Cento anni fa nasceva Luciano Bianciardi. Nasceva a Grosseto il 14 dicembre 1922.
Era uno scrittore, un traduttore, un giornalista, era un intellettuale.
Bianciardi era anarchico, intimamente anarchico, tanto da considerare la politica una questione di potere da contrastare.
Un provinciale che lascia Grosseto per andare a Milano, per vedere in faccia i padroni di quelle miniere del grossetano dove si fatica e si muore, per gridargli in faccia tutta la sua rabbia.
Bianciardi scrive quella rabbia raccontando storie con una lingua tagliente, limpida, che pare “parlata” ma è piena di poesia, e così capace di esprimere il dolore di chi sta altrove o fuori oppure sottomesso, ma anche il suo.
Dopo il successo della straordinaria trilogia de “Il lavoro culturale”, “L’integrazione” e “La vita agra”, (ora in Trilogia della rabbia, Feltrinelli) nella quale riesce a rappresentare le contraddizioni della contemporaneità, contro la quale si batte con rabbia, Indro Montanelli gli offrirà una sua rubrica al Corriere della Sera. Resterà turbato e confuso da quella proposta: a lui, critico rabbioso e sarcastico della borghesia del suo tempo, viene offerto un lavoro nel giornale della borghesia. Rifiuterà, per scegliere un’orgogliosa estraneità e marginalità.
Avrà sempre problemi economici che accompagneranno i dolori inconfessati della sua anima strappata di uomo-contro.
Sarà giornalista e traduttore. Tradusse dall’inglese, tra gli altri, Saul Bellow, Joseph Conrad, William Faulkner, John Steinbeck, Aldous Huxley e l’Henry Miller del Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno.
Fu studioso appassionato del Risorgimento, intorno al quale scrisse più libri (La battaglia soda, Da Quarto a Torino, Daghèla avanti un passo!, Garibaldi, Aprire il fuoco), un po’ romanzo un po’ cronaca storica, ma sempre con “rigore da storico e lingua e stile da grande narratore”. Fu implacabile sostenitore dell’Italia tradita, perché il Risorgimento si trasformò in una conquista piemontese, escludendo i volontari dell’esercito garibaldino e il popolo insorto, impedendo così il riscatto dalla miseria e dalle ingiustizie e favorendo “i gattopardi”. Ma per lui il Risorgimento è anche sempre una metafora del tradimento dei valori di partecipazione collettiva della Resistenza: quell’esperienza di partecipazione popolare che si tramutò nell’occupazione dello Stato da parte di quelli che chiamava i “partiti-chiesa”, che non portarono fino in fondo la “defascistizzazione” della società italiana.
Un uomo complesso, di intelligenza rapida, ironico, provocatorio, “un corpo desiderante” e forse per questo destinato all’infelicità. “Proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino“. Così la sua fu una vita vissuta pienamente, con passione ed entusiasmo.
Ma… gli deve essere costata tanta fatica, morì giovane, non aveva ancora compiuto 50 anni.