Ernest vive in un palazzo di Barriera di Milano, quartiere settentrionale di Torino. Di fronte alla pensilina del tram di corso Giulio Cesare appaiono le insegne dei minimarket, un angolo dove si frigge il pollo, gli annunci di un’agenzia immobiliare, una parrucchiera. Qui il corso incontra via Sempione, una strada che s’affaccia su un profondo fossato dove cresce una selvaggia natura urbana di rovi. Questo solco è chiamato “il trincerone” e nel secolo scorso passava una linea ferroviaria che collegava gli snodi industriali allo scalo merci di Vanchiglia. Ora i governanti della città immaginano il percorso d’una nuova linea della metropolitana: da Porta Nuova alla stazione di Rebaudengo Fossata, attraverso il vecchio scalo merci e il trincerone. Certo i sogni del governo urbano sono estranei agli incubi di Ernest: ora la sua famiglia è minacciata da uno sfratto imminente.
Ernest abita in un immobile di Giorgio Molino, uno dei più ricchi palazzinari della città, proprietario di centinaia di immobili. «Sono un cittadino nigeriano – racconta Ernest – e abito qua a Torino dal 2005. Io ho affittato una casa di Molino nel 2015, da quell’anno fino ad adesso io ho sempre pagato, però due anni fa Molino mi dà lo sfratto. E io chiedo: “Perché mi dai lo sfratto?”». Ernest ha interrotto il pagamento delle bollette dell’acqua quando il boiler ha smesso di funzionare e il proprietario si è rifiutato di ripararlo. Per la morosità dell’utenza le procedure di sfratto sono iniziate due anni fa, ma Ernest ha versato i soldi dell’affitto fino a questo dicembre, quando è arrivata la prima ingiunzione dell’ufficiale giudiziario. I funzionari del proprietario rassicuravano Ernest: «Dicevano: “Ernest, guarda, tu sei un bravo ragazzo, rimani in casa e continua a pagare”. Io mi sono fidato». Molino ha incassato le quote d’affitto mentre proseguiva la procedura legale di sfratto. «Adesso io non lo so dove posso andare, ho famiglia, non lo so dove posso abitare». Ernest vive con la compagna e i loro due bambini, la più piccola ancora in fasce.
Ernest paga quattrocento euro per una casa con due stanze e un angolo cottura. Il bagno è fuori dall’appartamento. Non ha riscaldamento, sulle pareti resta l’ombra dei termosifoni; i muri sono marci per le infiltrazioni d’umido. Quando scorre l’acqua del lavandino, i tubi fallati lasciano percolare gocce sul capo del vicino di sotto: «Quando tu vuoi fare la doccia, tu apri l’acqua e l’acqua arriva sotto in casa di un’altra persona, dentro la camera». Il palazzo è fatiscente: nessuno pulisce le scale, i soffitti sono muffiti, il portone è rotto ed è sempre aperto, i fili dell’elettricità pendono scoperti e fino a poco tempo fa mancava la luce nelle aree comuni. Sono stati gli abitanti a montare dei piccoli neon sopra le rampe. Molino non spende alcunché in riparazioni perché questo palazzo, come tante altre sue proprietà, è soltanto una macchina di profitto che succhia i pochi averi di lavoratori, stranieri, marginali che non hanno accesso a case più dignitose. «Io ho fatto un sacco di giri per cercare un’altra casa, ma mi serve tempo!».
Il 28 febbraio il proprietario ha eseguito lo sfratto di un abitante dello stesso palazzo. È arrivata la polizia e per tutto il giorno gli oggetti dell’inquilino cacciato sono rimasti all’aria aperta in abbandono. Tre giorni dopo l’alloggio ospita nuovi inquilini disposti a versare l’affitto a Molino. L’imprenditore sa che là fuori, in città, famiglie senza casa, sfruttate e straniere sono costrette ad accettare le sue condizioni. Così ogni abitante vive con la costante minaccia dello sfratto non appena ha difficoltà a saldare una sola mensilità. Sostiene Ernest: «Il 16 febbraio [data del secondo accesso] vengono a casa mia l’ufficiale giudiziario, i carabinieri e l’avvocato di Molino. Io dico loro: “Guarda, io non so dove posso andare, io in otto anni ho pagato quasi quarantamila euro di affitto! Come fai a buttarmi fuori”. L’avvocato: “Tu devi andare via”. Hanno detto che devo stare solo tre settimane». La proprietà domina arrogante perché le forze dell’ordine intervengono solerti. «Il 7 marzo [giorno del terzo accesso] mi serve una mano perché lui è molto forte, e lui ha fatto una truffa! Mi ha chiesto i soldi anche dopo [l’avvio della procedura di] sfratto e io ho sempre pagato. Anche quelli della polizia sanno che quello che lui fa è una truffa e non va bene». Gli agenti possono pur conoscere la situazione, ma da decenni appoggiano l’impero immobiliare di Molino.
Ernest è stipendiato da un’agenzia di collocamento, ma una cooperativa stabilisce ogni giorno il suo lavoro: stipa nei tir confezioni di caffè appena uscite dallo stabilimento Lavazza; sposta pacchi nel polo logistico SDA di Settimo Torinese; scansiona codici a barre in DHL; ancora muove fondali di scena nel magazzino del teatro Regio, situato nell’estrema periferia settentrionale della città. Poi il pomeriggio e la sera tiene aperto il suo piccolo negozio. «Alle sei o alle sette di mattina inizio e lavoro fino alle quattro di pomeriggio» – racconta Ernest. «Poi vado a casa e mi faccio una doccia e vado in negozio. E sto lì fino alle due, alle tre o alle quattro di mattina». Dorme tre, quattro ore ogni notte. Vende la sua forza lavoro alle imprese italiane per ricavare quegli spicci che arricchiscono il più influente palazzinaro della città.
La storia di Ernest è uno specchio che riflette le contraddizioni di Torino. Nella sua voce risuona lo sfruttamento sul lavoro, la carenza taciuta di case popolari, il razzismo endemico dei locatari, il profitto rapace della proprietà immobiliare, il silenzio o la connivenza delle istituzioni. In questo palazzo di corso Giulio Cesare sembra d’osservare l’altro versante della riqualificazione: la speculazione qui non si fonda sull’innalzamento del valore delle case, ma sull’estrazione capillare delle esigue risorse di chi è stato cacciato dal centro ed è costretto a vivere in tuguri, e senza alternative. Al momento queste sono intuizioni per possibili linee d’inchiesta. Non riesco a immaginare il numero di proprietà di Molino, le sue modalità di gestione, chi lavora al suo servizio e quali metodi utilizza, in che modo i palazzi vengono comprati e adibiti a dimore per disperati. Sospese restano le domande; importante ora è raccogliere tutta la solidarietà possibile per l’alba del 7 marzo, il giorno del terzo accesso.
Francesco Migliaccio