Intervista ad Eugenio Borgna

Eugenio Borgna fu tra i primi in Italia, nell’ospedale psichiatrico femminile di Novara, ad applicare principi e spirito della legge Basaglia. A proposito dell’omicidio della psichiatra Barbara Capovani da parte di un ex paziente afferma con forza che questa tragedia non possa mandare in soffitta la legge che ha chiuso i manicomi e cambiato radicalmente il rapporto tra «normalità» e «follia».

Professor Borgna, la morte della dottoressa Capovani non mette in crisi anche la stessa psichiatria?
Certamente, questa vicenda terribile ci colma di angoscia ma ci dice anche dei limiti della psichiatria così come di ogni altra disciplina. Limiti di cui dobbiamo essere consapevoli.

In questi casi non è possibile prevenire o in qualche modo comprendere in anticipo le intenzioni del malato?
No, quando i sintomi psicotici esplodono in modo così improvviso e conducono a tragedie come questa. La violenza può esplodere in modo talmente rapido e imprevedibile che qualsiasi interpretazione dei sintomi, posto che si avvertano, non consente di impedire l’esplosione.

Significa che non si può far nulla o ci sono margini?
I farmaci che oggi sono a disposizione hanno una grandissima efficienza; è fondamentale intervenire quando ai sintomi psicotici si accompagnano gesti di violenza che possono poi sfociare nei drammi di cui stiamo parlando. Va ricordato che c’è un limite alla nostra capacità di sondare il mistero della follia, mondo complesso che in parte sfugge a un approccio solo razionale; in ogni caso resta sempre una parte che non riusciamo a decifrare, e magari da lì si può scatenare ciò che porta al dramma.

Cosa ha pensato quando ha saputo di questa tragedia?
Il mio pensiero è corso a una bravissima collega che si è messa al servizio della fragilità, per accompagnarla, aiutarla, alleviarne le sofferenze. Ho provato un enorme dolore per questa dottoressa straordinaria che ha dato la vita per aiutare gli altri.

Adesso però c’è chi invoca una modifica radicale o la cancellazione della legge Basaglia: se quel paziente fosse stato chiuso in un ospedale psichiatrico non sarebbe accaduto. E’ così?
Assolutamente no. Questa è una reazione di tipo puramente emotivo, contraria a una riflessione rigorosa. L’apertura dei manicomi ha semmai diminuito i comportamenti violenti, ha permesso il recupero umano e sociale di tantissime persone. Riaprire i manicomi è come riaprire le carceri: purtroppo si guarda a quella struttura come fosse la soluzione dei problemi, ma non è così; eventi violenti accadevano anche nei manicomi più sorvegliati. Oggi per affrontare i casi più gravi ci sono le Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Sono strutture sanitarie per accogliere autori di reato, ritenuti infermi o seminfermi di mente e socialmente pericolosi; differenza fondamentale coi manicomi è che qui c’è un percorso di riabilitazione delle persone.

Nella sua esperienza nell’ospedale psichiatrico di Novara si è mai trovato a gestire pazienti violenti e quindi pericolosi anche per gli operatori sanitari?
Novara era una struttura femminile ed è accertato che i gesti di violenza in questo settore sono fondamentalmente maschili. Non mi sono mai accadute situazioni di questo genere, anzi, ho trovato tantissima umanità nelle pazienti.

Marcello Giordani, La Stampa, 27 aprile

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *