Il femminismo bianco si è appropriato della protesta dell’hijab, senza capirla …di Raja Natour

Riprendiamo da palestinaculturaliberta.org, con lo stesso titolo, l’articolo di Raja Natour pubblicato il 6 ottobre da Haaretz e tradotto in italiano da Alessandra Mecozzi.

Marciano con forza e coraggio per le strade della loro patria, strade che nelle ultime due settimane sono diventate per loro estremamente pericolose. Gridano: “Moriremo per l’Iran”, “Morte al dittatore” e “Donne, vita, libertà”. E ancora molte persone, anche nei media occidentali, stanno sfacciatamente riducendo la protesta delle donne iraniane a una battaglia contro l’uso dell’hijab.
È un errore politico e femminista considerare la protesta delle donne iraniane solo come una protesta contro l’uso dell’hijab, perché la loro protesta è più ampia. In primo luogo, le donne iraniane non stanno protestando contro l’hijab, ma contro il fatto che sia loro imposto. Protestano contro la sua politicizzazione e contro l’uso violento che se ne fa per escluderle fisicamente e mentalmente dallo spazio pubblico.
Stanno protestando contro il profondo, sistematico e violento apartheid di genere, che si basa sul sistema di legge religiosa della sharia: costringerle a indossare l’hijab è solo una delle sue caratteristiche flagranti e sessiste. Pertanto, sia il discorso arabo che quello femminista occidentale si concentrano su questo invece di discutere i meccanismi che sostengono e consentono la continuazione di questo sistema. La stessa apartheid di genere abbraccia questioni molto ampie come il matrimonio delle ragazze minorenni, l’affidamento dei figli, la libertà di movimento senza l’approvazione di un tutore, i diritti del lavoro e un lungo elenco di leggi matrimoniali che discriminano le donne iraniane e le sottopongono all’assoluto controllo degli uomini. Questo è ciò contro cui stanno protestando.

In secondo luogo, poiché il cuore della lotta non è solo l’hijab in sé, ma ciò che simboleggia, le donne iraniane dentro e fuori l’Iran non chiedono che le loro sorelle dentro e fuori il paese si rifiutino di indossarlo, ma piuttosto chiedono il loro diritto fondamentale di scegliere , rivendicando la proprietà dei loro corpi e portando l’attenzione sul fatto che sono molto più che capelli.
Vogliono decidere da sole del proprio corpo senza dettare ad altre donne in altre parti del mondo, che si battono per il loro diritto di indossare l’hijab, cosa fare. In questo senso hanno capito – al contrario della maggior parte della discussione femminista occidentale dominante – che il sostegno cieco al rifiuto di indossare l’hijab e, d’altra parte, il sostegno cieco ad indossarlo, sono la stessa cosa. Entrambe negano alle donne iraniane e ad altre musulmane di tutto il mondo la proprietà dei loro corpi, e stanno legittimando le continue violenze contro il corpo femminile musulmano, che in ogni caso è perseguitato ed escluso.
Quando le donne iraniane hanno bruciato l’hijab, per quanto le riguarda, hanno bruciato uno dei simboli del regime iraniano, anziché un simbolo musulmano. Stanno cercando di eliminare la connessione forzata tra l’hijab e la loro moralità, e la barriera di estraneità costruita dal regime tra loro e il loro corpo femminile collettivo. In questo senso trasmettono a tutte le donne musulmane che sono tutte dalla stessa parte, dalla parte che si oppone alla coercizione e alla violenza di genere.
Quando le donne iraniane hanno camminato per le strade e hanno gridato: “Donne, vita e libertà”, stavano dicendo apertamente che chiedono una libertà totale e incondizionata e che la loro lotta è più ampia della questione dell’essere costrette a indossare l’hijab. Pertanto, limitando la lotta delle donne iraniane ad una richiesta di smettere di indossare l’hijab non solo viene appiattita la discussione femminista politica iraniana, ma mette al centro il discorso femminista occidentale dominante e di conseguenza ritrae quello iraniano come inferiore. In altre parole, questo è solo un gruppo di musulmane che combattono contro i chierici vecchio stile per mostrare i loro capelli in pubblico.

Questa è una rappresentazione stereotipata e negativa dell’Islam e dei musulmani, che alimenta le tipiche aspettative orientaliste dei lettori israeliani e occidentali senza portare alcunché di nuovo. Soprattutto stanno presentando la questione solo come una questione di “Islam culturale” e come un “problema islamico”, quando in realtà dovrebbe essere presentata principalmente come una questione femminista e una questione di diritti umani fondamentali. Dopotutto, in entrambi i casi, si tratta di coercizione e di impedire alle donne iraniane di essere padrone dei propri corpi.
È giunto il momento di confezionare la discussione sull’hijab in modo diverso. Non per trovare il favore del discorso femminista bianco mainstream e ottenere il suo sostegno, ma per separarlo dalla contestualizzazione e concettualizzazione religiosa che al momento è difficile da battere perché viene condotta in uno spazio e in un linguaggio religiosi. Questa contestualizzazione libererà l’intera discussione dalla trappola di essere pro o contro l’uso dell’hijab e distoglierà la discussione da Dio, dal corpo e dalla moralità delle donne, verso la coercizione politica e sociale, che è la vera questione all’ordine del giorno.
Una ricontestualizzazione consentirà alle giovani donne iraniane di presentare la loro narrativa nel linguaggio della loro generazione e di separarla dalla discussione religiosa dominante che cerca di mantenere il discorso all’interno del regno dell’osservanza religiosa per controllarlo. Questa nuova contestualizzazione trasferirà il controllo della discussione alle stesse donne iraniane e musulmane, alle loro condizioni e nei loro termini.
Il corpo femminile musulmano è sotto attacco
In tal caso, sorelle mie in lotta, la domanda da porsi non è se indossare o meno l’hijab, ma perché il corpo femminile musulmano continua ad essere sotto attacco. Perché la sessualità e la moralità delle donne del mondo musulmano, in contrasto con la sessualità degli uomini musulmani, sono sotto la costante supervisione e discussione maschile? Perché ovunque gli uomini continuano a controllare la discussione sull’hijab e a dettarne i contenuti?

Mie sorelle in lotta, è giunto il momento di rifiutare di collaborare con la discussione patriarcale, violenta e divisiva del pro e del contro, perché ci impone le questioni del patriarcato e blocca i possibili canali della solidarietà femminile.
Sorelle mie, la battaglia dell’hijab non è la guerra, è solo una battaglia all’interno della nostra ampia lotta. Sorelle mie, nessun uomo da nessuna parte, nessuna donna da nessuna parte, nessuna organizzazione o paese da nessuna parte, hanno il diritto di dire alle donne iraniane o ad altre donne musulmane nel mondo di gettare l’hijab nel cestino della spazzatura. Né nessun uomo o donna in nessun luogo ha il diritto di impedire alle donne musulmane di scegliere di indossare l’hijab se lo desiderano. Sorelle mie, siamo dalla stessa parte, la parte che rivendica la libertà.

1 commento

  1. “per fare un po’ di chiarezza”? Accipiccha! Dire nel modo più contorto e ripetitivo banalità come se fossero VERITA’ oro colato, come se solo lei avesse capito tutto… Tra l’altro l’autrice è la corrispondente da Amsterdam di Haaretz dove esercita da anni il mestiere di guida… ossia non si può esattamente dire che sia in Iran a lottare fianco a fianco alle donne iraniane di cui si erge a portavoce. Del resto Haaretz pubblica questo articolo come “opinion” ossia prendendone le doute distanze

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