“Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi“, scriveva Karl Marx, nel 1850, due anni dopo le “rivoluzioni borghesi” del 1848.
Il nostro compito potrebbe essere quello di favorire “una nuova crisi” e così rendere possibile la “rivoluzione”. Ma oggi, dopo la sconfitta (sulla quale non abbiamo ragionato abbastanza), è ancora possibile operare per “favorire” una crisi? ci sono le condizioni per agire all’interno di una crisi? ci sono le “soggettività sociali”, e politiche, per trasformare una crisi in una “rivoluzione”?
Non sarà forse che quello della crisi è il vestito indossato, in modo permanente, dal capitalismo globalizzato per ostacolare qualsiasi “rivoluzione”, in mancanza dei soggetti sociali e degli strumenti politici per agire la transizione?
Forse ha ragione Nicolò, non ancora trentenne, quando mi scrive: “…sono sempre più convinto che c’è bisogno di cercare dei modi per disertare il presente, abbandonando velleità su grossi progetti e strategie per un futuro che oramai è diventato uno strumento di governo e cattura. Le rivolte ci dicono questo, ‘non c’è più niente da aggiungere, tutto da distruggere’ (scriveva il Comitato invisibile). Il problema è come fare, se riconosciamo la nostra miserabile condizione, ad abitare questo mondo catastrofico uscendo da un’infinita attesa. Brancoliamo in attesa di un evento insurrezionale che forse non si verificherà mai, o forse si verificherà sotto ai nostri occhi e non ce ne accorgeremo nemmeno“. Ora, che fare?