Grande scrittore spagnolo e uno dei più grandi del nostro tempo. Capace di narrare i drammi interiori dell’umano con la leggerezza di uno sguardo apparentemente distaccato ma carico di pietas.
Come ci racconta Francesca Borrelli, su il manifesto, Javier Marias diceva che: “pensare letterariamente vuol dire avere il vantaggio di potersi contraddire, anche infinite volte all’interno dello stesso testo, oppure da un libro all’altro“. Ma di sé come scrittore pensava, divertito: “sono il contrario del romanziere che sa tutto già prima di cominciare a scrivere, so più o meno dove voglio andare, ma non seguo nessuna carta e perciò talvolta mi trovo davanti a un precipizio senza sapere che c’era. Piuttosto osservo una disciplina secondo la quale non rettifico mai quello che ho scritto. Alla scrittura applico lo stesso principio di conoscenza che, per causa di forza maggiore, appartiene alla vita: non si può modificare quel che è stato“.
La letteratura è finzione anche per Marias, ma non solo, per questo diceva: “bisogna dover convivere con l’inganno. E’ faticoso non poter essere mai la stessa persona: spesso non è questione di grandi inganni, ma del fatto che nessuno di noi si presenta a persone diverse nello stesso identico modo. Tra l’altro, è necessaria una grande memoria per essere coerenti con noi stessi, per ricordare cosa abbiamo trasmesso di noi alle diverse persone con le quali siamo entrati in contatto“.
Ogni romanzo diventa così uno scavo possibile nell’umano anche quando narra di spie o bibliotecari. Ho scorto nei suoi romanzi un’idea totale di letteratura in cui vita, persone, politica si confondono fino a divenire una possibile lettura della realtà, con una ironia un po’ cinica che ci da la misura del presente. Mentre lo leggevo mi veniva spesso in mente il Musil dell’Uomo senza qualità, senza assomigliargli.