Perché siamo tutti diversi? Perché le piante sono diverse dagli animali, e i pesci dai mammiferi, le lepri dai cani, i mastini dai bassotti, e anche fra i bassotti non ce ne sono due uguali? Nel 1970, nel saggio Il caso e la necessità (una citazione di Democrito), Jacques Monod, premio Nobel per la medicina, contrappone due possibili risposte:siamo così, ma potremmo essere diversi (il caso), oppure: siamo così per qualche ottimo motivo, e non potremmo essere diversi (la necessità). Trent’anni dopo un biologo evoluzionista, Stephen Jay Gould, propende per la prima: «se potessimo riavvolgere il film della vita e poi farlo ripartire, non arriveremmo dove stiamo adesso».
La vedeva così anche Lucrezio. «In qualche luogo e tempo non definiti», scrive, «gli atomi in eterna caduta deviano dalla loro traiettoria». Questa deviazione, questo clinamen, è indispensabile: se non ci fosse, gli atomi proseguirebbero in linea retta, senza mai unirsi fra loro a formare gli oggetti. Così, invece, si producono combinazioni sempre nuove, in maniera meccanica e imprevedibile.
Il ruolo del caso e della necessità è stato centrale nel dibattito sull’evoluzione. Jean-Baptiste de Lamarck si studia a scuola come uno che aveva torto, contrapposto a Darwin che aveva ragione. È stato però uno scienziato importante, le cui idee hanno aperto la strada alla teoria darwiniana. Lamarck, questo sì, sbagliava quando sosteneva che si potessero trasmettere ai figli i caratteri acquisiti. È la famosa storia delle giraffe che, protendendo il collo per mangiare foglie sempre più in alto, alla lunga avrebbero sviluppato colli sempre più lunghi. Non va così: anche allenandoci tutta la vita a correre, i nostri figli non nasceranno con muscoli più potenti. Lamarck pensa che le forze naturali spingano in direzione di un fine, di un punto d’arrivo; Darwin ribatte che non ci sono fini, ma solo cause. Chi ha caratteristiche più adatte all’ambiente in cui vive lascia in media più figli degli altri: un po’ alla volta, queste caratteristiche si diffonderanno mentre le altre diventeranno più rare o spariranno. È la selezione naturale. Al ragionamento di Darwin mancava però un passaggio fondamentale. Lamarck spiega le differenze fra gli organismi come frutto dell’interazione con l’ambiente, dell’uso minore o maggiore di certi organi; è una spiegazione sbagliata, ma completa. Per Darwin, invece, le differenze preesistono, e l’ambiente si limita a eliminare quello che non funziona. Ma se le differenze preesistono, da dove vengono? Darwin ammette di non saperlo.
C’è voluto qualche decennio per capire che Lucrezio e Darwin avevano ragione anche in un altro senso. Il punto di partenza di tutta questa storia, l’origine delle differenze fra viventi, sta in fenomeni casuali. Oggi il clinamen, cioè la fonte della diversità biologica che Darwin non sapeva individuare, ha un nome: è il processo di mutazione, che colpisce il DNA, appunto, in luoghi e tempi non definiti. Attenzione, non vuol dire che nell’evoluzione tutto è casuale. Il nostro essere bipedi e le straordinarie dimensioni del nostro cervello, ma anche la tendenza a ammalarsi di certe malattie; e il colore della pelle; e le nostre diverse capacità di digerire il latte o di utilizzare l’ossigeno alle alte quote: tutto questo non si è evoluto per caso, ma rappresenta una serie di adattamenti all’ambiente, avvenuti secondo modalità che Charles Darwin per primo ha descritto correttamente. Ma la selezione naturale, cioè la necessità, non potrebbe entrare in azione se il caso, cioè la mutazione, non avesse creato differenze nel DNA degli individui (piante, animali, e anche microorganismi) che compongono le popolazioni.
Un esempio, per capirci. Per digerire il lattosio, lo zucchero del latte, ci vuole un enzima che tutti produciamo nei primi anni di vita: la lattasi. Dopo lo svezzamento, invece, alcuni continuano a produrla, altri no; in questi ultimi il gene si spegne, e così il lattosio non digerito arriva ai batteri dell’intestino crasso, con conseguenti nausee, diarree e altri disturbi. Finché l’umanità viveva di caccia, nessuno beveva latte dopo i primi anni di vita; quindi un gene attivo non serviva, e anzi consumava energia; conveniva spegnerlo, e così è stato, per millenni. Poi, diecimila anni fa, la rivoluzione neolitica: l’umanità comincia a produrre il cibo, con l’agricoltura e allevando bovini, ovini, equini. Da allora in poi, ogni mutazione casuale che impedisca al gene per la lattasi di spegnersi diventa vantaggiosa, perché permette di continuare a utilizzare preziose fonti di energia, il latte e i suoi derivati. Queste mutazioni si diffondono per selezione naturale, ma possono diffondersi solo se ci sono, cioè se qualcuno le ha avute nel suo DNA. In Europa e in Africa è andata così, mentre nell’Asia orientale le mutazioni giuste non sono arrivate, e quindi non hanno neanche potuto diffondersi. Per questo cinesi e giapponesi sono quasi tutti intolleranti al lattosio e devono accontentarsi del tofu. Poteva andare diversamente: le mutazioni potevano benissimo capitare anche a qualcuno che stava in Asia, ma il caso ci ha messo lo zampino. Molte delle nostre differenze, fra noi umani ma anche fra animali e piante, sono frutto della selezione, cioè della necessità, ma derivano inizialmente da mutazioni imprevedibili: da un clinamen, sarebbe lecito dire, che avrebbe potuto portare a esiti differenti.
il manifesto, 29/11/2’24