“Dalle finestre della mia Università si vedeva un muro, che delimita lo spazio oltre il quale sono costretti a vivere i palestinesi. Immaginate, come se qui a Roma da quella finestra vedeste un muro oltre il quale vivono le persone nere…”. Daniel Mizrahi, obiettore di coscienza israeliano, attivista dell’associazione Mesarvot – Refusing to sefve the occupation, comincia così la sua testimonianza nel corso di uno dei tanti incontri organizzati in questi giorni in giro per l’Italia dal Movimento Nonviolento nell’ambito della Campagna Obiezione alla Guerra. “Quel muro mi ha cambiato lo sguardo – aggiunge Daniel – Fino a diciotto anni credevo nell’esercito e credevo ciecamente in quello che mi era stato raccontato a riguardo dei palestinesi. D’altro canto io non conoscevo, non avevo mai incontrato alcun palestinese. Questo è parte della strategia che ti porta a credere che siano il nostro nemico, e io ero pronto a fare la mia parte. Poi per fortuna ho ricevuto un permesso speciale per iniziare l’università prima di entrare nell’esercito; di norma non è così, e a diciotto cominci il tuo servizio militare convinto di aver potere di vita o di morte sul nemico, io a Gerusalemme ho iniziato a vedere e a dubitare della verità che mi era stata raccontata fino ad allora. È stato un percorso duro e difficile, che ho pagato con cinquanta giorni di prigionia e un elevato costo in termini sociali, ma dopo che mi si sono aperti gli occhi non potevo più fare diversamente: non volevo essere complice dell’apartheid vigente e non volevo avere la mani sporche di sangue”.
Accanto a lui è seduta Aisha Amer, palestinese, anche lei fa parte di Mesarvot: ”Io sono cittadina dello Stato di Israele, non so per quale motivo la mia città sia fuori dai confini della Cisgiordania, ma sono una cittadina di serie B, con diritti limitati. La mia città è piena di graffiti violenti e offensivi contro la mia gente, ma nessuno dice niente; siamo il 20 per cento della popolazione, ma viviamo nel 2 per cento del territorio, perché i coloni israeliani hanno nel tempo occupato più del 70 per cento del territorio, hanno anche abbattuto le nostre case con la scusa che non rispettavano i criteri edilizi appositamente stabiliti… All’Università ho conosciuto Daniel e ho sentito che la mia parte poteva e doveva essere quella di raccontare: io parlo l’arabo e parlo l’israeliano, questo mi permette di poter tradurre storie di vita che raccontino una verità diversa da quella che ci vuole mantenere nemici”.
Tarteel Al Junaidii invece è di Hebron ed è cresciuta circondata da checkpoint e dagli abusi dei coloni israeliani: “I palestinesi che vivono in questa violenza non sanno che possano esistere israeliani che non siano militari o coloni” per cui è entrata nell’organizzazione CPT – Community Peacemakers Teams, per raccogliere testimonianze, fare lavoro di advocacy e contribuire all’opera fondamentale di tenere alta l’attenzione internazionale.
Sofia Orr è pure lei attiva in Mesarvot: è stata reclusa nelle carceri militari israeliane per ottantacinque giorni per essersi rifiutata di indossare la divisa e farsi complice del genocidio. Racconta Sofia: “Volevo che il mio non rimanesse un atto privato, in primo luogo perché potesse servire a coinvolgere altri giovani israeliani e poi perché potesse arrivare anche a voi all’estero il rumore di una visione diversa della realtà. Quello che è in atto da tempo è un interminabile processo di deumanizzazione: solo se iniziamo ad ascoltarci e quindi a parlare possiamo trovare soluzioni per il futuro”.
Insieme ci raccontano di un sistema violento che costruisce violenza: è il sistema che va spezzato, c’è bisogno di rispetto dei diritti, di conoscenza, di dialogo, di ascolto reciproco. C’è un piccolo seme di speranza.
Cosa significa Mesarvot? Noi rifiutiamo.
ComuneInfo, 25 ottobre 2024