umana. Per questi ultimi è importante un equilibrio non predefinito tra prevedibilità e imprevedibilità, tra stabilità e destabilizzazione, il contesto in cui si muove, peraltro, anche la ricerca scientifica che è cosa diversa dalle sue applicazioni.
I sostenitori del futuro tecnologico dell’umanità non sanno di cosa parlano, sono affetti da insipienza del pensiero (l’ottundersi della mente a causa della crisi del desiderare, vedere e sentire), indipendentemente dalle loro ottime intenzioni, dalle loro buone conoscenze e dal loro quoziente intellettivo (un inganno diventato misura obiettiva della capacità di pensare, promotore di un pensiero calcolatore e impersonale che non sa nulla del mondo). Sono abbagliati dai numeri e dalle immagini e vivono nella caverna di cui Platone, uscendone, ci ha parlato. Uscire all’aperto li terrorizza e costruiscono paradisi artificiali che creano un oblio continuo della loro condizione umana.
La speranza è l’opposto della consolazione, il vivere ipnotizzati nella caverna. Nasce dalla disperazione creata dalla consapevolezza di essere finiti in una prigione e richiede da noi il coraggio di uscire, sempre più numerosi, dalla claustrofilia a dare testimonianza di un amore per la convivialità umana (la culla della ragionevolezza) che tenacemente resiste.
Sarantis Thanopulos, il manifesto, 18/8/2023