“insorgiamo” :: Sanzioni irrisorie per le multinazionali che delocalizzano

Circa 3,4 milioni di euro nella peggiore delle ipotesi e intorno a 2,6 milioni nei casi meno “scabrosi”, a fronte di fatturati globali da decine di miliardi di euro. Ecco quanto costerà a una multinazionale chiudere uno stabilimento in Italia senza rispettare le nuova norme anti- delocalizzazioni. Cioè l’emendamento alla manovra arrivato in fondo a quattro mesi di promesse, tensioni, accelerazioni, frenate nel governo e nella maggioranza che lo sostiene. La montagna ha partorito il topolino, verrebbe da dire, anche perché dopo le polemiche il provvedimento, non più un decreto urgente ma un semplice articolo della finanziaria, ha apparentemente soddisfatto tutti (al netto dei lavoratori): dal ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, attento a non penalizzare le imprese, al presidente del M5S Giuseppe Conte (e con lui la viceministra al Mise Alessandra Todde), cioè lo schieramento che puntava a sanzioni molto severe; fino al ministro del Lavoro, Andrea Orlando, che vede il bicchiere mezzo pieno perché il provvedimento comunque è arrivato. Insomma, ognuno ha fissato la propria bandierina, più o meno legittimamente.

Era agosto e davanti ai licenziamenti via sms, il governo annunciava un decreto per frenare le delocalizzazioni: l’emergenza della Gkn di Campi Bisenzio, oltre 400 lavoratori in strada da un giorno all’altro, così come i 150 della Gianetti Ruote di Monza. Ultimi capitoli di una storia iniziata qualche anno prima con la ex Alcoa nel Sulcis per arrivare, chiusura dopo chiusura, alla Whirlpool di Napoli o, è notizia di questi giorni, i 270 operai licenziati dalla Caterpillar di Jesi. Fabbriche in salute spostate in stabilimenti nell’Europa dell’Est (o altrove), dove i costi di produzione sono più bassi.

Le nuove norme riguardano fabbriche con almeno 250 dipendenti e licenziamenti di almeno 50 unità non dovuti a squilibri economico-finanziari. La parte virtuosa del provvedimento, oltre a vari incentivi, obbliga le aziende a comunicare in anticipo la chiusura alle istituzioni, e a presentare un piano che ne limiti l’impatto sociale. Senza il piano o in assenza dell’accordo sindacale, scattano le sanzioni: nel primo caso il raddoppio di quanto previsto dalla legge 92 (la “Fornero”) per i licenziamenti collettivi; nella seconda fattispecie, un 50% in più dello stesso contributo.

L’ufficio studi Cgil ha realizzato per Repubblica un conteggio che “pesa” la sanzione. La retribuzione di riferimento per il calcolo della Naspi, l’indennità di disoccupazione, è pari a 1.227,55 euro mensili per il 2021, mentre l’importo massimo è fissato in 1.335,40 euro. Per stabilire l’importo preciso occorrerebbe dividere l’imponibile previdenziale per le settimane lavorate e moltiplicarlo per 4,33. Ammettiamo che dal calcolo esca una retribuzione media di 1.200 euro: in questo caso, essendo inferiore alla retribuzione di riferimento (cioè i 1.227,55 euro) la Naspi è il 75% della retribuzione media stessa, cioè 900 Euro. Se la retribuzione media mensile è invece di 1.400 euro, al 75% va aggiunto il 25% della differenza tra la retribuzione media effettiva e quella di riferimento: l’importo totale della Naspi, dunque, è di 963,77 euro. In caso di licenziamento collettivo, l’azienda oggi è tenuto a versare il 50% della Naspi per 12 mesi: quindi, nell’esempio di stipendio da 1.200 euro si tratta di 5.400 euro, mentre nel caso dei 1.400 euro il versamento è di 5.782.

La Cgil, dunque, calcola che l’applicazione della norma anti-delocalizzazioni costerebbe al datore complessivamente (contributo comunque dovuto in base alla legge sui licenziamenti collettivi più la nuova sanzione) 10.800 euro per ogni lavoratore nella prima fattispecie (inadempienza) e 8.100 nella seconda (mancato accordo sindacale) in caso di stipendio da 1.200 euro; 11.566 e 8.673 in caso di stipendio da 1.400 euro. Moltiplicando queste cifre per 300 dipendenti (valore medio delle chiusure di stabilimenti avvenute fin qui in Italia) la sanzione complessiva oscillerebbe tra un massimo di 3,4 milioni a un minimo di 2,6 milioni. Parte dei quali, ribadiamolo, le aziende sarebbero già tenute a pagarla oggi in base alle norme vigenti sui licenziamenti collettivi. Il che significa che l’aggravio netto sarebbe in realtà rispettivamente di 1,7 milioni e di 810mila euro. Numeri da confrontare con i fatturati globali delle multinazionali. A titolo di esempio, Whirlpool raggiunge 19 miliardi di dollari (avendo oltretutto beneficiato in Italia di fondi pubblici per circa 100 milioni euro); Gkn 10 miliardi di sterline; Caterpillar 41 miliardi di dollari.

Marco Patucchi


2 commenti

  1. Dovresti chiederlo alle operaie e agli operai della Gkn, che mi pare non facciano bla bla.

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