Arianna Longo racconta su il manifesto una lotta operaia e analizza la partecipazione democratica che la resa possibile. Una resistenza di classe messa in moto dopo le mail di licenziamento: la risposta di Campi Bisenzio è stata possibile grazie all’ampia partecipazione sindacale che le tute blu hanno costruito negli anni.
«È stata una giornata indimenticabile». Stefano Pistolesi, operaio Gkn, sorride nel sugellare così la manifestazione di sabato 24 luglio, quando un nastro rosso di bandiere e striscioni ha cinto la zona industriale di Capalle, per unirsi alla protesta delle 500 persone licenziate in tronco dal fondo finanziario Melrose. I lavoratori presidiano in modo permanente lo stabilimento dal 9 luglio, data in cui è stata avviata la procedura di licenziamento collettivo. «C’è polemica?» – chiede scherzosamente Dario Salvetti, Rsu Fiom Cgil, ai suoi compagni, intenti a svolgere le mansioni necessarie a mantenere operativa l’officina. La stanchezza, palpabile, è stemperata dal vino che una delegazione delle tute blu di Melfi ha portato in dono la sera prima.
È arduo non provare stupore, sostando per la prima volta ai cancelli della Gkn di Campi Bisenzio. Ma ciò che si può vedere oggi è solo l’ultimo tassello di un quadro che gli operai hanno composto con tenacia negli anni precedenti. «Lo spirito dell’attuale Collettivo di Fabbrica è nato tra il 2007 e il 2008 – racconta Matteo Moretti, anche lui Rsu Fiom della fabbrica – in occasione di uno scontro con l’azienda». La proprietà di allora propose uno scambio: se i dipendenti avessero accettato un nuovo orario di lavoro (8 ore al giorno per 6 giorni la settimana), avrebbero ottenuto il contratto integrativo.
In più, ci sarebbero state 20 assunzioni, «ma quello tra orario di lavoro e assunzioni è uno scambio a perdere» – spiega Moretti. Chi vive l’automotive dall’interno, infatti, sa che la stabilità di un’organizzazione del lavoro su 18 o 21 turni non può essere garantita da un’azienda di componentistica, quale la Gkn. «Noi non facciamo un prodotto finito che va direttamente sul mercato, facciamo semiassi che vanno sulle autovetture. Se il mercato non tira, la produzione non ce l’hai» – prosegue l’Rsu.
Una considerazione che Salvetti estende all’intero settore: «Diverse aziende hanno ristrutturato l’occupazione passando dai 15 ai 18 o 21 turni in ordinario, ma in realtà 21 turni non li fai mai. Quindi ti rovinano i festivi, i sabati e le domeniche, mentre un pezzo di fabbrica se ne sta come esercito di riserva in cassa integrazione». A quel punto, la forza contrattuale della manodopera è pregiudicata perché qualsiasi sciopero ha come spada di Damocle il fatto che l’orario di lavoro non è mai saturo.
Rifiutando la turnazione proposta – la stessa adottata in diversi stabilimenti dell’ex Fiat Chrysler – i lavoratori imposero all’azienda di contrattare ogni singolo sabato di straordinari e ottennero una vittoria importante: «se gli straordinari richiesti diventavano troppi, rispondevamo che allora c’era bisogno di fare manutenzione alle macchine oppure di assumere. E così facendo, di gente, ne abbiamo assunta una valanga. Controllando il rubinetto del tempo, controllavamo anche quello del reclutamento» – riassume Salvetti.
Attorno al gruppo di operai che condusse e vinse quella battaglia si sarebbe formato l’odierno Collettivo di Fabbrica. Il balzo fu fatto dieci anni dopo, a cavallo tra il 2017 e il 2018, quando si tentò di applicare il ‘modello Marchionne’ anche all’officina campigiana. Tra le celle di montaggio avrebbe fatto la sua comparsa il team leader, figura che nell’intento dei vertici aziendali avrebbe dovuto rivestire un ruolo parasindacale, assurgendo a punto di riferimento per i lavoratori che avrebbero chiesto chiarimenti sul contratto o informazioni sulle ferie.
In altre aziende il successo del team leader, investito dell’ufficialità dell’azienda, aveva già compromesso seriamente i rapporti di forza all’interno della fabbrica. Soprattutto, con il subentro del fondo finanziario, la cui dirigenza si è subito mostrata poco attenta alla qualità del prodotto e a un’organizzazione razionale del lavoro, «avevamo bisogno di costruire una struttura di contropotere – ricorda Salvetti – così abbiamo deciso di istituire i delegati di raccordo».
Riconosciuti anche dall’azienda, dunque tutelati dalla legge 300 sui diritti sindacali, i delegati di raccordo svolgono «la funzione dei Consigli di fabbrica degli anni Settanta, cioè controllano l’organizzazione del lavoro reparto per reparto, turno per turno» – chiarisce Moretti.
In questo modo, il terreno dello scontro è esteso a tutta l’officina, ma non si gioca solo fra singoli individui: i team leader da una parte, i delegati di raccordo dall’altra. Questi ultimi esercitano il proprio ruolo seguendo un metodo che scardina la logica padronale, vale a dire, allargando la partecipazione di tutti gli operai all’attività sindacale.
Fu in vista di questo scopo che le diverse forme di aggregazione sperimentate negli anni pregressi assunsero la fisionomia del Collettivo di Fabbrica: un gruppo composto da otto Rsu, un Rls, i 12 delegati di raccordo e alcuni operai (in numero variabile) con più disponibilità ad approfondire le questioni inerenti alle vertenze interne e al contesto socioeconomico generale. «Nei periodi normali il Collettivo si riunisce al termine di ogni turno e per ciascuno sono sempre almeno dieci persone a fermarsi, perciò a fine giornata si arriva a coinvolgere 30 lavoratori» – spiega Salvetti.
L’obiettivo delle riunioni è rendere più fluido il rapporto tra la Rsu e l’assemblea generale, di cui fa parte tutta la manodopera dell’officina. In altre parole, non riprodurre in Gkn ciò che accade di solito sui luoghi di lavoro: la Rsu avanza proposte sulla linea politica e i lavoratori si esprimono in merito con voto favorevole o contrario, «in un’assemblea di un’ora in cui parla solo il delegato o peggio il funzionario. Certo, così puoi anche far passare le proposte, ma dietro un sì, una mano alzata o un silenzio ci sono tante cose. Ecco perché abbiamo formato un organo che garantisce la riflessione di un nucleo più ampio» – continua il delegato Fiom.
Un esempio concreto? In vista di un’assemblea con un ordine del giorno spinoso, Rsu e delegati di raccordo iniziano a discutere due giorni prima. Il giorno prima, invece, il confronto si allarga all’intero Collettivo.
Il vero detonatore della partecipazione sindacale, però, sta nella variazione dei membri del Collettivo: i delegati di raccordo, infatti, restano in carica per soli 12 mesi.
Ogni anno, ricevute le candidature, la Rsu apre la discussione nel Collettivo, per far sì che i nomi da proporre all’assemblea generale – alla quale spetta l’ultima parola – siano distribuiti tra tutti i turni e i reparti. Non solo, la Rsu è vincolata a promuovere la turnazione dei delegati di raccordo, perciò di anno in anno deve ragionare sulle persone che ha intorno, formarle, responsabilizzarle. «L’assemblea generale dei lavoratori è la vera democrazia di fabbrica – commenta Salvetti – ma con questa organizzazione anche la Rsu è costretta a un esercizio di democrazia considerevole».
Attraverso il ruolo di delegato di raccordo, ogni lavoratore può mettersi alla prova e tutti, a rotazione, possono vedere il sindacato dall’interno. Senza però correre il rischio di distaccarsi dal luogo di lavoro: con sole tre ore di permesso al mese, non cumulabili, questa figura sindacale non deve far fronte a tutti gli impegni della Rsu, dunque rimane a stretto contatto con i compagni e vigile rispetto alle dinamiche del proprio reparto.
Introdurre un livello intermedio di rappresentanza allo scopo di allargare la partecipazione. Questa, in breve, la ricetta Gkn. E che la ricetta funzioni lo testimonia Paolo Marini, operaio della fabbrica, che «di sindacato – confessa – da giovane non me ne interessavo molto. Avevo fatto la tessera, ma poi me n’ero allontanato. Quando in Gkn si sono moltiplicate le iniziative, dentro e fuori l’officina, abbiamo fatto gruppo, eravamo combattivi e questo mi piaceva.
Oggi sono un membro della Rsu». E sull’opportunità di costituire forme analoghe di aggregazione in altri stabilimenti non ha dubbi: «se gli operai di un’azienda sono sindacalizzati – non solo in termini di tessere, ma anche di cultura diffusa – nei momenti di difficoltà sei già pronto ad agire. Quando va tutto bene, invece, puoi migliorare l’organizzazione del lavoro».
La cronaca recente della Gkn ne è la prova: da quando è scattato il presidio di resistenza ai licenziamenti, il Collettivo di Fabbrica si è trasformato nell’Assemblea permanente. A prenderne parte non è soltanto chi lavora in officina, ma anche le figure professionali dell’ingegneria, della qualità, della logistica. «Adesso quello di cui avremmo bisogno è l’unione con i lavoratori Stellantis – sottolinea Moretti – perché la ristrutturazione avvenuta a Melfi, quella in atto alla Sevel e che potrebbe verificarsi anche a Pomigliano sono preoccupanti.
I lavoratori non possono stare chiusi negli stabilimenti per poi farsi suonare la ninna nanna dalla cassa integrazione e dal contratto di solidarietà. Devono capire quale sarà il loro futuro, specialmente alla luce di questa ‘fusione’ che è andata tutta a favore dei francesi».
Da iscritto Cgil, Moretti auspica che «la vertenza della Whirlpool, della Gianetti Ruote e della Timken siano messe in correlazione. Perché i lavoratori delle singole aziende devono lottare da soli e non tutti insieme?».
il manifesto 31/7/2021