Qui, la narrazione di Andrea Bagni, apparsa in volerelaluna, che da spazio ai protagonisti della lotta alla Gkn nel mese di agosto.
Da Volerelaluna, 1/9/2021, di Andrea Bagni.
Ultimi giorni di agosto, arriva il mio turno di sorveglianza notturna alla GKN di Campi Bisenzio. Fabbrica occupata. Si comincia alle 22 e si arriva alle 06, quando entra un altro gruppo. Quattro postazioni, agli angoli del quadrilatero enorme costituito dalla fabbrica. A noi tocca il “cinema”, proprio alle spalle della mega multisala di una zona che è quasi una sintesi perfetta di questa post-modernità. Iper centro commerciale da un lato, multisala dall’altro, i grandi magazzini dei centri della logistica, alcune fabbriche e l’immigrazione cinese tutt’intorno.
Dove arriviamo c’è una specie di capannino coperto con teli di plastica perché quella del cinema è la postazione più aperta, da proteggere dal vento. In realtà, si capirà presto, dal freddo. Passano quasi subito a prendere le prenotazioni per gli spaghetti, programmati alle due di notte. Nello spazio all’ingresso dove si mangerà abbiamo già preso il caffè. Arriveranno anche latte e brioche verso le quattro di mattina. Inutile dire che l’atmosfera è magnifica. Siamo fra compagni. Si spezza il pane insieme, questa notte spaghetti e brioche. Sono momenti di una specie di amore politico, ci si sente straordinariamente vicini a degli sconosciuti. Fratelli.
Verso mezzanotte arrivano cinque giovani operai. In quella postazione ci siamo solo noi, “esterni” di Firenze Città Aperta, e vogliono esserci per darci nel caso una mano. C’è infatti una ricetrasmittente per comunicare con la base, e nessuno di noi la sa usare. Portano un pallone, un cane e anche delle coperte. Il cane si occupa intensamente del pallone. Ci dicono che abbiamo beccato proprio la notte che segna la fine dell’estate. Hanno l’aria di scusarsi, quasi fosse colpa loro – oppure è il loro modo un po’ timido di ringraziarci per il gesto di solidarietà. Chiaro che ci considerano un po’ vecchietti dunque fragili. E non è che sbaglino di molto.
Due operai ci fanno visitare l’interno della fabbrica. Sembra tutto nuovo, enorme, pieno di box e celle, monitor dappertutto, macchine e robot dalle braccia grandi, alcuni lucidissimi. Nuovi. Ci spiegano tutto, veramente tutto, come fosse la fabbrica una loro creatura, e noi facciamo finta di capire, ma è un linguaggio tutto particolare. Ci spiegano che è come un organismo vivente di cui bisogna avere cura (anche con le trappole per i topi che se no si mangiano i cavi), e in effetti sembra di sentire il respiro della megamacchina, ronzii, vibrazioni – artificiale e potente, come in certi film di fantascienza. Il più giovane dei due ci fa vedere i pezzi che giacciono nei contenitori, inutilizzati. Già venduti e abbandonati. Prende un lungo cilindro di ferro, ci dice che è un semiasse della Ferrari, «Guardate che meraviglia!». Dice anche che deve smettere, se no gli viene da piangere. Qui c’è ancora una sorta di sincero orgoglio del lavoro, del lavoro fatto bene. Quei pezzi così puliti sono figli di una meccanica che – per quanta automazione ci sia – ha sempre assoluto bisogno dell’intervento umano. Chi decide le procedure non ha quasi contatto con la realtà del lavoro. Tecnici e dirigenti vivono in un mondo a parte e fanno errori clamorosi. Anche le luci presenti nel capannone incidono sulle rilevazioni dei monitor, fanno sballare i meccanismi progettati, ma nessuno pare abbia previsto l’illuminazione… Si esce e fa davvero freddo adesso. È quasi l’ora della spaghettata notturna. Aglio olio e peperoncino in quantità industriale. Due piatti a testa, poi partono delle macchinine elettriche per le postazioni.
Quando torno al capannino i giovani operai si stanno raccontando. Hanno fra i trenta e i quaranta anni. Sono una squadra, fanno i turni insieme. Raccontano del loro arrivo in fabbrica, di come i più vecchi li massacravano di scherzi – ma gli insegnavano anche il lavoro. Vai a chiedere la chiave a vela. Portami il conduttore a martello. E via così. Stravaganti strumentazioni dell’immaginario. Ognuno racconta di essere stato vittima, e poi complice a danno dei nuovi nuovi. Come in una forma di nonnismo militare. Peraltro la dose di maschilismo presente nel linguaggio è piuttosto elevata. Appartiene, si direbbe, al codice comunicativo standard del gruppo di maschi: una funzione linguistica, fàtica. Inevitabile, forse: non ci sono donne in fabbrica, solo alcune fra gli impiegati. Non fanno i turni e non partecipano gran che all’occupazione. Sembra un po’ di tornare ragazzi, con i compagni di scuola in gita o in campeggio in estate, a organizzare feste con quindici maschi e due femmine – come in molti dibattiti della sinistra di oggi, ma senza musica e balli. Loro hanno tutti un percorso di scuola alle spalle disastroso. Istituti professionali ripetuti per anni e poi abbandonati, formazione professionale oppure più niente, fabbriche e officine. Ma ci raccontano anche che il lavoro gli piaceva. Stavano insieme, potevano avere delle pause, chiacchieravano e scherzavano. Andavano a cena insieme. E anche i turni di notte, per loro giovani, non erano un problema: lasciavano un sacco di tempo libero. Dei tecnici parlano con rispetto di quelli bravi, che ascoltano e capiscono. Pochi. Gli altri degli zeri, inquadrati a livelli stratosferici. Si sente che si vogliono bene, anche se si prendono continuamente in giro. Fra maschi l’affetto sembra avere bisogno sempre di oggetti intermedi, parole che parlano d’altro, schermi protettivi dal linguaggio diretto dei sentimenti.
Ma parlano del loro lavoro al passato. Stanno partecipando alla lotta, non perdono un appuntamento, però pensano tutti che in questa fabbrica che dorme lì accanto non torneranno più. Non dorme – è in coma, per quanto indotto. Irreversibile. Pensano che non ci sarà nulla da fare. Uno, il più alternativo – barba alla Dragowski e orecchino, un tempo capelli rasta – dice che si dovrebbe farci un parco giochi, con scale, scivoli e i robot che fanno salire e scendere i bambini come in una giostra. Non è il linguaggio dei leader della lotta.
Dicono, «Ci siamo certo, partecipiamo a tutto, abbiamo fatto trenta facciamo trentuno», ma non ci credono nel sole dell’avvenire, nella vittoria finale. Sono l’emblema del disincanto, della disillusione. Certo non rappresenteranno tutti i 422 licenziati ma rappresentano qualcosa di significativo. Quello del parco giochi racconta che un tempo si è impegnato, ha combattuto la globalizzazione (forse è stato a Genova anche se non lo dice), ma poi ha abbandonato tutto. Non crede più alle istituzioni. Si capisce che intende i partiti, i governi, i parlamenti – tutta la “politica” forse. Ha votato una volta “per il movimento” (credo i 5 Stelle) ma dopo ha visto cosa hanno combinato e non vota più.
Per noi che siamo lì infreddoliti non è facile l’ascolto. Siamo vissuti un po’ come “i politici”, quelli che ci credono ancora e sono venuti per portare solidarietà alla lotta. E allora quasi ce lo domandano: «Vi abbiamo delusi?, vi aspettavate i militanti che non mollano e invece avete trovato noi…». Sembra quasi si sentano di nuovo in colpa per questa immagine così poco eroica della classe. E tuttavia. Quando ci parlano della scuola e dei giovani che vedono oggi, viene fuori che gli dispiace un casino che siano immersi a tempo pieno nei cellulari e nei social come in una vacanza infinita dalla vita vera. Dicono che a differenza di loro hanno studiato ma accettano lavori infami senza ribellarsi. Che invece non bisogna rassegnarsi al mondo così com’è. Sembra non tollerino il disincanto, la disillusione degli altri. Come mantenessero una alterità, per quanto credono destinata alla sconfitta, che non deve andare perduta. A cui non si deve rinunciare. Forse non credono che potranno cambiare il mondo ma ci tengono a che il mondo non cambi loro.
Alla fine, alle sei di mattina, questa notte mi pare comunque illuminante. E non mi riesce di essere triste. Continuo a pensare che qui, in questa battaglia, su qualcosa si può vincere. Anzi su qualcosa si è già vinto – certo soprattutto emotivamente, sentimentalmente, però a uno straordinario livello di massa che potrebbe ottenere risultati e combattere la cultura dell’oramai, grande strumento del potere: la politica non può più nulla contro le multinazionali, gli stati nazione a questo punto non contano più, la società è impotente etc. Questi operai, così poco eroici, hanno mostrato una creatività straordinaria, non si sono mai fatti trovare là dove l’avversario, invisibile nella sua onnipotenza, li voleva. Non sono mai stati patetici.
Però non è solo questo. Vado a fare colazione con felpa, k-way e sciarpa, ma penso che è stata una notte calda. Molto calda. Forse su un terreno diverso dalla “politica” come la chiamano loro, ma che in qualche modo deve avere a che fare con la politica come la pensiamo noi. Erano disillusi da tutta la dimensione istituzionale, però erano davvero un gruppo, un collettivo, una specie di comunità di destino. Una classe non solo in sé ma anche per sé. Un tessuto di affettuosità operaia, di disponibilità assoluta all’aiuto reciproco. Forse non si sentono un soggetto politico vincente, hanno troppo chiara la realtà che li circonda e la disposizione delle forze in campo. Però a me sono sembrati comunque un soggetto collettivo, una rete di esperienze comuni, vissute, riflettute. E non pacificate con il mondo. Forse non è gran che, però non mi pare nemmeno pochissimo. Rispetto al capitalismo dominante e alla sua cultura, una specie di alternativa esistenziale. Forse non lontana dalle ragazze e dai ragazzi che hanno riempito le strade per il Friday For Future o il Black Lives Matter. Una questione etica e antropologica, di relazioni umane. Quindi politica.
È possibile che me la voglia raccontare così questa notte, perché per sopravvivere nel tempo gelido delle solitudini globali, occorre una sorta di ottimismo programmatico. Però forse davvero si può ripartire da questo essere altro in un luogo comune. In ogni caso, in questa alba di fine estate, oggi mi basta.
Andrea Bagni, Volerelaluna, 1/9/2021