Riportiamo senza alcun commento un intervento di Livio Pepino apparso martedì 28/2 su il manifesto.
In assenza di (imprevedibili) fatti nuovi Alfredo Cospito morirà.
A questo esito portano le decisioni del ministro prima e della Cassazione poi. Eppure, confermare il regime del 41 bis non era una strada obbligata. Non lo era per il Guardasigilli, come risulta dalle alternative prospettate dalla Direzione nazionale antimafia. E non lo era per la Cassazione, come dimostra l’opposta soluzione suggerita dal Procuratore generale. Al contrario, la revoca del 41 bis era supportata da solidi argomenti: l’esistenza di rapporti di Cospito con associati esterni in funzione della commissione di nuovi reati era (è) indimostrata e neppur presa in considerazione nel provvedimento applicativo della misura; le condizioni di salute dell’anarchico pescarese, dopo oltre quattro mesi di sciopero della fame, e la sua stessa esposizione mediatica rendevano (rendono) irrealistico ipotizzare il permanere (o il ripristino) di collegamenti funzionali a concrete e concordate attività eversive; la possibilità di fronteggiare la pericolosità di Cospito in un circuito meno restrittivo di quello del 41 bis era (è) sostenuta dalla stessa amministrazione penitenziaria. Quella adottata dal ministro e dai giudici è stata, dunque, una scelta E come ogni scelta è densa di significati e di messaggi, anche di carattere generale.
Il primo messaggio è il disprezzo della vita umana, sacrificata sull’altare di una concezione etica dello Stato. È l’impostazione che ha ispirato, negli anni ’80, le politiche di Margaret Thatcher nei confronti dei militanti dell’Ira e che ispira oggi quelle di Erdogan e di Al Sisi nei confronti dei detenuti politici: un’ideologia autoritaria e vendicativa da sempre marchio di fabbrica della destra (finanche teorizzata dal fascismo) e in netta antitesi con la lettera e lo spirito dell’articolo 2 della Costituzione, che vuole lo Stato garante dei diritti inviolabili di tutti e promotore di interventi improntati alla solidarietà.
In secondo luogo la decisione mostra un approccio univoco alla drammatica situazione del carcere (di cui il caso Cospito è solo la manifestazione maggiormente eclatante): più repressione, incremento del carcere duro, costruzione di nuove prigioni. Ovviamente per i migranti, i marginali, i ribelli mentre pena e processi vanno drasticamente ridotti per i colletti bianchi. Dopo la (cauta) apertura della ministra Cartabia (peraltro corresponsabile dell’applicazione del 41 bis nel caso specifico) è evidente il pieno e incondizionato ritorno a un sistema penale caratterizzato dalla compresenza di due distinti codici, uno per i “briganti” e uno per i “galantuomini” destinati, il primo, a segnare la vita e i corpi delle persone e, il secondo, a misurare l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione. E c’è di più. La gestione complessiva della vicenda mostra che tra il governo (e la sua maggioranza) e la parte più conservatrice e retriva della magistratura e degli apparati si stanno definendo, oggettivamente, una convergenza e una alleanza sempre più strette.
C‘è, nelle scelte di questi giorni e nel clima che le accompagna, un ulteriore elemento denso di pericoli per le sorti del Paese: l’incessante costruzione, da parte dell’establishment, di un nemico da utilizzare come “arma di distrazione di massa”, come diversivo di fronte alle difficoltà economiche e sociali e, soprattutto, come giustificazione delle derive autoritarie che si annunciano. L’operazione era in corso da tempo, con la ripetuta proposizione di “nemici della società”: i frequentatori dei rave, considerati alla stregua di orde di barbari (tanto da richiedere interventi legislativi ad hoc); gli studenti che, invece di studiare, occupano le scuole e cercano lo scontro con le forze dell’ordine; gli ambientalisti che imbrattano con vernice (lavabile) opere d’arte e finanche l’ingresso del Senato, così «mettendo sotto attacco il cuore dello Stato» (sic!). Con il “caso Cospito” si è alzato il tiro: il “pericolo anarchico” è diventato, pur in assenza (almeno al momento) di riscontri significativi, la maggior emergenza nazionale, ripetendo un copione che il Paese ha ripetutamente e drammaticamente vissuto.
Per questo la vicenda rivela l’intreccio perverso di un dramma individuale e di una stagione politica inquietante.
il manifesto, 28/2/2023