Ai margini della pandemia …di Iain Chambers

Un acutissimo articolo dell’antropologo Iain Chambers apparso su il manifesto del 13 novembre 2021 ci interroga sulla probabile ipotesi che la distruzione dello stato di diritto abbia molto più a che fare con i poteri incontrollabili del neoliberismo invece che con le leggi dello stato odierno. Si ha l’impressione che la paranoia dell’Occidente privilegiato si lamenti controvento, anziché scavare più a fondo nella sua formazione planetaria e provare ad uscire dall’astrazione mortale del pensiero occidentale.

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Nella discussione su coronavirus, Green Pass e No Vax, che coinvolge alcune delle menti più raffinati della loro generazione, e al di là della razionalizzazione delle scelte (pro-, contro-vaccino, pro-, contro-Green Pass) resto colpito da quanta energia critica e filosofica si concentri sulla questione, come se fosse l’argomento politico e filosofico più urgente del mondo contemporaneo. Nei meandri spesso imbarazzanti che mescolano opinione popolare e un lessico filosofico un po’ esaurito, cerco di capire perché esista tutta questa attenzione, invece che una concentrazione sulla politica assassina delle migrazioni, o la privatizzazione brutale in corso delle strutture e dei servizi pubblici, o la distruzione strutturale e il sottofinanziamento dell’istruzione pubblica, o il dissesto ecologico incontrollabile.

Tra la banalità della paura del vaccino e la difesa giuridico-politico-filosofica di un senso astratto di «libertà» assicurato nella sovranità dell’individuo, gli argomenti sembrano intrappolati in una spirale di auto-conferme. Forse il vaccino non offre garanzie, le cifre degli infetti sono gonfiate dalla vaghezza delle variabili, l’interpretazione dei dati è discutibile, c’è la validità limitata del vaccino, i limiti del paradigma scientifico, l’esercizio del ragionevole dubbio, e così via.

È chiaro che la biopolitica dello stato nazionale moderno non è stata inventata due anni fa, nemmeno lo stato di eccezione, dove, come Benjamin ci ricorda, più radicalmente, e a differenza di Schmitt e Agamben, lo stato di emergenza è la regola e non un’istanza di eccezione. Come ci ha insegnato anche Foucault, fa parte di una pratica e di una volontà politica che si esercita da decenni – almeno dalle crisi esplicite del welfare state e del liberalismo negli anni ’70 (Thatcher, Regan e la scuola di Chicago), E forse la distruzione dello stato del diritto oggi ha molto più a che fare con i poteri incontrollabili del neoliberalismo invece che con le leggi promulgate dallo stato odierno. Tali poteri, oggi apparentemente trionfanti si trovano nel cuore ambiguo del liberalismo stesso e delle sue idee accentuate di libertà individuale, che storicamente hanno sempre comportato il suo esercizio violento su chi concepiva la società e la gestione delle risorse in modo diverso, sia in patria che all’estero.

In altre parole, lo scavo di storie più profonde a questo punto potrebbe aiutarci a muoverci in modo diverso. La politica dello stato liberale, la sua biopolitica e i suoi regimi di controllo, non sono mai stati solo un affare interno. La violenza dello stato e la sua giustificazione giuridica sono state sperimentate e sviluppate anche e soprattutto negli spazi coloniali. Il campo come strumento di guerra contro una popolazione identificata – leitmotiv del linguaggio filosofico di Giorgio Agamben – è stato dapprima sviluppato dagli inglesi in Sudafrica, utilizzato dagli italiani in Libia, prima di diventare una macchina di sterminio di massa in Europa e nella Germania nazista. E poi i genocidi nelle Americhe e in Africa? In altre parole, la politica del colonialismo, e il suo violento modellamento del mondo moderno per permettere l’estrazione delle sue risorse, sono centrali alla creazione del moderno stato nazionale e dei suoi soggetti. Questo è insistere su una vicinanza che ha un impatto diretto su una discussione largamente condotta da maschi bianchi e sulla loro ingenua assunzione che la razionalità occidentale nella sua presunta universalità abbia l’autorità morale per legiferare il mondo. Forse la discussione critica sull’indebolimento dello stato nazionale moderno deve iniziare ad adottare e comprendere queste coordinate più ampie; coordinate che esistono e persistono senza la nostra autorizzazione.

Qualche anno fa nel volume La (in)traducibilità del Mondo, curato da Stefano Rota, avevo riferito ad un saggio di Lydia H. Liu sulla rivista Translation 4 (2014) che discuteva la produzione plurilinguistica della Dichiarazione dei Diritti Umani (1948). La figura centrale di questo racconto è il vicepresidente della Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Peng-chun Chang. Sotto la presidenza di Eleanor Roosevelt, la commissione composta da Chang, Charles Habib Malik e John Humphrey (direttore della Divisione Diritti Umani delle Nazioni Unite) cerca di negoziare e redigere un documento di valore universale. A un certo punto, guardando il libanese Malik, Chang suggerisce a Humphrey di prendere un congedo di sei mesi per studiare la filosofia cinese. Era, nota Liu, un modo per suggerire che il peso occidentale nella formulazione del documento era troppo dominante. Le difficoltà linguistiche, e la ricerca di valori universali, ponevano profondi problemi epistemologici. Come chiede Liu, «L’idea di ‘umano’ in inglese significa la stessa cosa in una lingua formata in una tradizione linguistica e filosofica diversa?».

La ricerca di un linguaggio commensurabile con un vero universalismo, e non limitato a quello metropolitano proposto e propagato dall’Occidente, richiede una forma di negoziazione sia trans che interculturale. Qui, per esempio, Chang ha cercato di infondere alla concezione occidentale dell’umano basata sull’individuo una concezione diversa basata su un’antica tradizione filosofica cinese che invoca il pluralismo dell’umano. La proposta non è stata accolta e, come nota Liu, «si è persa una straordinaria opportunità di re-immaginare l’”umano” in altri termini». Il punto qui è che il lavoro coinvolto nella produzione di questo documento ha rivelato non solo questioni di differenze linguistiche, culturali ed epistemologiche, ma soprattutto questioni di potere. Una certa semantica, radicata in una specifica formazione storico-culturale, ha dominato le procedure. Alla fine, era il suo linguaggio a porsi come universale, e non i processi storici che costituivano la complessità differenziata della ricerca dell’universale. La traduzione in questione, l’autorità convalidata dal suo linguaggio, ha fondato un atto politico.

Guardando l’evento online Le Politiche Pandemiche (10 novembre, disponibile su YouTube), e ascoltando i ragionamenti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e molte altre voci, si ha l’impressione che la paranoia dell’Occidente privilegiato si lamenti ancora una volta controvento, e si rifiuti ancora di scavare più a fondo nella sua formazione planetaria ed extra-occidentale. Il cambiamento climatico, l’apocalisse ecologica e il loro intersecarsi nella promozione delle migrazioni di massa e dei movimenti di popolazione sottolineano ad ogni piè sospinto la continua appropriazione occidentale del pianeta e la sua costituzione coloniale. Forse la discussione critica sulla pandemia deve spostarsi in questo spazio del tutto più vulnerabile, meno garantito dalle nostre identità e libertà. Forse un tale indebolimento dell’economia politica dell’Occidente – che va da Big Pharma all’ordine patriarcale dei miti bianchi del suo logos – fornisce un altro rapporto con cui riformulare da dove veniamo e dove potremmo andare. Un certo ordine di discorso si è rotto e dobbiamo cominciare a imparare a parlare e ascoltare nelle sue rovine, cercando, nelle parole della filosofa afrobrasiliana Denise Ferreira da Silva, di estrarci dall’astrazione mortale del pensiero occidentale.

Iain Chambers, il manifesto, 13/11/2021

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