Il 16 maggio un tribunale di Ankara ha emesso la sentenza nel processo per il “caso Kobane”. Il verdetto distribuisce a 24 esponenti del partito HDP centinaia di anni di carcere per aver agito ai fini della distruzione dell’unità dello Stato e dell’integrità del Paese e per numerosi altri reati, omicidi compresi. Agli ex co-presidenti del partito, Selahattin Demirtas e Figen Yuksegdag, spettano rispettivamente 42 anni e 5 mesi e 30 anni e 3 mesi anni di carcere. Pene tra 9 anni e 22 anni e 5 mesi per gli altri imputati, tra i quali la sindaca di Diyarbakir (12 anni) e il sindaco di Mardin, Ahmet Turk, ex parlamentare, figura storica della resistenza democratica kurda, oggi ottantunenne (condannato a 10 anni). Si conclude così un processo iniziato il 20 settembre 2018 e sviluppatosi nel corso di 83 paradossali udienze: apertamente violato o negato il diritto alla difesa, aula invasa da agenti di polizia, arrestato il presidente del tribunale per attività criminale, testimonianze segrete. Alcuni dei condannati erano già in carcere, come Selahattin Demirtas e Figen Yuksegdag, reclusi dal novembre 2016 per propaganda terroristica e insulti al presidente Erdogan. Quali e quanti strumenti avrebbero consentito una così cospicua attività criminosa? Secondo i giudici soltanto uno: Twitter.