Nelle carceri si respira un’aria di tensione preoccupante. Il personale deve governare durante la giornata situazioni drammatiche: detenuti che stanno male, a cui manca lo spazio vitale in quanto il sovraffollamento è cresciuto enormemente, che si tagliano, che non capiscono perché devono essere sempre chiusi in cella mentre prima non lo erano, che sono confinati in celle con letti a castello a tre piani fino anche a venti ore al giorno, che non possono andare a scuola perché la scuola è stata trasformata in dormitorio, che vorrebbero telefonare frequentemente ai propri cari come al tempo del Covid ma che non gli è più consentito. Detenuti che diventano aggressivi, che subiscono aggressioni, che vengono puniti con l’isolamento, che si tolgono la vita o che ci provano e vengono salvati in extremis.Di fronte a questa situazione il governo propone misure insufficienti, sbagliate o che portano ad aggravare ulteriormente lo stato delle cose. Tra le misure recenti c’è uno stanziamento di 5 milioni di euro per prevenire i suicidi in carcere. Si tratta di risorse senza dubbio fondamentali per migliorare l’assistenza psicologica nelle carceri (oggi ridotta a meno di 20 ore la settimana ogni 100 persone detenute), ma una misura che da sola non basta. C’è bisogno di garantire più attività, che siano lavorative, formative, culturali. Le giornate delle persone detenute vanno riempite di senso e non passate sdraiati sul letto a guardare il soffitto o a passeggiare per la sezione. Vanno inoltre garantiti i contatti con l’esterno, liberalizzando le telefonate e bisogna dare seguito alla sentenza della Corte Costituzionale in merito al diritto all’affettività, prevedendo nelle carceri anche luoghi dove siano possibili colloqui intimi.
Di questi temi hanno scritto Patrizio Gonnella su Il manifesto e Susanna Marietti su Il Fatto Quotidiano.