Resta così fra noi, intatto, un autore amato perché svela che la vita è un continuo desiderare, il desiderio inappagato che resiste alla vita e le da senso. Qui riportiamo una splendida lettura di Kafka di Emilia De Rienzo apparsa su Comune
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In un tempo in cui tutto sembra potersi ottenere – informazioni, immagini, risposte immediate – Franz Kafka resta uno scrittore necessario. Ci ricorda che esiste un desiderio che non si appaga, una speranza che non coincide con il successo, un’inquietudine che non si lascia zittire.
Nel mondo della trasparenza e dell’efficienza, i suoi personaggi continuano a cercare ciò che non si trova: un senso, una giustizia, un riconoscimento. Eppure, nel loro fallimento, custodiscono qualcosa che noi rischiamo di perdere: la consapevolezza del limite, la dignità del domandare, la forza di non smettere di cercare.
Kafka ci parla oggi perché restituisce spessore al desiderio: non lo riduce a consumo o soddisfazione, ma lo riconosce come ferita, come tensione, come segno di una mancanza che è il cuore dell’umano. Kafka mette in scena esseri umani che cercano disperatamente un ordine, una legge, un riconoscimento, ma si trovano invece di fronte a un potere invisibile, impersonale, spesso assurdo. E tuttavia, in Kafka, il desiderio non scompare mai. Anche se irrealizzabile, rimane come spinta vitale che continua a bussare contro il muro del reale.
Ne La metamorfosi, Gregor Samsa si trasforma in insetto, ma dentro quella condizione disumana resta un desiderio umano di amore, di comprensione. Il desiderio rivela il vuoto del mondo così com’è. In questo senso Kafka non è un nichilista: mostra la mancanza di senso come una ferita che chiede risposta. Il desiderio non crea: urta, si infrange, si consuma contro ciò che non si lascia trasformare.
I personaggi di Kafka sono figure dell’attesa e della distanza. Josef K. non saprà mai di che cosa è accusato; l’agrimensore K. non entrerà mai nel Castello. Eppure entrambi continuano a cercare, a interrogare, a bussare. Non si arrendono, ma la loro ostinazione non produce salvezza: solo consapevolezza.
In Kafka la realtà è un muro, e il desiderio è la mano che continua a battervi contro, pur sapendo che non si aprirà. Non è un gesto inutile: in quel battere, in quella tensione senza sbocco, si rivela la condizione umana. L’uomo desidera ciò che non può ottenere, cerca un ordine che non trova, un senso che si nasconde. Ma proprio questo fallimento lo definisce: lo costringe a vedere la propria nudità, la propria fragilità, la sproporzione tra sé e il mondo.
C’è in Kafka una speranza paradossale. Non quella che promette un lieto fine, ma una speranza che resiste dentro il buio, come una brace che non si spegne. «C’è una quantità infinita di speranza, ma non per noi», scrive. È una frase terribile eppure consolante: significa che la speranza esiste, anche se non la possediamo. È altrove, in una regione che forse non appartiene all’uomo, ma che continua a illuminare le sue notti.
Il desiderio, in fondo, non serve a ottenere. Serve a ricordarci che qualcosa manca, che potremmo essere altro, che il mondo così com’è non basta. Kafka ci obbliga a restare in quella mancanza, a non voltare lo sguardo. È lì che si apre uno spazio fragile, ma reale, in cui la disperazione e la speranza non si escludono, ma si accompagnano: una dà forma all’altra, la tiene viva, la impedisce di diventare illusione. Per questo Kafka non è solo uno scrittore del disagio, ma della resistenza, di quella resistenza che nasce quando, anche nel buio, una mano continua a bussare. Non per aprire una porta, forse, ma per dire che siamo vivi
Emilia De Rienzo, Comune, 18 ottobre 2025
