Democrazia dal basso, dalla Siria del nord-est curdo verso sud

In una Siria ancora intrappolata in vecchi e nuovi settarismi, c’è chi dialoga: l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Daanes) ha avviato una serie di incontri con le comunità drusa e alawita. Ne abbiamo parlato con Fouza Alyoussef, rappresentante del consiglio di presidenza del Pyd (Partito dell’Unione democratica), intervenuta a Roma a metà aprile alla Conferenza del network europeo di solidarietà con il Kurdistan. Chiara Cruciani intervista Fouza Al Youssef (PVD)

Nel suo intervento ha definito il dialogo in corso tra Daanes e Damasco come la sola alternativa al momento. Perché?
Lo è perché in Siria l’opposizione è molto debole, il regime siriano non aveva permesso la creazione di un’opposizione democratica. Sotto il Baath, l’unico partito legale era quello baathista, era vietato fondare qualsiasi organizzazione. Le opposizioni più forti oggi sono antidemocratiche oppure legate alla Turchia, sia dal punto di vista militare che politico. Per questo Hts è l’unica forza con cui possiamo dialogare, non abbiamo altra alternativa: noi siamo in Siria e loro sono in Siria. Per costruire questo nuovo processo dobbiamo interloquire.

In merito al dialogo con Damasco, il 10 marzo scorso il capo delle Forze democratiche siriane Mazloum Abdi ha firmato un primo accordo con il presidente autonominato Ahmed al-Sharaa. Sono seguiti altri incontri? Si è giunti a definire il futuro delle Sdf?
Non c’è ancora nessun accordo tra le Sdf e Damasco. Quello che noi proponiamo è che le Forze della Siria democratica abbiano un posto autonomo all’interno del ministero della difesa, con un proprio battaglione e con una rappresentanza nel Comando generale dell’esercito e nel ministero della difesa. Inoltre, nell’esercito siriano non è prevista una forza delle donne, le Ypj non possono prendere parte a una forza confederale delle donne. Per questo vogliamo che siano autonome.

A proposito della presa del potere da parte di Hts, lei ha parlato di controrivoluzione. Perché?
C’è una rivoluzione che è quella del Rojava e poi c’è un’intenzione di distruggere questa rivoluzione. La rivoluzione non è necessariamente positiva, va intesa come un cambiamento radicale. Anche loro vogliono un cambiamento ma non in senso progressista.

Dopo i massacri di alawiti sulla costa occidentale, avete inviato delle delegazioni nella regione da cui sono scaturiti i primi comitati popolari. Sono già attivi?
Le popolazioni della costa non avevano nessun tipo di assemblea o di comitati, non c’era possibilità politica al di fuori del Baath. Dopo i massacri di marzo ci siamo recati lì, abbiamo incontrato le persone e discusso con loro, hanno capito di aver bisogno di organizzarsi anche attraverso assemblee e comitati e attraverso una propria autodifesa. Noi vogliamo condividere la nostra esperienza, il metodo che usiamo nel nord-ovest della Siria. Sono stati già fondati dei comitati ma sono un embrione: stiamo collaborando con loro per far sì che si attivino e si amplino.

Avete avviato un dialogo con comunità nel resto del paese?
Nella presa del potere da parte di Hts, c’è un aspetto positivo: ora le compagne e compagni possono recarsi in altre città, in altri territori della Siria. Quando c’era il regime di Assad era vietato andare nelle altre città per fare politica. I compagni e le compagne che hanno tentato di farlo sono stati arrestati. Hts non è così forte, non è in grado di avere il controllo di tutto il territorio e quindi è più facile muoverci. Ha anche paura delle reazioni che potrebbero scaturire dal porre troppi divieti, avendo dichiarato di essere aperto a tutte le diverse identità e organizzazioni siriane. In passato non potevamo avere relazioni con organizzazioni della società civile nel resto del paese, non avevamo nessuna relazione con gli alawiti. Adesso invece abbiamo potuto mandare dei gruppi, abbiamo avviato contatti con loro e con i drusi al sud. Abbiamo già tenuto tre riunioni dell’Assemblea delle donne siriane a cui hanno preso parte druse, alawite e donne di altre zone della Siria: ci siamo conosciute, abbiamo condiviso le nostre idee e trovato dei punti in comune per poter andare avanti.

La Siria del nord-est vive da un anni un embargo di fatto che impedisce l’ingresso di molti beni necessari alla vita civile. Una situazione peggiorata dal taglio dei fondi UsAid. Dopo la caduta di Assad, c’è stata una rottura dell’isolamento della regione?
L’embargo continua. Gli aiuti statunitensi si limitano a casi eccezioni, come il campo di al-Hol.

il manifesto, 1 maggio 2025

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