Gianluca Diana ci racconta alle pagine di Alias, inserto del sabato (30 ottobre) de il manifesto cosa accade nel campo profughi di Dakhla, dove si rievoca il brutale smantellamento dell’accampamento nel 2010.
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La guerra che sembra non esistere, di cui non si parla. È quella nuovamente in atto tra il regno del Marocco e la Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd) dal 13 novembre 2020, dopo una non belligeranza che durava dal 1991, quando venne raggiunto il cessate il fuoco su proposta dell’Onu, a cui avrebbe dovuto seguire un referendum di autodeterminazione accettato da ambedue le parti e mai svolto.
La ripresa del conflitto è stata causata dalla deliberata disobbedienza da parte marocchina degli accordi di ventinove anni orsono nell’area geografica di El Guerguerat, nel sud del paese. E mentre gli scontri proseguono con cadenza pressoché giornaliera al confine con il Muro che divide il Sahara Occidentale tra territori liberati e occupati, indicando con questi ultimi quelli controllati dal re Mohammed VI, nei campi profughi algerini attorno a Tindouf la situazione umanitaria per i rifugiati non è affatto facile. Sulla qualità della vita quotidiana, già aspra di suo, oltre la spada di Damocle degli scontri armati, pesa anche la pandemia da covid19.
Una situazione complicata e rischiosa, che ha visto nell’ultimo anno e mezzo diminuire drasticamente l’approvvigionamento degli aiuti umanitari gestiti dalla cooperazione internazionale, con la conseguenza di un assottigliamento delle risorse alimentari e l’assenza di alcuni beni di prima necessità, a cui si aggiunge una campagna di vaccinazione contro il coronavirus che non decolla e che ad oggi, riguarda solo il 5% circa della popolazione. Il confluire delle criticità è percepibile viaggiando tra le wilayas, a cui manca la consueta effervescenza ed animosità dell’era pre-covid. Eppure all’improvviso, a poco meno di tre ore dall’aeroporto di Tindouf nel campo di Dakhla, si viene inaspettatamente smentiti.«Prisionero de Gdeim Izik o te liberan o me meterán contigo»: l’urlo arriva ovunque nella notte stellata, riempiendo ogni spazio possibile. Non vi è grano di sabbia né una molecola d’aria che non ne risuoni. La voce delle donne saharawi è possente e roboante, rimbalza sulle dune e diviene assordante. Lo slogan si espande nell’aria, mentre senza paura fanno sapere all’ideale prigioniero di Gdeim Izik che se non sarà liberato, loro saranno comunque con lui. Alle ventitré e trenta dello scorso 11 ottobre, a Dakhla è andata in scena la commemorazione degli undici anni dall’insediamento di ventimila saharawi a Gdeim Izik, nei pressi della città di El Aaiun in territorio occupato.
La protesta che terminò il successivo 8 novembre quando l’esercito marocchino distrusse completamente l’accampamento, causò morti, feriti e scontri anche nei giorni successivi, oltre alla prigionia per ventiquattro attivisti politici, alcuni dei quali all’ergastolo. La rievocazione di quelle giornate drammatiche è tanto stupefacente quanto realista: «Quello che abbiamo fatto è stato ricreare una simulazione del brutale smantellamento compiuto dalle forze di sicurezza marocchine nel 2010. Bruciarono le tende, attaccando violentemente donne, uomini, bambini ed anziani. Da allora, nel Sahara occupato, vige un ordine del re del Marocco che impedisce la formazione di accampamenti. Per noi è riprovevole, in quanto la tenda è per noi simbolo culturale e identitario. Ed a tal proposito, il nostro Ministero della cultura ha dichiarato il 10 ottobre di ogni anno «Giornata Nazionale della Jaima (tenda ndr.)», in coincidenza con Gdeim Izik. A parlare è Tiba Chagaf, da cinque mesi direttore della Escuela de Formación Audiovisual (Efa), progetto fondato dal festival FiSahara nel 2011, nonché dirigente dei Dipartimenti di cinema e teatro del Ministero della cultura della Rasd.
È lui la mente creativa di quanto è stato realizzato: «Si è trattato di un lavoro collettivo orchestrato dal Ministero nei campi profughi. Sono state fabbricate le piccole tende poi incendiate nella rappresentazione, ed al contempo nei diversi ruoli, inclusi quelli dei poliziotti marocchini, sono stati impiegati numerosi giovani. Per rendere il tutto più verosimile abbiamo utilizzato suoni e rumori di fondo registrati in quei giorni. Abbiamo dapprima organizzato una simulazione di prova e poi la performance dell’undici ottobre, dove un ruolo fondamentale è stato quelle delle donne che hanno impersonato quelle di Gdeim Izik».
La storia dell’accampamento di protesta che diede il via alla Primavera Araba, come evidenziò a suo tempo Noam Chomsky, rimane ancora ad oggi un momento imprescindibile nella narrazione saharawi, sia a livello personale che sopratutto, collettivo: «Chi ha partecipato sapeva di avere la responsabilità di trasmettere quei momenti di sofferenza e agonia. Non dimenticheremo mai e continueremo a ricordare fintanto che lo slogan cantato dai giovani dei territori occupati, non si realizzerà. Questo significa che la lotta del popolo saharawi non si fermerà finché non avremo raggiunto il nostro legittimo diritto ad una patria libera e sovrana. Altrimenti dovranno continuare a ucciderci e imprigionare, ma dovranno costruire prigioni e tombe per un intero popolo, perché è una lotta generazionale che ogni bambino apprende dalla propria madre».
Le parole di Chagaf arrivano mentre l’odore acre del fumo generato dall’incendio si dirada nella notte di Dakhla, lo stesso accampamento in cui dialogando con alcuni militari in recente congedo dalla battaglia, apprendiamo delle difficoltà di sbarcare il lunario causa il fermo pressoché totale delle attività lavorative. Ma lo spirito resistente e convinto di ogni donna e uomo saharawi non cede di un millimetro. E che né la terra né la guerra siano una questione privata, lo dicono anche i soldati incontrati al fronte, i quali con voce calma e decisa ci hanno raccontato sia della consapevolezza di battaglie impari tra Rasd e Marocco dal punto di vista tecnologico, che delle motivazioni libertarie che li spingono, consci che l’affermazione «o la patria o el martirio» non è retorica ma solo una sincera e cruda realtà.
La stessa serafica risolutezza la mostrano anche i fisioterapisti del Centro Nazional di Riabilitazione Fisica della Croce Rossa a Rabuni, che sorridendo spiegano le problematiche del loro lavoro che portano avanti nonostante la pochezza delle risorse. Identico discorso giunge dal medico responsabile del reparto dell’ospedale che assiste i pazienti affetti da covid19, dove il ventilatore meccanico disponibile è palesemente desueto e poco performante. E non cambia il registro quando a parlare è una studentessa universitaria rientrata da Algeri per poter stare con la famiglia a Bojdour per qualche settimana: rimarca con fermezza il dispiacere di vedere la sua terra in sofferenza, ma comunque il senso di appartenenza rimane inscalfibile. E le dona l’energia per sentirsi felicemente e nuovamente, a casa. Casa come identità, necessaria per raggiungere l’obiettivo: il covid e la guerra non solo non hanno indebolito la determinazione dei saharawi nel loro sacrosanto anelito di libertà e giustizia, ma paradossalmente, sembra che l’abbiano rinforzato.
E che sia la commemorazione di Dakhla o la proiezione di film a Bojdour lo scorso 15 ottobre, la raffigurazione della storia collettiva nel teatro e nel cinema è ad oggi una risposta culturale aggregante e di enorme valore. Oltre a rappresentare anche un’opportunità lavorativa.
Ne è la prova Mariam Omar giovane attrice con una considerevole esperienza alle spalle e protagonista della pellicola Toufa: «Sono nata il 10 agosto 2003 nella wilaya di Bojdour dove vivo con il resto della famiglia. Ho iniziato per gioco, ma ogni volta che interpretavo nuovi ruoli mi appassionavo sempre più, mi piaceva entrare nelle vite dei personaggi. Il mio ruolo in Toufa è quello di una ragazza che, durante la fuga all’inizio dell’invasione del Sahara da parte delle truppe marocchine, perde i genitori nei bombardamenti al napalm».
Per superare i disagi dell’attualità, Omar trova spunto da una storia familiare resistente: «Vivere nei campi è sempre stato difficile per tutti e per le donne ancor di più. Inoltre, da quando c’è la guerra, si nota l’assenza delle persone impegnate al fronte ed è forte la preoccupazione per loro. Ma come sapete, i campi sono stati costruiti e gestiti da donne, e questo per me è un orgoglio. I miei esempi sono sempre stati mia nonna defunta e mia madre: delle combattenti a cui mi ispiro».
Gianluca Diana, il manifesto, Alias, 30/10/2021