In Tunisia è caccia ai migranti subsahariani

Il governo italiano proseguendo la sua politica razzista e di demolizione del diritto internazionle finanza “la caccia” ai migranti subsahariani in Tunisia: ha stanziato a favore di quello tunisino un programma di 20 milioni per riportare a casa 3mila migranti. Ne scrive Alessandra Fabbretti su il manifesto: arbitrio, violenza e diritti umani calpestati.

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«Vi prego aiutateci, non sappiamo dove andare e, se ci prendono, non sappiamo che fine faremo». L’appello arriva da Yahya, un migrante originario della Guinea, che ci chiama da una zona remota della Tunisia, tra gli uliveti di Sfax: da giovedì è in atto una maxioperazione per distruggere le piccole tendopoli informali che si estendono per chilometri, tra Chebba e Sfax. Molte persone sarebbe state arrestate e attualmente in corso di rimpatrio.
Nelle località di Al-Amra e Jebniana, a pochi passi dalla costa orientale, da tempo si sono costituite tendopoli di migranti e rifugiati dell’Africa sub-sahariana, tra cui vivono anche donne e bambini. In totale sono circa 20mila, secondo le stime delle autorità di Tunisi. Fino a tre giorni fa gli sgomberi avvenivano saltuariamente, ma ora le cose sono cambiate. Sono state prese di mire soprattutto le tendopoli al «chilometro 19» e al «chilometro 24».

Il portavoce della Guardia nazionale tunisina, Houssem El Din Jebabli, ha rivendicato l’operazione: «Gli sgomberi avvengono pacificamente», ha detto giovedì ai media locali, aggiungendo che le oltre 4mila persone residenti «saranno trasferite in centri d’accoglienza. La maggior parte di loro ha chiesto volontariamente di essere rimpatriata». La scorsa settimana il presidente Kais Saied – noto per la sua politica anti-migranti – ha fatto appello all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) affinché acceleri «i rimpatri volontari». Questo aggettivo è contestato da giuristi e ong, che ritengono non sia possibile scegliere liberamente nelle condizioni in cui versano i migranti nei paesi nordafricani. In ogni caso mercoledì scorso il governo Meloni ha stanziato a favore di quello di Tunisi un programma di 20 milioni per riportare a casa 3mila migranti.
Yahya racconta: «Nei giorni precedenti agli sgomberi gli agenti ci hanno chiesto se volevamo tornare nei nostri paesi. Ieri abbiamo scoperto che chi ha accettato è stato abbandonato nel deserto, tra Algeria e Tunisia». Notizie difficili da verificare, ma una conferma arriva da Majdi Karbai, ex deputato e attivista tunisino in esilio in Italia: «Riceviamo resoconti secondo cui la Garde nationale lascia i migranti nel deserto, oltre i confini di Algeria e Libia», un’accusa che da tempo pende sul governo di Tunisi, che per la gestione del fenomeno migratorio percepisce decine di milioni di euro dall’Unione europea e dal governo Meloni, il quale ha fornito anche motovedette alla Guardia costiera tunisina per fermare le partenze.

A fronte di questo sostegno economico, come avverte ancora Karbai, «non esiste un piano per accogliere e integrare» i cittadini stranieri già residenti in Tunisia: «Ad esempio, non è vero che ci sono centri d’accoglienza per le persone che stanno sfollando e lasciando senza un tetto. Intanto vietano a giornalisti e attivisti di avvicinarsi per evitare che escano notizie».
Al telefono raggiungiamo Hassan, che sta fuggendo insieme a Yahya tra le campagne. Racconta: «Stamattina tantissimi agenti sono arrivati con una trentina di ruspe. Hanno sparato colpi d’arma da fuoco in aria e poi lacrimogeni per allontanare la gente. Poi hanno abbattuto la tendopoli con le ruspe e dato alle fiamme il resto. Hanno distrutto persino una piccola clinica medica informale». Chiediamo se abbiano visto osservatori internazionali o operatori umanitari oltre agli agenti: «No». «Abbiamo fame e sete – riprende Yahya – e qui non c’è niente. Presto i nostri smartphone si scaricheranno».

Le politiche del presidente Saied hanno imposto limitazioni ai migranti subsahariani nell’accesso a lavoro, casa e servizi di base. Al contempo sono state varate leggi che limitano la libertà d’azione delle ong e dei difensori dei diritti umani.
Mohammad, che vive in un campo informale dove le ruspe non sono ancora arrivate, lamenta: «Se ci cacciano non avremo altro posto dove andare. Ci sono anche dei neonati qui. Noi migranti non possiamo lavorare né avvicinarci a città e villaggi, neanche per fare la spesa perché rischiamo di essere picchiati e rapinati. Paghiamo a caro prezzo l’acqua di alcuni pozzi dei contadini, ma è contaminata e abbiamo continuamente problemi intestinali e alla pelle»

Alessandra Fabbretti, il manifesto, 6 aprile 2025

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