Sri Lanka. La Commissione per i diritti umani pubblica il dossier sui fatti del 2009
Dopo anni, ecco il rapporto Onu sulla strage dei Tamil
Emanuele Giordana
Il treno si ferma nel cuore della notte in una piccola stazioncina senza nome della linea Colombo Jaffna.
In realtà è arrivato al confine della regione tamil di Vanni, che nello Sri Lanka comprende quattro distretti che, con la penisola di Jaffna, formano la terra tamil. Salgono i militari, fucile spianato, giovanissima età, quasi nessuna parola fuor della loro lingua. Chiedono il passi per poter varcare la frontiera immaginaria tra lo Sri Lanka a maggioranza singalese e l’area dove la maggioranza è invece formata da tamil in gran parte induisti, una comunità venuta dall’India del Sud secoli fa.
Come del resto i singalesi, adesso in maggioranza buddisti. Non capiamo o fingiamo di non capire: il passi non l’abbiamo. È il gennaio dell’anno scorso e ci sono appena state le elezioni, conclusesi con la disfatta del regime di Mahinda Rajapaksa, l’uomo che ai tamil ha fatto la guerra per anni e che, alla fine, l’ha vinta con una strage. Senza giustizia, nella piena impunità.
Il passi lo avevano levato ma adesso chissà, sembra di nuovo in vigore, forse per via delle elezioni. Gentilmente ma fermamente ci fan scendere la treno. La notte è umida e fresca ma non c’è nemmeno un po’ di luna a rischiarare un paesaggio così buio che nemmeno le mostrine dei soldati han l’occasione di brillare.
Nella stazione non c’è anima viva oltre le divise verdi. E nonostante due giovani reclute di sesso femminile che ridacchano tra loro rompendo la tensione, un brivido gelato corre lungo la schiena.
Questa è terra di esecuzioni sommarie. Invece dopo un po’ arriva un camion militare e si arriva velocemente al posto di blocco: un’enorme caserma con un palo abbassato. C’è una fila di tamil e qualche turista, come noi senza passi. «L’avevano levato», protesta un tamil con passaporto britannico che viene trattato – a casa sua – come uno straniero. Chi è partito all’estero – e forse per questo si è salvato – paga questo prezzo. Uno di loro ci dà un passaggio la mattina dopo quando, dopo un fax a Colombo, veniamo liberati.
La carreggiabile A9 verso la penisola di Jaffna corre tra due ampi margini di terra aggrediti dalla foresta e del tutto incolti, interrotti da qualche grossa fattoria che sembra appena impiantata.
«Lo è – dice l’autista – sono terreni confiscati e alienati a singalesi mandati qua per ripopolare un’area che è stata svuotata di noi tamil. Non ci sono case lungo la strada? Sono state distrutte, la gente cacciata. E i terreni adesso dati a militari che hanno finito la ferma.
Per loro c’è acqua, pozzi, sementi. Per noi persino l’obbligo di non celebrare i nostri morti». Torna quel brivido lungo la schiena. Gelato e affilato come la lama di una baionetta. La rivolta, latente da secoli, comincia nel 1983, quando si afferma un nuovo gruppo secessionista, armato e organizzato: le Tigri per la liberazione della patria Tamil (Ltte) che chiede uno Stato separato da Colombo, il Tamil Eelam nel Nord dello Sri Lanka, su quasi un terzo della terra della Lacrima dell’Oceano indiano.
La campagna militare dura 26 anni e finisce, con una strage, nel maggio del 2009. L’offensiva si svolge durante l’assedio di Gaza (Piombo fuso) che oscura totalmente questo conflitto secondario, con pochi testimoni e migliaia di morti, almeno 70mila, forse di più.
L’Onu pubblica sulla vicenda due rapporti ma poi rinvia tutto alla Commissione per i diritti umani di Ginevra (Hrc), che non si è ancora espressa.
Tra qualche giorno però il dossier Sri Lanka, il rapporto dell’Alto commissariato per i dritti umani, verrà presentato alla Commissione dell’Hrc. È un rapporto che ha faticato anni a venire alla luce e che adesso, se il calendario sarà rispettato, dovrebbe essere presentato nel fine settimana al governo di Colombo, 48 ore prima di essere messo online, a disposizione dei delegati alla 30ma sessione della Commissione che si apre a metà settembre.
La discussione è prevista per la fine del mese. La gestazione è stata lunga e questo spiega tante cose: pressioni di ogni tipo e interventi a gamba tesa di Colombo per procrastinare, annacquare, boicottare il lavoro dell’Onu. A colpi di rinvii intanto si è adivenuti a un accordo: il rapporto consiglierà quel che va fatto ma senza fare nomi. Ce ne dovrebbe essere per tutti, governo e Ltte, ma le responsabilità individuali, sembra di capire, resteranno nel vago. L’Ltte comunque ha già pagato.
Hanno pagato con un massacro le cui tracce vanno scomparendo. Persino i cimiteri, i Tuilum Illam (casa del sonno) «erano stati sistematicamente distrutti con i buldozer», scrive Cristiana Natali in Oltre la nazione, un saggio a cura di Giuseppe Burgio uscito da poco per Ediesse.
Una distruzione condotta con la forza e obbligando la popolazione civile a parteciparvi. Alla distruzione sistematica delle memoria si accompagna «il programma di colonizzazione…e alla distruzione dei cimiteri — scrive ancora Natali — è seguita la progressiva occupazione dei territori del Nord e dell’Est da parte di cittadini singalesi».
Un segno evidente lo vediamo a Kilinochchi, l’ex capitale amministrativa delle Tigri: i cimiteri sono scomparsi ma c’è un enorme monumento al milite ignoto, guardato a vista da due soldati. È un possente muro grigio con una pallottola dorata piantata in mezzo. A Killinochchi di milite ignoto se ne può onorare uno solo: quello con la divisa dello Sla (Sri Lanka Army). Ricordare i martiri della secessione è reato.
La guerra contro l’Ltte doveva terminerà tra l’ottobre del 2008 e il maggio del 2009, i mesi del terrore ricordati per una manovra a tenaglia costellata di bombardamenti sulle no fly zone contrattate con l’Onu, in cui si concentrarono alla fine – in un’area grande come Central Park a New York — oltre 300mila persone. Strette in una morsa che racchiudeva tigri, residenti locali e sfollati. L’esercito chiude la morsa e stritola l’enclave. Il resto è silenzio.
Dire se ora le cose per i tamil del Nord cambieranno — dopo il rapporto dell’Onu e soprattutto dopo la fine del regime di Rajapaksa — è difficile anche se il nuovo presidente, Maithripala Sirisena, deve la sua vittoria elettorale proprio ai tamil e ai musulmani delle regioni settentrionali.
Infine il suo premier, Ranil Wickremasinghe primo ministro per la terza volta, è stato un uomo che ha tentato di negoziare coi tamil prima che il regime decidesse di chiudere la partita con la strage del 2009. Una strage ancora senza colpevoli.
il manifesto, 28/8/2015
La denuncia del vescovo di Mannar
Il primate di Mannar Joseph Rayappu è un uomo possente e dai modi autorevoli. Ci riceve nella casa vescovile alla periferia di una città che è stata teatro di scontri importanti e che, in alcuni casi, l’esercito ha messo a ferro e fuoco. Non è un uomo che ha peli sulla lingua anche se ogni parola è calibrata. E pesa come un macigno. «C’è sempre stata una politica chiara verso i tamil: distruggere il loro potere, prendere la loro terra (e ora vi sono qui più militari che durante la guerra!) e costruire ovunque templi (buddisti ndr). Far dei tamil nella loro terra una minoranza, distruggendone anche la lingua e la cultura. Lo si potrebbe chiamare genocidio strutturale. Poi c’è stato il massacro vero e proprio e non con i numeri sinora prodotti».
L’Onu ha sostenuto nel 2011 che nella sola fase finale del conflitto i civili uccisi potrebbero essere stati circa 40mila. Furono molti di più. Abbiamo fatto una ricognizione confrontando censimenti e scomparsi. Noi sosteniamo che probabilmente furono oltre 140mila. Per la precisione a noi risultano 146.679 desaparecido.
E la Commissione nazionale di indagine? Non mi ha mai interrogato.
Prove oltre i numeri del censimento? Un magistrato mi ha raccontato che tutto è stato fatto sparire a partire dai corpi: le ossa incenerite per non lasciare traccia.
il manifesto, 28/8/2015