Non vogliamo dimenticare questo “maestro” che nasceva il 17 febbraio del 1922. Sì, un maestro dei bambini che è diventato un maestro per molti di noi, per intellettuali, pedagoghi… Non c’è nulla di ciò che ha scritto (e fatto) che non sia utile, proprio perché non voleva essere un maestro. Ha rotto gli schemi con la ragione paziente e con la provocazione irriverente, ha inventato una nuova pratica pedagogica democratica, facendo diventare i bambini gli unici interpreti del proprio processo di autoapprendimento. Tutto ciò che ha scritto è importante, può essere letto, dovrebbe essere letto.
Qui di seguito un intervento si Vanessa Roghi apparso su il manifesto del 16/2/2022.
C’è ancora speranza nel “paese sbagliato”
«Io sono nato nell’anno che è andato al potere il fascismo. Ho fatto tutta la scuola del fascismo, ho vissuto il dramma dei vecchi socialisti, che erano dei vinti e non volevano accettare la sconfitta pur essendo impotenti di fronte al regime che si era ormai consolidato. Ma questo io non lo sapevo».
Così Mario Lodi, nato il 17 febbraio 1922, racconta in poche righe la sua nascita e l’infanzia trascorsa a Piadena, vicino Cremona, negli anni che vedono l’affermarsi del regime mussoliniano e la sconfitta del movimento a cui il padre aveva aderito rivestendo anche il ruolo di assessore subito dopo la fine della Prima guerra mondiale. Lodi ricorderà come negli anni Trenta passassero da casa sua vecchi compagni: ce n’era uno, per esempio, Angelo Toninelli, detto «èl Cium» che si presentava sempre con un paio di scarpe in mano perché, facendo il calzolaio, aveva pensato così di sfuggire ai sospetti delle forze dell’ordine, che continuavano a tenere sotto controllo i vecchi antifascisti. Ed è con i vecchi compagni del padre, che Lodi partecipa alla costruzione della Biblioteca popolare di Piadena dopo la Seconda guerra mondiale, scegliendo anche lui di militare nelle fila del Partito socialista vicino a Gianni Bosio e al gruppo che gravita intorno alla rivista «Movimento operaio».
Spinto dalla famiglia Lodi si presenta al concorso magistrale, per avere un mestiere sicuro, ma non ha deciso che farà il maestro. Non vede alcun legame fra la sua militanza politica e l’insegnamento. La scuola anzi, gli sembra il regno della conservazione per antonomasia. In un suo ricordo racconta: «Era il 1948 e l’Italia era sfasciata. Si doveva ricostruire il tessuto non solo economico ma anche sociale ed etico. La scuola poteva essere una prima palestra per la formazione di cittadini e non di sudditi. Il mio primo giorno da maestro ho trovato la scuola basata sulla supremazia dell’adulto: l’adulto pretendeva il saluto dai suoi scolari che ringraziavano con rispetto e paura. Il maestro trasmetteva il suo sapere». La Costituzione è stata appena approvata e Lodi cerca un modo di stare in classe che sia congruo al suo sentire democratico. La classe che gli tocca è difficile, non si interessa alle sue lezioni. C’è chi scusa questa mancanza di attenzione verso le richieste (minime) del maestro come una conseguenza della guerra.
Ma Lodi non ne è convinto e osserva, perplesso, l’infelicità degli alunni, il silenzio, e la gioia, opposta, quando suona la campanella e si liberano da quello che, evidentemente, sentono come un giogo. Non è «la guerra», si dice Lodi. E se il problema non fosse il loro, ma di come è organizzata la scuola? Poi un incontro, quello con altre maestre e maestri che hanno dato vita la Cooperativa della tipografia a scuola (poi Movimento di cooperazione educativa) e la scelta di collaborare insieme per cambiare la scuola dall’interno, attraverso la didattica democratica. E quello di maestro diventa il mestiere che Lodi farà tutta la vita, anche dopo essere andato in pensione, nel 1978.
Oggi celebriamo i suoi cento anni, che per poco non ha raggiunto: il maestro Lodi è, infatti, morto nel 2014, lasciando dietro di sé libri che sono diventati classici della storia dell’educazione come C’è speranza se questo accade al Vho (1963) e Il paese sbagliato (1970) e classici della storia della letteratura come Cipì (1961).
Molti lo conoscono, tanti hanno iniziato ad insegnare dopo aver letto i suoi libri e ad altri i suoi libri sono stati regalati come buon auspicio all’inizio della carriera magistrale. Ma, viene da domandarsi, come accade sempre con testi pensati in un passato tanto remoto: cosa hanno da dirci, ancora, le sue pagine? Occorre tornare indietro nel tempo per capirlo, ai primi anni Sessanta e rifarsi alle impressioni di un insegnante che, dopo aver letto C’è speranza, decide di partecipare a uno stage estivo dell’Mce dove vede Lodi all’opera per la prima volta: si chiama Gioacchino e racconta di come per giorni interi il gruppo rimanga attaccato a un muro di campagna, a osservare tutto ciò che i sensi percepiscono, a misurare, a discutere, a mettere in rapporto i vari elementi osservati, a formulare ipotesi di spiegazione e a metterle in discussione, a disegnare. Lodi dà consigli su come «vedere» il muro, non «fa lezione» sollecita uno sguardo partecipativo. Poi, a poco a poco, la capacità di entrare in relazione con quello che si vede, rielaborarlo, si fa metodica, e condivisa da tutti i corsisti. E la tecnica didattica appare chiara.
Osservare, ragionare insieme, descrivere, senza l’obbligo dell’oggettività, partecipando a quello che si vede ma anche cercando di ricavarne una regola, da verificare. I bruchi diventano farfalle, gli uccelli fanno le uova, da un seme nasce una pianta.
Tutto questo può essere fatto ovunque, anche in «un angolino del vasto universo», come scrive uno dei compagni di questa avventura, Bruno Ciari. È il «metodo della ricerca»: il sorgere del problema, la formulazione di ipotesi, la raccolta, l’interpretazione dei dati, la sintesi, la verifica delle ipotesi e l’eventuale formazione di nuove ipotesi. Un’indicazione di Antonio Gramsci di cui fare tesoro: «l’insegnamento in tal modo diventa un atto di liberazione, esso ha il fascino di tutte le cose vitali». Così Lodi fa ricerca quando scrive Cipì con i suoi bambini (osservare il prato d’inverno e la vita degli uccelli), e fa ricerca quando disegna la mappa di Vho negli anni in cui raccoglie il materiale che diventerà. Il paese sbagliato. Lodi tuttavia non si accontenta della descrizione e ci mette una cosa in più in questa ricerca, ed è il lavoro sulla creatività infantile: Cipì diventa una fiaba, Il paese sbagliato un progetto per un paese da costruire più bello e più giusto.
Per questo modo di stare a scuola Lodi viene accusato di riformismo, la peggiore delle accuse nei primi anni Settanta, quando l’influenza di un libro come L’erba voglio sembra preannunciare una rottura radicale con la tradizione, anche quella di sinistra. Lodi risponde a queste accusa continuando a lavorare come ha sempre fatto: mettendosi in discussione, accogliendo la sfida del tempo nuovo che porta con sé nuovi bambini.
Scriverà: «Ai miei tempi abbiamo introdotto nella scuola l’uso di tecniche allora innovative: il ciclostile per stampare il giornalino della classe, il litografo per stampare disegni e manifesti, il mosaico e la pittura per rappresentare il mondo figurato e dipingere I grandi quadri di gruppo. Oggi ci sono nuovi strumenti dalle grandi potenzialità: il computer per i testi, la videocamera le macchine fotografiche digitali, internet per trovare informazioni e molto altro ancora. L’importante, come sempre, è l’uso che si fa di questi strumenti a qualificare la scuola e il progetto educativo che la ispira. La scuola di oggi può essere anche più capace di adattarsi al mondo che la circonda. Può essere un male se la scuola dovesse essere subalterna ai valori imperanti dell’egoismo individualista e della mancanza di rispetto del prossimo. Può essere un bene se riesce a mettere a disposizione di tutti strumenti per comunicare, capire, esprimersi, crescere e per costruire una società sinceramente democratica».
Costruire una società democratica: in quanto cittadino di uno stato democratico, ogni bambino, infatti, deve imparare, fin da piccolo, a agire in modo democratico, a riconoscere la democrazia là dove la incontra in modo che sia evidente quando la stessa viene negata, vilipesa, calpestata. Scrive Lodi: «Forse è opportuno dire prima di ogni altra cosa che il bambino, sia in famiglia sia a scuola, è un cittadino alla pari di tutti gli altri, ed ha quindi gli stessi diritti fondamentali che la Costituzione sancisce per tutti i gli italiani», ma questo si impara soltanto attraverso la pratica, che fin da piccoli, si incontra a scuola. Occorre «il tirocinio della democrazia attraverso la democrazia». Questo ancora oggi ci ricorda Mario Lodi, una lezione da tenere sempre presente.
Vanessa Roghi, il manifesto,16/2/2022