Il modo in cui televisioni e giornali occidentali raccontano il massacro in corso a Gaza, la pulizia etnica e l’intento genocidiario di Israele, riporta di attualità quello che scriveva Stuart Hall oltre quarant’anni fa sul razzismo strutturale dei media britannici.
Il razzismo per l’intellettuale giamaicano non poteva essere ridotto a patologia individuale ma doveva essere considerato come una struttura di potere «naturalizzata» nel senso comune che organizza il mondo a vantaggio di alcuni e a discapito di altri.
Una delle strategie chiave per rappresentare il proprio nemico è disumanizzarlo. Ridurlo a uno stato animale destinato all’annientamento anonimo.
Questa strategia non è stata certo inventata da Israele oggi. Come per tutte le imprese coloniali, è stata parte del suo lessico politico e militare per decenni. L’adozione da parte dei media occidentali della narrazione sponsorizzata dallo Stato israeliano rivela, inavvertitamente, il razzismo che struttura il potere in tutto l’Occidente.
I concetti di equilibrio, neutralità e distanza critica evaporano nel turbine ideologico. Le pretese di imparzialità si perdono nella tempesta di una palese partigianeria, la storia è eradicata e il tempo condensato nella domanda: «Condannate Hamas?».
I palestinesi rimangono senza voce, ridotti a corpi morti e mutilati. Al massimo, i nativi sono vittime, mai protagonisti con la loro versione dei fatti. Accanto agli ovvi paragoni tra Ucraina e Palestina, dove l’una è sostenuta e parla, e l’altra è abbandonata e silenziata, la linea del colore tocca il cuore dell’economia politica delle immagini e delle narrazioni che espongono l’ipocrisia etica della democrazia occidentale.
Insistere sul fatto che ciò che sta accadendo nel Mediterraneo orientale, in una minuscola striscia di terra aggrappata al Mediterraneo, è molto più di un conflitto locale o di un evento geopolitico significa sottolineare che la Palestina è «la» questione del nostro tempo.
Le discussioni sull’antisemitismo e sulla Shoah che ruotano attorno a Israele e la continua giustificazione della guerra coloniale contro i nativi palestinesi ci portano necessariamente negli archivi oscuri dell’Occidente e del suo rifiuto di responsabilità. Parlare della costanza dell’antisemitismo, della responsabilità occidentale (e non solo tedesca) per l’Olocausto, del razzismo e dell’islamofobia oggi, significa parlare della configurazione razzista della nostra cultura.
Secoli di antisemitismo non si sono certo risolti con il sostegno incondizionato allo Stato di Israele, né trasferendo la paura dell’altro dall’ebreo al musulmano.
Facendosi scudo di un razionalismo che sembra trovare conferma solo nelle istituzioni di potere occidentali, la narrazione rivela tutti i suoi limiti.
Gli studenti picchiati dalla polizia per aver protestato contro il genocidio di Gaza, che è ripreso in diretta streaming in tutto il mondo, sono solo l’espressione più acuta della bancarotta morale dell’Occidente.
Ciò che sta chiaramente emergendo è una crescente divergenza pubblica all’interno della stessa società occidentale tra i sentimenti popolari e le istituzioni politiche che dovrebbero rappresentarli.
Qui si potrebbe ovviamente parlare del festival di Sanremo come di un sintomo. Recentemente il giornalista del Guardian, Owen Jones ha notato che all’inizio di gennaio un sondaggio d’opinione nel Regno unito, dove, tra l’altro, ai ragazzi e le ragazze delle scuole è proibito parlare di Gaza, ha mostrato che il numero di coloro che sono fortemente d’accordo con la gestione della «crisi» di Gaza da parte del governo britannico è la stessa percentuale di coloro che credono nella terra piatta: il 3%.
Parlare della Palestina nelle società occidentali, oggi, significa parlare della democrazia.
Si afferma una paura della storia. Un continuo tentativo di cancellare il passato e di annientare la memoria, sia che si tratti della distruzione israeliana di tutte le istituzioni culturali di Gaza, sia che si tratti della sorveglianza europea sulla sua costituzione coloniale. La minaccia che il passato possa interrogarci è disperatamente evitata.
Altre storie, subalterne, marginalizzate e non necessariamente autorizzate dall’Occidente ma intrinseche alla sua formazione, sfidano l’onnipotenza divina dei nostri «occhi bianchi», per dirla con Stuart Hall. Producono buchi neri, accumuli concentrati di energia storica e culturale destinati a danneggiare la narrazione.
Iain Chambers, il manifesto, 29 febbraio 2024