la Società della cura :: tavolo Disarmo Pace Giustizia globale

Afghanistan: qualche certezza e alcune domande

La prima certezza è che questa guerra non si doveva fare. Dopo 20 anni di occupazione militare, con 250.000 morti e sei milioni di profughi alle spalle, la “libertà duratura” promessa è ancora una chimera. I paesi che l’hanno voluta o che vi hanno partecipato dovrebbero assumersi tutta la responsabilità per le condizioni attuali del paese. Dopo anni di propaganda l’amministrazione statunitense ha ammesso che il futuro della popolazione afgana e dell’assetto del paese non era tra gli obiettivi della guerra. Ma allora questi 20 anni a che cosa sono serviti, se non ad arricchire i produttori di armi e i contractors presenti sul terreno?

Questa guerra non si doveva fare non solo perché la guerra non è mai una soluzione. La società civile mondiale, il movimento contro la guerra avevano messo in guardia dall’illusione che si potesse contrastare in tal modo un fenomeno politico come il terrorismo (vediamo oggi gli attacchi suicidi a Kabul)  e che si sarebbero dovute percorrere altre strade, a partire dal contrastare l’esportazione delle ideologie fondamentaliste dall’Arabia Saudita, investendo nello sviluppo e nella riduzione del divario economico tra i paesi a maggioranza islamica e i paesi occidentali, risolvendo finalmente la questione palestinese, riconoscendo i diritti del suo popolo ( politiche ben più efficaci delle ovvie operazioni di intelligence e di polizia). Invece si sono continuati a coltivare rapporti di complicità con i regni assolutisti del Golfo, si sono sprecati miliardi in armamenti, si è continuato a destabilizzare il Medio Oriente con la guerra all’Iraq.

È fin troppo facile oggi dire che se i 2300 miliardi di dollari (più di 100 volte il PIL afgano del ventennio) impiegati per foraggiare attraverso la guerra l’apparato militare industriale fossero stati spesi in infrastrutture per lo sviluppo oggi la popolazione afgana sarebbe in una diversa condizione, anche dal punto di vista delle donne, del rispetto dei diritti umani, della diffusione dell’estremismo religioso violento.

Non siamo solo di fronte al disastro dell’intervento militare in Afghanistan, dopo Iraq, Siria, Libia ecc. Per quanto  riguarda il nostro paese è il disastro delle strategie  internazionali prima che militari dell’Italia, e la nostra perdurante subalternità “atlantica”. Scelte errate in cui  va riconosciuta la responsabilità dell’Occidente nel fomentare il fenomeno del fondamentalismo per annientare i tentativi di costruire indipendenza e democrazia e far valere i diritti fondamentali di donne e uomini, in tutto il Medio Oriente.

La seconda certezza è che i paesi che hanno fatto la guerra devono assumersi la responsabilità di sostenere e proteggere coloro che, per qualsiasi ragione, siano o si sentano, a rischio per il ritorno dei talebani al potere, aprendo corridoi umanitari che durino nel tempo e non solo fino a che i riflettori sono accesi e riconoscendo il diritto di asilo. Ma occorre soprattutto che si sostengano nel tempo coloro che per scelta, per possibilità o per necessità, resteranno nel proprio paese per avviare la resistenza civile, come già dichiarato da varie associazioni, tra cui RAWA, associazione per i diritti delle donne.  Sono infatti migliaia se non decine di migliaia i fratelli e le sorelle che in Afganistan resteranno a continuare quel lavoro lento, ma necessario per costruire giorno dopo giorno un paese migliore contro l’intolleranza religiosa. Chi oggi vuole farsi carico del destino delle donne afgane deve far sì che, sulla società civile afgana, avvocati/e, giornalisti/e, insegnanti, attivisti/e per i diritti umani non si spengano i riflettori e venga programmato un forte sostegno negli anni a venire. Sono queste persone, e non i corrotti membri del vecchio governo che dovrebbero essere riferimento delle comunità internazionale, in ogni caso questi continueranno ad essere nei prossimi anni i nostri interlocutori e interlocutrici.

La terza certezza è che bisogna evitare che, finita la guerra avviata dagli Usa, ricominci la guerra civile intra-afgana. È una responsabilità soprattutto occidentale evitarlo. E le Nazioni Unite dovrebbero giocare un ruolo in questo. Non era un paese “normale”, tanto meno uno stato democratico, quello che gli eserciti occidentali avevano costruito in Afghanistan. Il paese è in guerra da oltre 40 anni, più di una generazione non ha vissuto un solo giorno di pace. L’economia non esiste o è sopraffatta dalla produzione di oppio, dalla corruzione che pervade apparati politici e militari o dalla economia di guerra. L’esercizio della vita civile, con i diritti fondamentali, è pressoché impossibile.

La ripresa del conflitto armato interno oltre che provocare ancora vittime e profughi continuerebbe a rafforzare solo chi controlla armi e armati riportando l’Afghanistan agli anni in cui era dilaniato dagli scontri tra i signori della guerra (una parte dei quali – non dimentichiamolo – è entrata nel Governo filo occidentale) e impedirebbe che si avvii quella resistenza civile che sola può permettere al paese di uscire dalla emergenza.

Qualche domanda scomoda:

La prima domanda è: quale è l’esatto contenuto del trattato di Doha? Gli Stati Uniti hanno trattato da soli, senza coinvolgere né il governo afgano, né gli alleati, le condizioni della propria evacuazione dal paese concludendo un trattato il cui testo non è noto, in alcune parti, nemmeno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Quali condizioni sono state concordate? A giudicare dalle conseguenze non sembra che il futuro della popolazione afgana sia stato tenuto in grande considerazione. La presa del potere dei talebani faceva in qualche modo parte degli accordi?

La seconda domanda è: quale è stato il ruolo della cooperazione internazionale? 70 miliardi di aiuti allo sviluppo riversati nel paese in 20 anni, quasi 4 volte il Pil annuo, non hanno sviluppato un bel niente. Al di là dei numerosissimi episodi di buona cooperazione e di solidarietà tra società civili viene da chiedersi se gli aiuti allo sviluppo nel loro insieme non abbiano, suo malgrado, svolto il ruolo di puntellare un governo corrotto e inviso alla popolazione.

La terza domanda è: da cosa dipende la straordinaria rapidità della presa del potere dei taliban? Basta la debolezza del governo e la loro forza militare a spiegarla o c’è anche una base di consenso nella popolazione (e in tal caso in quali strati della popolazione) che comunque (magari al di fuori dei centri urbani principali) considerava gli eserciti occidentali eserciti di invasori? E perché l’esercito non ha difeso nemmeno per un momento il governo in carica?

Ancora più complesso e sicuramente prematuro, dato che ancora non si è costituito un governo, è rispondere alla quarta domanda su quale tipo di rapporto pensiamo che il nostro paese debba avere in futuro con lo stato e il governo afgani.

Un’altra domanda ci riguarda direttamente: come facciamo a smontare questa narrazione retorica imperante che riguarda prevalentemente, ma non esclusivamente, le donne, secondo cui si passerebbe da anni di diritti e di libertà portati dall’occupazione al baratro dell’oppressione e repressione talebana?

Un’ultima domanda: se riteniamo che l’uscita dalla NATO sia ora più necessaria che mai, come costruiamo  una voce unitaria per rivolgersi alla popolazione, superando le divisioni all’interno dei movimenti che minano la credibilità necessaria di questa scelta?

Chi ha imbracciato l’esportazione  dei “diritti umani” (mentre li nega continuamente al proprio interno)per scatenare guerre disastrose ha commesso (USA e NATO) crimini di guerra che andrebbero perseguiti. Occorrerebbe chiamare la Corte Penale Internazionale ad esprimersi su questo, (a partire anche dalle rivelazioni di WikiLeaks e di Assange, che sta rischiando una pena peggiore dell’ergastolo).

E non dimentichiamo che deve ancora essere chiusa con giustizia la vicenda vegognosa delle detenzioni illegali nella prigione di Guantanamo, su cui Peacelink sta lanciando una campagna, che va sostenuta.

https://www.peacelink.it/campagne/index.php?id=102&id_topic=4

Per concludere, proponiamo queste note alla discussione della SdC, insieme alla proposta di realizzare, con i tempi necessari, un seminario aperto a tutt* gli/le interessat*  che affronti, insieme ai temi che abbiamo cercato di delineare, le prospettive possibili di una diversa necessaria politica internazionale. Tutti i commenti e suggerimenti sono graditi e utili per formulare quanto prima una bozza di programma.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *