Un’anticipazione del convegno che si terrà a Venezia dal 19 al 21 maggio «Critica e prassi. Gramscismo e Scuola di Francoforte a confronto». Qui Stefano Petrucciani, in un articolo apparso su il manifesto, analizza le tappe della ricerca della scuola di Francoforte sul Fascismo e i totalitarismi.
Nella Scuola di Francoforte una riflessione di ampio respiro sul fascismo e sul nazismo comincia quando quest’ultimo ha ormai occupato il potere, e precisamente con le analisi di Friedrich Pollock sulla crisi economica e le tendenze verso la regolazione autoritaria dell’economia (1933) e con il saggio di Herbert Marcuse La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, del 1934. La prospettiva che si delinea in questa prima fase è quella di leggere lo Stato autoritario, restando dentro un orizzonte marxista, come un’adeguazione della forma politica alle trasformazioni dell’economia e, in particolare, alla fine dell’epoca del liberalismo concorrenziale e allo sviluppo del capitalismo dei grandi monopoli.
Già nello stesso periodo si viene anche delineando, però, quello che sarà uno degli aspetti più originali della riflessione francofortese sul fascismo, e cioè l’interrogazione su quali siano le tendenze profondamente radicate nella psiche e nell’inconscio che portano gli individui ad aderire alle ideologie politiche fasciste e a mettersi al seguito dei «duci».
È questo l’oggetto della prima grande ricerca interdisciplinare promossa dall’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, gli Studi sull’autorità e la famiglia che, dopo un paio d’anni di progettazione e di lavoro, vengono pubblicati nel 1936 a Parigi, dove l’Istituto francofortese, di cui facevano parte prevalentemente studiosi di origine ebraica, si era trasferito a seguito della presa di potere nazista.
Nel grosso volume, la più approfondita riflessione sulla psicologia dell’autoritarismo è ovviamente quella dello psicoanalista Erich Fromm che firma la «Parte sociopsicologica» della ricerca, dove si stabilisce una precisa connessione tra crisi sociale, famiglia patriarcale, sviluppo del tipo caratteriale sado-masochistico e consenso ai regimi totalitari.
Già da questo primo sguardo sugli esordi della riflessione francofortese intorno al fascismo risulta che essa si declina soprattutto come tentativo di rispondere a due domande fondamentali: una domanda sociologica o socioeconomica, come definire l’assetto sociale cui i regimi totalitari, e in particolare il nazionalsocialismo, danno vita; e una sociopsicologica, cioè quali forze interiori e quali dinamiche inconsce spingano gli individui a sostenere i regimi totalitari.
Si tratta di due interrogativi fondamentali, sui quali i pensatori francofortesi hanno potuto, giustamente, versare fiumi d’inchiostro e anche polemizzare tra di loro. Si potrebbe anche osservare però, a questo proposito, che accanto a queste due domande ne manca una non meno importante, che invece è assai più presente nelle riflessioni di Gramsci sul fascismo: quali sono i fattori storici che hanno determinato l’affermazione politica dei regimi fascisti o nazisti in diversi paesi europei? Si potrebbe dire, insomma, che nell’approccio francofortese al fascismo incontriamo una questione sociologica e una psicologica, ma non incontriamo la questione propriamente politica.
Nella prima fase la lettura francofortese del fascismo, formulata nel già ricordato saggio marcusiano del 1934, sottolinea polemicamente come il fascismo non debba essere inteso quale negazione dell’ordine liberale, ma piuttosto come un suo prodotto o un suo esito: «il passaggio dallo Stato liberale allo Stato totalitario e autoritario si compie sulla base dello stesso ordine sociale. Tenendo presente questa base economica unitaria si può dire che sia il liberalismo stesso a ‘generare’ lo Stato totalitario e autoritario, che ne è il perfezionamento in uno stadio avanzato dello sviluppo. Lo Stato totalitario e autoritario fornisce l’organizzazione e la teoria della società che corrispondono allo stadio monopolistico del capitalismo».
A questo proposito c’è un punto che va subito messo a fuoco: l’idea che il sistema economico si avviasse ad assumere la forma di un capitalismo organizzato, con un intervento dello Stato molto più ampio rispetto a quello dell’epoca liberale, era sicuramente, nel periodo tra le due guerre, una convinzione molto diffusa, ben al di là della Scuola di Francoforte.
Negli stessi anni anche Gramsci annotava nei suoi Quaderni che «l’americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all’organizzazione di un’economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero essere gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica (…)». Nella Scuola di Francoforte, però, tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta, questa tematica viene portata fino all’estremo, cioè fino allo sviluppo di un concetto di «capitalismo di Stato» che sarà esplicitamente teorizzato da Friedrich Pollock nel saggio del 1941 State Capitalism, e che sarà ripreso anche nella riflessione di Horkheimer.
Su questo punto si aprono, nella Scuola di Francoforte, divaricazioni profonde. Mentre Horkheimer sposa in buona misura le tesi di Pollock (al quale, tra l’altro, lo legava da sempre una solidissima amicizia), molti altri studiosi del gruppo le contestano decisamente. Tra di essi è in prima fila Franz Neumann, politologo e autore di uno dei testi più importanti sulla Germania nazista, quello che s’intitola (con il nome di un mostro biblico evocato da Hobbes) Behemoth, e che viene pubblicato nel 1942. Per Neumann non ha senso applicare all’economia nazista l’etichetta di «capitalismo di Stato», ed è sbagliato rappresentarsi l’assetto di potere del Reich come qualcosa di monolitico.
Al contrario, la geografia del potere nella Germania nazista è caratterizzata dalla presenza di almeno quattro forze che non sono affatto concordi, ma anzi lottano violentemente per l’egemonia: grande capitale, partito nazista, esercito e burocrazia. Paradossalmente, perciò, Neumann arriva a considerare il Reich quasi come un «non-Stato». Nel senso che, come chiarisce Marcuse in un saggio anch’esso del 1942 (Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo), se per Stato si intende un organismo che ha comunque una sua indipendenza rispetto ai poteri sociali dominanti, questo non vale più per lo Stato nazista.
Ma accanto all’indagine volta a caratterizzare la natura del sistema nazista, la Scuola di Francoforte prosegue anche negli anni Quaranta la ricerca sulle dinamiche psichiche che spingono gli individui a identificarsi con le ideologie fasciste e a lasciarsi sedurre dalla propaganda antisemita. Le tappe principali di questo lavoro sono il capitolo sull’antisemitismo di Dialettica dell’illuminismo (libro concluso nel 1944 ma pubblicato nel 1947), le interessantissime ricerche di Adorno sugli agitatori fascisti attivi anche negli Stati Uniti, i cui discorsi vengono decifrati dal filosofo con l’aiuto della psicoanalisi freudiana, e la grande opera collettiva del 1950 sulla Personalità autoritaria. Si tratta di testi che non hanno solo un valore storico, ma anche un significato attuale, perché contribuiscono a decifrare quelle pulsioni del rancore, del risentimento e del misconoscimento dell’altro che trovano sempre qualche imprenditore politico pronto a investire su di esse.
Stefano Petrucciani, il manifesto, 15/5/2022