È un libro breve ma di una densità prodigiosa. Il pensiero meticcio (Elèuthera, pp. 128, euro 13.30) di François Laplantine e Alexis Nouss, perché affronta due temi chiave dell’attualità: meticciato e identità. In questo caso, la critica radicale dell’identità viene dalle proposte creative e sperimentali del pensiero meticcio e delle sue pratiche: dalla lingua alla cultura, dalla filosofia all’arte, per arrivare all’etica.
Il pensiero meticcio è un pensiero transculturale in cui ogni differenza non allude a privilegi né ad alcuna discriminazione. La transcultura esige che gli uomini, migranti o meno, godano delle medesime possibilità e scelgano privi di vincoli comunitari, dove, come e quando vivere. Ogni persona ha il diritto di essere valorizzata nella sua unicità e irrepetibilità, nella sua continua trasformazione, nella sua continua negazione di purezza originaria. Invece l’identità – l’opposto del pensiero meticcio – è presieduta dalla logica binaria del principio di non contraddizione, e come tale pone le basi per una cultura fondata sulla logica dell’essere, contrapposta a quella del divenire: è ostile al «pensiero del fuori» e l’unico rapporto possibile della logica identitaria – a livello individuale e sociale – con l’altro da sé non può che essere quello a cui mette capo ogni fanatismo, che proprio da tale logica si alimenta, con la violenza della discriminazione.
Identità è parola-bandiera per partiti e movimenti reazionari e conservatori, eppure questo concetto è diventato un simulacro e aspetta di essere spazzato da un emancipatorio movimento sociale, è necessario solo renderlo evidente, come fanno Laplantine e Nouss. La spinta sincretica del meticciamento produce un duplice effetto, speculare: da una parte mostra una pericolosa tendenza all’omologazione e al «pensiero unico» e dall’altra alimenta ideologie fortemente identitarie che vedono qualsiasi mescolanza come una contaminazione. L’idea di meticciato si propone di trovare un’alternativa tanto all’osmosi quanto alla chiusura in nome di un’inesistente purezza.
Si tratta di mettere in discussione una certa concezione dell’universalismo, fatta di standardizzazione, livellamento e uniformità, per affermare un pensiero in divenire che, attraverso il confronto e il dialogo, diventi il vettore cosciente di quei mutamenti incessanti che costituiscono l’umano e il reale. L’ossessione identitaria ha ricevuto negli ultimi decenni diversi colpi demolitori.
Dagli studi di Luigi Luca Cavalli-Sforza, che hanno trovato nell’attuale patrimonio genetico dell’uomo i segni lasciati dai grandi movimenti migratori del passato, azzerando definitivamente ogni idea di razzismo biologico; alla critica radicale dell’identità sessuale di Judith Butler: la costruzione del soggetto sessuato, desiderante, non è una scelta, ma una conseguenza del discorso disciplinare; alle proposte di Anna Camaiti Hostert, per cui il passing è l’abbandono dei punti di vista obbligati da cui si è presa la parola e si è osservato il mondo fino ad ora, è attraversamento, divenire; ai saggi di Francesco Remotti: l’identità è un modo distorto di guardare al passato che impedisce di pensare il futuro. Bisogna sottrarre l’identità alla logica essenzialista, sostiene l’antropologo Anthony Appiah, e analizzarla con uno sguardo intersezionale: guardare all’interazione e al conflitto tra le diverse dimensioni dell’identità, di razza, di genere e di classe, andando oltre la semplice sommatoria di questi diversi aspetti, e analizzando piuttosto la produzione di ricombinazioni inedite.
Non esiste un’identità stabilita per sempre ed è necessario quindi mettere in divenire le culture con l’esercizio della proliferazione di differenze. Se le rivendicazioni identitarie producono diversità simulacrali, ripetizioni di differenze codificate, funzionali alle logiche di dominio, le diversità prodotte dal meticciamento sono invece parte della politica creativa contro le nuove forme di sovranità e omologazione.
Come affermano gli autori: «Il meticciato è sempre in movimento, animato alternativamente dalle sue diverse componenti. La sua temporalità è quella del divenire, una costante alterazione, mai compiuta, una forza che va, il vettore dei mutamenti incessanti che costituiscono l’uomo e il reale».
Eric Tibaldi, il manifesto, 18/12/2024