Una fiaba ideologica: le valutazioni delle agenzie di rating …di E. Brancaccio

Gli altissimi giudici di Moody’s hanno dunque graziato il governo Meloni. Per la potente agenzia di rating, la valutazione sul debito pubblico italiano resterà ancora un pelo al di sopra dei cosiddetti titoli «spazzatura».

Pagella tutt’altro che edificante, certo. Ma il punto politico è che risulta identica a quella che l’agenzia assegnava ai governi precedenti, incluso quello di Draghi. Per un certo modo di intendere l’opposizione si tratta di uno smacco. Per lungo tempo ci hanno abituati alla narrazione secondo cui esisterebbero minacciose forze populiste e destrorse che scassano i conti pubblici e aizzano lo spread, e ci sarebbe per fortuna un centrosinistra a trazione tecnocratica che rimedia ai guasti finanziari e riporta il sereno sui mercati. Tra i cantori di questa storia, qualcuno è arrivato a credere che si possa fare opposizione senza nemmeno scendere in piazza. Basta solo diffondere inquietudine al minimo aumento dei tassi d’interesse sul debito.

In Italia, questa narrazione di una disputa campale tra irresponsabili populisti e diligenti tecnocrati ha resistito per un quarto di secolo. Eppure, se ci pensiamo, è stata già molte volte seccamente smentita dai fatti. Basti ricordare il governo Monti, che nonostante i tagli di bilancio si trovò ben presto con lo spread sopra i 500 punti, esattamente allo stesso livello a cui l’aveva lasciato il defenestrato Berlusconi poche settimane prima. Oppure si rammenti la compagine gialloverde, con Di Maio che esultava dal balcone di Palazzo Chigi come se avessero espugnato Bruxelles, mentre in realtà avevano diligentemente allineato il deficit alle raccomandazioni della Commissione europea.

E adesso che Meloni ha pure ricevuto il bacio di Moody’s, il colmo sembra raggiunto. Per i tribunali della finanza mondiale, Draghi e Meloni ormai pari sono. Chi era solito fare opposizione in comodità, semplicemente agitando lo spauracchio dei mercati, è rimasto ammutolito.
Il vecchio copione di una lotta decisiva tra destra sfascista e tecnocrazia risanatrice pare dunque superato. È tempo di raccontare un’altra storia.

Sale così alla ribalta una nuova sceneggiatura: i commentatori di grido ci spiegano che la destra populista è rinsavita e ora siamo tutti in perfetta armonia, ben giudicati dal vigile occhio delle agenzie di rating. Il vecchio pensiero unico vive pertanto una seconda giovinezza. Al punto che magari varrebbe la pena di fare un nuovo governo unico, affratellando le ali del parlamento e tagliando gli ultimi rami secchi della demagogia.

Messo così sembra un ritorno alla consueta «razionalità capitalistica», a suo modo rassicurante. In realtà, siamo dinanzi a un’altra fiaba ideologica.
Basti notare un fatto ormai conclamato dalla letteratura scientifica. Le agenzie di rating commettono errori madornali: seguono le dinamiche del mercato anziché prevederle, sono del tutto incapaci di prevedere i punti di svolta dell’economia, e risultano totalmente sguarnite dinanzi agli shock del capitalismo contemporaneo. In sostanza, la ridicola “tripla A” che le agenzie assegnarono a Lehman Brothers un attimo prima del suo crollo non è stata un’imbarazzante eccezione, è la regola. Rimetterci dunque tutti al giudizio delle agenzie, come bravi scolari, è solo un altro affascinante sintomo di “follia” dell’attuale sistema di potere.

Per anni siamo stati ubriacati dalle mistificazioni del populismo, come quella secondo cui semplicemente abbandonare l’euro e rimettere la valuta nelle mani della speculazione sui mercati fosse in quanto tale un’opera rivoluzionaria, addirittura nell’interesse della classe lavoratrice. La stessa Meloni, appena pochi anni fa, proponeva un tale imbroglio. Qualcuno, allora, potrebbe essere indotto a sperare che la crisi del populismo e il ritorno all’ovile di Meloni e soci consentiranno di frenare l’onda dilagante di irrazionalismo politico. L’idea è che togliendo di mezzo il populismo torneremo almeno a vederci più chiaro. Purtroppo si tratta di un’illusione. La verità è che stiamo solo passando da una frode ideologica all’altra: quella della «rivolta populista» era fragile, questa della «razionalità capitalistica» è più vecchia e molto più resistente.

Emiliano Brancaccio, il manifesto, 21 novembre

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