Il decreto 209 dell’ex ministro Profumo ha stabilito che, nell’anno scolastico 2014/2015, alunni e insegnanti dovranno avvalersi di libri di testo in versione digitale o mista. Quali saranno le conseguenze sulla didattica e la cultura? Un’intervista con il linguista Luca Serianni. Siamo infine giunti alla terza fase: dopo manoscritti e libri a stampa, l’ebook. Nella scuola italiana, inizia la rivoluzione digitale.
Intervista a Luca Serianni di Federico Gurgone
In base al decreto n. 209, firmato il 26 marzo dal ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Francesco Profumo, a partire dall’anno scolastico 2014/2015 alunni e insegnanti dovranno avvalersi di libri di testo esclusivamente in versione digitale o mista. Gli obiettivi dichiarati? Abbattere i costi per le famiglie, alleggerire gli zaini degli studenti, migliorare le competenze digitali dei cittadini italiani. Il 27 maggio è già polemica: l’Associazione italiana editori comunica in una nota di aver inoltrato ricorso al Tar del Lazio, non perché contraria ai libri digitali, ma ai «tempi e modi di realizzarne la diffusione» previsti dal ministro. Al di là dei dubbi sulla sua applicazione, è evidente l’impatto che il decreto avrà sulla didattica, meno chiara la qualità delle conseguenze. Ne abbiamo discusso con il linguista Luca Serianni, professore di Storia della lingua italiana presso l’università La Sapienza di Roma, accademico dei Lincei e della Crusca, vicepresidente della Società Dante Alighieri.
Diamo per scontato che uno studente si applichi diligentemente: cambia qualcosa se utilizza il tablet al posto di un libro?
In teoria, no: uno scopo può essere servito indipendentemente dallo strumento. Ci aiuta un paragone con il passato: l’avvento della stampa non ha eliminato la scrittura manoscritta. La cultura umanistica, in senso lato, procede per accumulo e non per sostituzione di paradigmi. Va quindi benissimo l’introduzione del tablet. Tuttavia, non necessariamente questo deve sostituire il libro tradizionale.
Del resto, la didattica della lingua si esprime attraverso tanti canali, il più importante dei quali è quello orale. Anche se carta e penna dovessero scomparire, il tramite indispensabile per mettersi in contatto con gli altri resterebbe comunque la lingua, qualunque aspetto assuma l’atto con il quale viene insegnata.
Diversi intellettuali parlano dell’affermazione di una fase della simultaneità in cui prevale una nuova percezione culturale non più basata sulla successione temporale e logica. C’entra questo con la diffusione delle tecnologie digitali?
L’informatica facilita l’accesso a una serie di notizie disposte tutte sullo stesso piano, senza quello spessore che è legato alla lenta e spesso difficile acquisizione della notizia, attraverso procedure stratificate nel tempo. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti quando ci imbattiamo in studenti che costruiscono una tesina il cui pur brillante risultato è, tuttavia, frutto di un assemblaggio di materiali che non rappresentano un minimo di approfondimento personale e che non danno nessuna garanzia di essere stati assimilati.
Possiamo evitare questi rischi soltanto se manteniamo accanto alla telematica, in vista di un progressivo arricchimento, altri canali: diversi sono i modi per costruire il proprio sapere; non si vede perché rinunciare ad un mezzo sostituendolo completamente.
È invalso il pregiudizio secondo il quale la tecnologia possa renderci incolti, facendo sembrare ai nostri occhi superfluo lo studio. Sembra di tornare al punto di partenza della storia: in un mito raccontato da Socrate nel «Fedro» di Platone, il sovrano egizio Thamus rifiutava il dono della scrittura, offertagli dal dio inventore Theuth, perché convinto che avrebbe reso gli uomini «portatori di opinioni invece che sapienti», indebolendo non tanto le loro conoscenze, quanto le competenze stesse…
D’istinto, ci sembrerebbe del tutto in torto Thamus, che risponde a Theuth di rifuggire dalla scrittura in quanto deprime la capacità di ricordare e, quindi, di assimilare. Eppure, se ci riflettiamo, il discorso non è assurdo proprio perché l’acquisizione del sapere funziona nel momento in cui noi la interiorizziamo. Anche Dante, nel V canto del Paradiso, diceva che «non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso». La possibilità di una banca dati, alla quale ricorrere, può effettivamente limitare la nostra personale costruzione di un percorso culturale: Thamus, paradossalmente, tutti i torti non li aveva.
La necessità di appropriarci dei contenuti, per rielaborarli autonomamente senza bisogno di consultare fonti, che siano scritte o digitali poco importa, è un aspetto cruciale che non dovrebbe essere trascurato e che supera la questione della simultaneizzazione di tutti i dati.
Anche l’oralità ha dovuto fare i conti con i miti istantanei e pervasivi proposti da tv e internet. La scuola ha bisogno del racconto?
Il racconto è fondamentale anche dal punto di vista della ricezione, non solo della costruzione. Gli adolescenti, da sempre, hanno una forte difficoltà a concentrarsi: è un’abilità, questa, che va coltivata; non è innata. Se è normale riuscirci senza fatica in presenza di un forte coinvolgimento, è più difficile con materie di studio che possiamo avvertire, soprattutto da adolescenti, come imposte, lontane da noi, noiose. Certamente il racconto, oltre a stimolare la capacità di crearsi un immaginario, è importante proprio perché educa alla concentrazione.
L’utilizzo a scuola di tecnologie digitali dovrebbe anche favorire la diffusione di metodi di apprendimento collaborativo. Al contrario, la lezione frontale, tanto criticata da alcuni pedagogisti, diventerà anacronistica?
Non farei una distinzione netta tra lezione frontale e sistemi cosiddetti collaborativi: non vedo perché si debba necessariamente scegliere tra l’uno e l’altro. Quello di cui sono sicuro è che l’insegnamento non possa essere rimpiazzato, soprattutto nelle fasi dell’adolescenza, da meccanismi telematici. Si può discutere se metodi simili possano funzionare per studenti universitari, e solo per certe materie, ma quando parliamo di un insegnante attivo nella fascia dei teen-ager il rapporto diretto, sia con i singoli allievi che con la classe nel complesso, è imprescindibile.
Anche se la telematica invade moltissimi spazi della nostra vita quotidiana, c’è ancora un settore che non si presta ad essere rappresentato nei suoi termini. È quello della psicologia: nessuno psicologo rinuncerebbe al contatto diretto con il paziente. Pur non volendo medicalizzare l’insegnamento, gli alunni hanno tuttavia bisogno di un rapporto profondo con il docente che non può fare a meno del tono di voce, di sguardi, di gestualità, di distanza: di prossemica. Certamente le lezioni frontali dovrebbero essere rinnovate, ma non rinuncerei mai alla rappresentazione dell’insegnante in qualche misura anche attore, istrione, che riesca ad accendere l’interesse di una platea di adolescenti grazie alle sue capacità di rappresentazione della realtà che descrive. Tutte capacità che sono inevitabilmente represse se, invece dell’insegnante in carne e ossa, noi vediamo un pur efficacissimo intrattenitore attraverso la mediazione di uno schermo.
Le più recenti politiche in materia di pubblica istruzione, all’apparenza, partono dal presupposto che le generazioni più giovani non siano in grado di relazionarsi con una cultura alta. Cosa bisogna pretendere da loro?
Che siano nativi digitali non cambia nulla: è opportuno mantenere sempre una molteplicità di stimoli e un’offerta elevata. Non possiamo illuderci che l’insegnamento scolastico debba, e soprattutto possa, venire incontro al gusto e all’interesse del discente. Ricordo una celebre formula di Gramsci, contenuta nei Quaderni del carcere, secondo la quale l’apprendimento consiste anche in una serie di operazioni molto faticose: abituarsi alla concentrazione, restare seduti a lungo in un’età in cui si è portati al movimento. Come è un dato di fatto che lo studio presenti un certo margine di difficoltà, così è sbagliato abbassare troppo il livello delle richieste.
Un bravo insegnante è quello che sa differenziare i risultati ottenuti, dando a tutti gli studenti la sensazione che possano raggiungere buone votazioni, pur senza volerli livellare a ogni costo. Non capisco quei docenti che tendono a restringere la gamma dei voti, non dando più di 7 e meno di 5. Visto che c’è a disposizione un margine più ampio, utilizzandolo da un lato si evita la drammatizzazione di un voto molto basso, se questo viene distribuito con ordinarietà, dall’altro non si toglie la soddisfazione di un 10 a chi se lo meriti. Il 10 è pur sempre una valutazione scolastica; non è la prerogativa esclusiva di un futuro premio Nobel. Si dà a chi lo ha meritato attraverso uno studio che ha saputo sviluppare le proprie capacità, dimostrando intelligenza.
il manifesto, 9/7/2013