Il 28 marzo 1942, moriva di tubercolosi polmonare, in una tetra e dimenticata prigione di Spagna, il poeta Miguel Hernández. Aveva 32 anni.
La fame, gli stenti, le privazioni, il duro trattamento carcerario riservato “ai politici,” cioè agli sconfitti di parte repubblicana, casualmente o miracolosamente scampati alla vendetta e alle fucilazioni dei falangisti, e infine l’assoluta mancanza di medicinali, di cure, di assistenza medica e ospedaliera avevano fiaccato e quindi demolito – dopo lunghi mesi di malattia e quattro di vera agonia – la giovane e robusta fibra dell’ex pastore, dell’ex miliziano, del più sorprendente, umano e profondo poeta di quella che potrebbe essere definita la generazione sacrificata della letteratura spagnola contemporanea.
“Aqui me ajusticiaron lentamente”- qui mi hanno giustiziato lentamente – gli farà dire Pablo Neruda. E difatti, mentre il mondo era “distratto” dalle vicende del conflitto mondiale, il dittatore Franco aveva potuto lentamente e tranquillamente fucilare o lasciar morire varie migliaia di repubblicani democratici, e tra questi Miguel Hernández.
Ciò che sconcerta nella morte di Miguel Hernández è proprio la precisione, la volontà meditata con cui viene rinchiuso, isolato, torturato, ucciso, per metterlo a tacere, perché di lui ci si dimentichi.
E per un certo tempo la sua poesia resterà nell’ombra, così i segni del suo travaglio umano. Ma per reazione la sua figura divenne poi richiamo continuo, quale simbolo di liberazione e di critica polemica fra le generazioni intellettuali di Spagna.
Qui di seguito il “ricordo” di Miguel Hernández scritto da Francesca Lazzarato, apparso su il manifesto del 30 aprile, in occasione dell’uscita di una preziosa antologia, Poesie d’amore e di guerra, a cura di Gabriele Morelli, pubblicata da Elliot.