Riportiamo qui una lettera che Nicolò Molinari ci ha inviato dopo i fatti di ottobre a Torino. E’ una riflessione in presa diretta, dura, viva, che non fa sconti e apre voragini nella discussione sul “che fare?”. La mettiamo qui perché ci sembra utile per fare luce sulle pratiche politiche senza dare risposte univoche…
Un po’ di possibile, altrimenti soffoco.
(G. Deleuze, L’immagine – tempo)
Non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria
(W. Benjamin, Tesi sulla storia)
È la sensazione di riuscire finalmente a respirare quella che abbiamo vissuto scendendo in piazza lunedì 26 Ottobre a Torino.
Eravamo elettrizzati dalle immagini di Napoli, dai racconti che ci arrivavano, non sapevamo cosa aspettarci nella Detroit italiana.
Al rientro a casa abbiamo tirato un respiro di sollievo misto a gioia… la tensione è scesa, i nervi si sono distesi ed è scappato un liberatorio “abbiamo vinto!”… che cosa non lo sappiamo neppure noi, ma la sensazione che qualcosa di forte fosse successo ci ha avvolto.
A distanza di giorni non vogliamo rinunciare all’entusiasmo di quella sera. Certo possiamo leggere molti aspetti in maniera un po’ più lucida, essere scettici su cosa seguirà, ma non rinunciamo allo squarcio che è stato aperto in quei momenti convulsi.
Abbiamo potuto vedere oltre lo squarcio e ora abbiamo voglia di quel possibile che per qualche istante abbiamo respirato.
Dopo tanti discorsi sulla miseria dei rituali che il “movimento” italiano continua a riprodurre, l’altra sera abbiamo finalmente provato la sensazione di essere spiazzati da qualcosa che ci sfuggiva.
Finalmente anche in Italia siamo costretti a fare i conti con qualcosa di più grande di noi, finalmente ci accorgiamo di indossare lenti che distorcono la realtà, la piegano su categorie che non riescono a spiegare realmente quello che accade. Però non è facile liberarsene, nemmeno metterle in discussione, certe categorie del linguaggio ci permeano, abitano nel nostro subconscio e modellano il nostro pensiero e la nostra azione. Per questo non ci stupisce il fatto che nei giorni successivi nella variegata galassia della sinistra italiana già fioccassero analisi scientifiche (riduzionistiche) e considerazioni su di un qualcosa che era confuso a chiunque l’avesse realmente attraversato. Spiegazioni nel lessico della “scienza esatta” della lotta di classe che però ci pare non riescano a prevedere o comprendere, ma nemmeno organizzare (come ci mostrano le mobilitazioni sottotono organizzate dalle realtà della sinistra).
È difficile abbandonare un’attitudine depositata in anni di attivismo, abbandonare la posa dell’avanguardia che prova a leggere la fase, ma anche quella di cercare una chiara spiegazione ad un qualcosa che non è totalmente comunicabile con il linguaggio che siamo soliti maneggiare. Per questo è forte la tentazione di intendere manifestazioni convulse come risultato di fattori economici e sociali, di soggetti e categorie, di rivendicazioni e cause, una sorta di calcolo e sommatoria quantitativa, lasciandosi sfuggire la profondità qualitativa di ciò che si vive, del sensibile che possiede uno scarto con ciò che è comunicabile, ma che è il più forte legame ad unire chi scende in strada.
Analisi e considerazioni che non ci sentiamo di definire sbagliate o distorte, ma sicuramente affrettate, ci sono parse evidenziare la difficoltà di tanti compagni di abbandonare un retaggio leninista volto ad una presa di potere, salvo poi scontrarsi con il fatto che il potere in quello spazio che è stato aperto (per poi subito richiudersi) non c’è, sfugge.
Abbiamo letto testi di sociologi e antropologi che propongono chiavi interpretative di tutte le piazze italiane, anche se tutte profondamente differenti.
Abbiamo letto decine di articoli sulla composizione delle piazze, sui giovani proletari, sulle seconde generazioni immigrate, sugli ultras, ma anche sui commercianti, i baristi, i fascisti, i cripto-fascisti e via dicendo.
Dall’altra parte abbiamo assistito ad un altro tipico atteggiamento della sinistra militantesca, quella di intervenire in uno spazio con le pratiche tipiche del proprio bagaglio, traslando in contesti ancora poco conosciuti e in parte estranei, modalità riconoscibili. Prima ancora di entrare in relazione con la novità ci sono stati tentativi maldestri di portare slogan e parole d’ordine dentro una piazza ritenuta “qualunquista” e “pre-politica”. Ci viene da chiederci come mai frammenti del mondo antagonista abbiano bisogno di appoggiarsi alle nuove forme conflittuali che emergono per dare vitalità alle proprie rivendicazioni.
Ci riferiamo ad esempio a quanto è stato detto e scritto sul reddito di quarantena. Tema dibattuto già prima delle manifestazioni di queste settimane, per essere poi rilanciato nello spazio che si era aperto nelle piazze delle varie città italiane, dove però gli slogan più scanditi erano “libertà” e “Conte vaffanculo”.
Non possiamo quindi fare a meno di domandarci quale sia il senso di imboccare delle rivendicazioni in delle manifestazioni in cui un tema del genere è percepito come estraneo, ottenendo quindi di essere visti come degli alieni, producendo un ulteriore distacco da una galassia sconosciuta con cui si poteva avere occasione di entrare in relazione. Questo non lo scriviamo perché ci faccia schifo il reddito di quarantena, non è questo l’oggetto del nostro interesse, ma il fatto che ci pare una rivendicazione difficilmente esprimibile da quelle piazze, anzi difficilmente esprimibile all’infuori dei ristretti circoli militanti-intellettuali. Fuori da questa ristretta comunità l’orizzonte di un reddito che non sia salario, che sia svincolato dal lavoro è di difficile immaginazione, perché l’esistenza di larga parte delle persone scese nelle strade, si consuma sotto il ricatto del lavoro salariato, precario o sommerso, senza mai essere messo in discussione.
Non vogliamo però concentrarci sui difetti (del tutto relativi) delle persone con cui siamo abituati a fare politica da tempo, anzi, possiamo dire che in realtà ci ha stupito la voglia di scendere in piazza e di attraversare quel momento, non da scienziati sociali e nemmeno da militanti, ma da persone che condividevano un sentimento di rabbia profondo. Infatti, come ci mostrano i gilet gialli, il motore politico fondamentale è quello di un piano di percezione condiviso, di un’esperienzialità che si fa comune.
Scrivere da Torino non è facile, farlo a distanza di tempo, ancora meno, per questo non pretendiamo di parlare di altro oltre a quello che noi abbiamo vissuto e rielaborato in questa città la sera della protesta e i giorni successivi.
Crediamo che solo uno sguardo e un vissuto situato possano al momento essere utili a cogliere e rielaborare quello che è successo, ma anche quello che verrà.
Le chiamate per scendere in piazza a Torino il 26 ottobre veniva da dei gruppi Facebook che non davano rimandi a particolari appartenenze politiche o categoriali, gli inviti erano a incontrarsi in due piazze differenti: la prima chiamata era per piazza Castello dove si trova la sede della Regione Piemonte rendendo anche il governo regionale bersaglio della contestazione (insieme a quello nazionale), la seconda era per piazza Vittorio, una delle piazze più ricche di bar e ristoranti del centro della città.
La narrazione mediatica è stata quella di una Torino divisa in due piazze, una dei disordini una dei rispettabili, a noi pare invece che un’intera area della città, quella delle due piazze e della via che le congiunge, si sia trasformata in uno spazio di relazione, incontro e scontro.
Come in uno sciame i manifestanti si muovevano all’interno di quest’area, andavano e venivano, si scambiavano battute e lanciavano cori. Non conosciamo la vera composizione della piazza, possiamo però affermare di esserci trovati al fianco di tante persone diverse, ragazzini con la tuta della Juventus, mariti e mogli distinti e curiosi, Ultras dotati di casco, ma anche molti visi noti del “circuito antagonista”.
La cosa interessante è stata constatare che tante persone di back-ground notevolmente diversi stavano in piazza insieme, tante persone con cui raramente troviamo modo di relazionarci erano a fianco a noi a sfuggire lacrimogeni, occupare strade e piazze e resistere alle cariche.
La protesta non ha cercato di attaccare i “palazzi del potere”.
Una rabbia cieca si è scatenata contro le forze dell’ordine a manifestazione appena iniziata. Questo perché la polizia ha caricato le persone in Piazza Castello, tentando di sgomberare la zona e dando vita ad un fitto lancio di gas lacrimogeni che ha incontrato la resistenza delle persone presenti. Da lì in poi gli scontri sono infuriati per le due ore successive spostandosi per tutto il centro città: debordando in qualche vetrina spaccata e due negozi saccheggiati.
La presenza e la tenuta in piazza di molti ultras e compagni con la predisposizione allo scontro con le forze dell’ordine ha svolto un ruolo importante nelle dinamiche della serata, facendo durare gli affrontamenti per diverse ore.
La presenza degli Ultras non coincide, però, con la presenza dell’estrema destra, perché se è vero che tra questi due ambienti ci siano relazioni strette è altrettanto vero che la presenza in piazza dei fascisti organizzati, soprattutto durante gli scontri, è stata minima se non nulla. La composizione variegata oltre che multietnica, insieme ad una forma caotica e decentralizzata, può essere di per sé escludente per i fascisti.
Come per tante mobilitazioni degli ultimi tempi, gruppetti di giovanissimi hanno fatto da protagonisti. Se, però, nelle piazze contro il cambiamento climatico o contro il razzismo molte persone sono state attratte anche dalla “brandizzazione” (vedi Fridays For Future e Black Lives Matter), in questo caso ci sentiamo di dire che il movente era diverso.
Anzi, una sorta di “viralità” è emersa in maniere decentrata, non a partire dai profili di importanti influencer, ma dalla miriade di profili Instagram e TikTok: numerose sono le pagine nate nei giorni successivi per rilanciare le immagini delle vetrine spaccate o dei saccheggi dei negozi.
Si è venuto a creare un abbozzo di immaginario che richiama per molti aspetti quello americano o francese, costituendo una grossa novità nel panorama italiano.
Nei giorni e nelle settimane successive si sono moltiplicati gli appuntamenti, in noi è andata maturando una forte attesa che l’evento che si era verificato lunedì 26 si potesse ripetere.
In realtà quello che è successo dopo è stato fortemente deludente: la domenica successiva abbiamo trovato una piazza fiacca, con un gruppetto riconoscibile di fascisti circondati dalla polizia in un clamoroso flop.
Allo stesso tempo quello che doveva essere il secondo momento di protesta si è tradotto anche in un inseguimento grottesco tra gruppetti di giovani e polizia in borghese.
Dopo quel giorno le aspettative sono calate molto, facendo spazio alla sensazione che il momento vissuto la settimana precedente non si sarebbe ripetuto nel breve periodo.
In ogni caso diverse realtà del movimento torinese hanno provato a lanciare una manifestazione senza firma per sabato 7 novembre. Purtroppo questo tentativo ha dato vita ad un momento di piazza molto fiacco che ha raccolto una scarsa partecipazione, limitata al solo entourage della sinistra torinese.
Questi diversi momenti ci hanno portato a domandarci in quale modo il nostro percorso politico poteva risultare una ricchezza per arricchire e non ostacolare ciò a cui abbiamo assistito, per quanto ad uno stadio pre-embrionale.
Abbiamo quindi creduto che potesse essere utile condividere saperi e pratiche in un rapporto alla pari, rispetto agli strumenti di autodifesa, prima dopo e durante le manifestazioni, diffondendo materiale informativo sul web e sotto forma di volantini.
I volantini si sarebbero potuti rivelare anche ottimi strumenti di relazione, per avviare un dialogo con le persone che si incontrava.
In questo momento, però, ci pare evidente che momenti di piazza intensi non siano all’orizzonte, anche se sappiamo che, se si verificheranno, sarà in maniera estremamente inaspettata, per cui dovremo essere pronti a reagire in tempi molto brevi.
Allo stesso tempo dovremo provare a immaginarci altri spazi e momenti di relazione, cercare di uscire dalla bolla in cui ci siamo confinati per poterci mettere realmente in discussione di fronte all’emerge di queste nuove forme di conflittualità.
È arrivato il momento di tacere, per metterci in ascolto, perché non abbiamo più nulla da dire.
Nicolo Molinari
Sotto questi colpi siamo i maledetti. Senza via d’uscita, dimmi cosa aspetti dal futuro. Muro contro muro non ci sta nessuno. C’è chi brancola nel buio, più niente è al sicuro
(Lou X, Il mattino ha l’oro in bocca)