Dossier contro “La buona scuola”. Quale?

Genealogia della buona scuola

Giorgio Mascitelli

 Con la pubblicazione del documento La buona scuola. Aiutiamo l’Italia a crescere Matteo Renzi e i suoi collaboratori hanno voluto rendere edotto il pubblico sui progetti e l’attività di riforma del governo nel comparto scolastico. Il documento ha carattere divulgativo, fin nell’impaginazione direi, e pertanto sorvola su parecchi dettagli tecnici limitandosi a enunciare obiettivi e a indicare in linea di massima le vie per realizzarli, con l’unica eccezione della carriera dei docenti trattata abbastanza diffusamente e in maniera cogente per l’amministrazione, oppure investe di una dimensione e di un colore progettuali provvedimenti già in vigore, come nel caso della valutazione del sistema scolastico. Proprio questa assenza di particolari, che poi solo apparentemente sono secondari visto che sono gli aspetti giuridici, regolamentari, organizzativi e finanziari che consentono di farsi un’idea precisa sul funzionamento del dispositivo, rende il testo un’interessante testimonianza di un’idea generale di scuola.

Chiaramente questo documento si presenta in continuità con la riforma Berlinguer e le altre che la hanno seguita e soppiantata e soprattutto con quelle raccomandate dall’Unione Europea e auspicate dall’OCSE, alla prima delle quali istituzioni le abbiamo promesse ( e si sa che ogni promessa è debito, specie se si hanno anche debiti di altro genere). L’enfasi posta sulla centralità dell’inglese e dell’informatica, sull’alternanza scuola lavoro, sull’autonomia degli istituti, sulla loro valutazione, sull’organico funzionale, sullo sviluppo delle competenze anziché dei saperi, sull’introduzione di differenze salariali, non basate sull’anzianità per i docenti di fatto è stata il comun denominatore del discorso sulla scuola in questi anni. È tuttavia analizzando un paio di particolari stilistici del testo renziano, che si può cogliere il quadro ideologico ispiratore.

Non alludo certo alla selva di anglismi presenti nel testo che fanno parte di un folclore managerialminesteriale di pertinenza più che altro degli antropologi culturali, anche se l’annuncio conclusivo che non si terranno convegni per dibattere del progetto ma solo codesign jams, barcamp or worldcafé, è un evidente adescamento della Musa del sarcasmo che si cela in ciascuno di noi. È di maggior interesse, invece, ciò che è stato notato da molti ossia che questo insieme di provvedimenti non viene più chiamato riforma ma patto. In questo caso gli estensori del documento hanno lavorato con saggezza e aderenza ai principi della piena comunicatività del nostro tempo: hanno compreso che il termine riforma è ormai talmente usurato che, persa la sua connotazione positiva, ne ha ormai soltanto una negativa, che richiama la negazione di diritti e di risorse. L’abbandono del termine riforma è significativo anche per un altro aspetto: questa parola infatti implica una sfumatura di definitività o quanto meno di stabilità. L’adozione di una riforma comporta inevitabilmente che il campo oggetto della stessa funzioni per un lasso di tempo, quanto meno pluridecennale, sulla base delle nuove regole.

Per la scuola invece è previsto, come del resto è successo negli ultimi venti anni, una sorta di cambiamento permanente che serva a giustificare una mobilitazione totale in vista dell’adeguamento alle sempre nuove esigenze economiche, organizzative, ideologiche. In particolare queste ultime sono di particolare rilievo: man mano che la crisi perdura, la disoccupazione cresce e le disuguaglianze sociali aumentano, l’inadeguatezza della scuola è e sarà sempre più indicata come responsabile principale di questi fenomeni per non mettere in discussione le politiche neoliberiste.

Ecco dunque che parlare di riforma in una scuola in perpetuo movimento, o meglio mobilitazione, avrebbe un effetto involontariamente demistificante, richiamando un orizzonte di tempo dotato di senso. Viceversa il termine patto non solo è meno impegnativo da questo punto di vista, ma è più simpatico perché questa parola è già presente nel linguaggio scolastico, richiama una dimensione contrattuale, libera e paritaria, e non ricorda invece qualcosa di riconducibile a scelte politiche.

Un altro elemento di grande interesse è che la possibilità per le scuole di scegliere i propri docenti non sulla base delle graduatorie venga definita “la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”. Si tratta di una metafora sportiva, che ha già conosciuto nel nostro paese e non solo in esso un grande successo, anche se finora era stata usata perlopiù per le competizioni elettorali o le trattative politiche. Questa metafora chiarisce che l’istruzione è una competizione e quindi bisogna vincerla. Pertanto tutti coloro che sono della partita sono tenuti a comportamenti esemplarmente agonistici perché va da sé che una squadra vince solo se è compatta e determinata (e naturalmente manda in panchina chi gioca male). La metafora sportiva non è qui un’ingenuità o una superfetazione retorica, ma ribadisce l’unica dimensione pedagogica significativa per le classi dirigenti del neoliberismo: quella dell’educazione alla competitività. Siccome l’homo economicus avido, libero e intraprendente non è una specie così diffusa in natura, ecco che tocca all’istruzione produrlo creando un ambiente naturalmente competitivo.

Naturalmente nel documento sono presenti obiettivi educativi relativi all’inclusione e non mancano citazioni di Montessori o don Milani, nel giusto spirito ecumenico che ci ricorda che siamo tutti, da Che Guevara a Madre Teresa, parte della famiglia umana e così via. Il documento però resta una testimonianza paradigmatica dell’ideologia neoliberista, ma sarebbe sbagliato vedere in ciò un salto di qualità renziano. Al contrario nella scuola il grande rottamatore è semplicemente il grande prosecutore delle politiche dei governi di centrodestra e centrosinistra che lo hanno preceduto.

Alfabeta2, 13/10/14

 

Non ti meriti proprio niente!

Giuseppe Caliceti

Leggi il docu­mento on line La Buona Scuola e pensi subito: cosa c’è di meglio in Ita­lia di un governo di cen­tro­si­ni­stra per por­tare a ter­mine una poli­tica sco­la­stica di destra? Siamo infatti di fronte alla Scuola del Merito. Ti accorgi che Renzi intende rea­liz­zare prov­ve­di­menti già intro­dotti dai luo­go­te­nenti ber­lu­sco­niani e rima­sti a metà. Esem­pio: Decreto legi­sla­tivo 27 otto­bre 2009, n.150, detto Legge Bru­netta anti fan­nul­loni: Art.19 comma 2) «…a) il 25 per cento è col­lo­cato nella fascia di merito alta… b) il 50 per cento in quella inter­me­dia… c) il restante 25 per cento è col­lo­cato nella fascia di merito bassa alla quale NON cor­ri­sponde l’attribuzione di alcun trat­ta­mento acces­so­rio col­le­gato alla per­for­mance indi­vi­duale». La Buona Scuola: da qui fino al 2019 solo il 66% dei docenti meri­te­voli avrà qual­che euro in più e il 33% di imme­ri­te­voli resterà al palo. Ecco, que­sta è la meri­to­cra­zia di cui si parla: un modo per pena­liz­zare ulte­rior­mente un terzo dei docenti ita­liani. Già i meno pagati in Europa. Il ricatto è lo stesso che si fa a tanti gio­vani di oggi: o così, o niente.
Fan­ta­scienza? No. Se si pensa che in Emi­lia Roma­gna, e in altre regioni «vir­tuose», i docenti di soste­gno sta­tali ai bam­bini disa­bili sono ormai sosti­tuiti per più della metà delle ore da edu­ca­tori di coo­pe­ra­tive sociali a 5 euro nette all’ora, meno di una baby­sit­ter, è chiaro che per lo Stato ita­liano un docente pagato la mise­ria di 15 euro l’ora è già troppo. L’ideologia meri­to­cra­tica è il con­tra­rio esatto dello slo­gan «Noi siamo il 99%» del movi­mento Occupy Wall Street. Siamo all’Uno-Su-Mille-Ce-La-Fa. O un milione: che non ce la fanno. Non ce la devono fare. Per­ché è giu­sto così. È natu­rale così. Devono risul­tare, agli occhi di tutti e, soprat­tutto, di se stessi, per­sone inde­gne.
L’ideologia meri­to­cra­tica iniet­tata a partire dai sei anni di età ai bam­bini nella scuola pub­blica è il modo più effi­cace per fasci­stiz­zare demo­cra­ti­ca­mente la nostra società. E ras­si­cu­rare le élite eco­no­mi­che e poli­ti­che. Come? Pro­prio con l’inganno del merito. Insce­nando una gara del merito alla pari tra tutti i cit­ta­dini, sor­vo­lando sul fatto che alla grande mag­gio­ranza di loro non sono garan­tite pari oppor­tu­nità e diritti, per­ché par­tono for­te­mente svan­tag­giati. Sono per­denti già prima che l’ipotetica gara inizi. Sono a priori imme­ri­te­voli. Siamo di fronte a un’ideologia tota­li­ta­ria e raz­zi­sta. Siamo alla col­pe­vo­liz­za­zione dei più poveri e dei più biso­gnosi. La scuola del merito non è più la scuola di cui si parla nella Costi­tu­zione.

Tanti oggi sono a favore del merito: lo riten­gono il con­tra­rio del clien­te­li­smo. In realtà il merito è l’idea più rapida e pri­mi­tiva per con­fluire verso poli­ti­che anti­de­mo­cra­ti­che. Ma il segre­ta­rio del Pd, all’ultima Festa dell’Unità di Bolo­gna, ha sdo­ga­nato il merito anche a Sini­stra. Par­lando di scuola. D’altra parte, già nel 2012 il ret­tore pid­dino dell’università di Bolo­gna dichia­rava: «La meri­to­cra­zia deve far rima con demo­cra­zia». Cer­ta­mente, nell’insistente invo­ca­zione al merito e nell’attacco all’uguaglianza dei diritti di que­sti anni, è nasco­sto il males­sere verso tante dif­fi­coltà e debo­lezze delle nostre demo­cra­zie. Ma par­lando di merito già nella scuola dell’obbligo, esse non si com­bat­tono, ma si accen­tuano. Fun­zione pri­ma­ria del merito è, infatti, ste­ri­liz­zare ogni tipo di natu­rale invi­dia e rivin­cita sociale – il poeta Edoardo San­gui­neti lo avrebbe chia­mato odio di classe – che da sem­pre anima ognuno di noi quando ambi­sce legit­ti­ma­mente a miglio­rare la pro­pria con­di­zione sociale. Qual è dun­que la reale fun­zione di chi stra­parla di merito? Magari per­ché, anche a sini­stra, ritiene la parola «ugua­glianza» poco di moda e datata? Giu­sti­ficare i pri­vi­legi di alcune per­sone su altre, sosti­tuen­dosi ai vec­chi cri­teri che in pas­sato erano basati prin­ci­pal­mente su ere­dità, cor­ru­zione, nepotismo.

il manifesto, 11/10/14

 

La scuola tedesca

Il metodo scolastico tedesco viene sempre sbandierato da Renzi come il migliore, l’unico da importare in Italia. Ma funziona davvero?

Jacopo Rosatelli

L’opinione domi­nante è sem­pre la stessa: la Ger­ma­nia è un modello da imi­tare. In tutto, e quindi anche nel sistema edu­ca­tivo: ci dovrà pur essere un nesso tra le buone per­for­mance eco­no­mi­che e la bra­vura dei suoi sco­lari, o no? A pen­sare così è sicu­ra­mente il nostro pre­mier Mat­teo Renzi, che non si lascia sfug­gire occa­sione per dichia­rarsi esti­ma­tore dell’’istruzione made in Ger­many. Il lea­der del Pd apprezza, in par­ti­co­lare, quell’alternanza scuola-lavoro gra­zie alla quale i ragaz­zini tede­schi pos­sono svol­gere l’ultimo trien­nio di obbligo for­ma­tivo divisi fra un isti­tuto pro­fes­sio­nale e un’impresa: qui sta­rebbe uno dei segreti del suc­cesso della loco­mo­tiva d’Europa.

Tutto può essere. E in Ger­ma­nia nes­suno – nem­meno a sini­stra – mette in discus­sione que­sto genere di per­corso edu­ca­tivo, che si affianca a quello liceale e a quello tecnico-professionale puramente sco­la­stico. Forze poli­ti­che pro­gres­si­ste e sin­da­cati si con­cen­trano sem­mai nel chie­dere che i gio­vani pos­sano poi dav­vero restare a lavo­rare nelle aziende dove sono stati for­mati, men­tre ora accade sol­tanto in una mino­ranza di casi. Non solo: qual­cuno (ad esem­pio la Linke prin­ci­pale partito di oppo­si­zione) chiede che il com­penso che per­ce­pi­scono gli «studenti-lavoratori» corrisponda a un vero e pro­prio sala­rio con il quale potersi man­te­nere. Oggi, invece, capita che un appren­di­sta par­ruc­chiere in un Land orien­tale gua­da­gni la mise­ria di 206 euro al mese.

Avanti con le «riforme», dun­que, e impor­tiamo in Ita­lia senza indu­gio insieme alle auto e agli elettrou­ten­sili di altis­sima pre­ci­sione anche il sistema sco­la­stico teu­to­nico? Prima di farlo, occorre essere con­sa­pe­voli che il «modello di suc­cesso» si regge su una filo­so­fia ben pre­cisa: la sele­zione pre­coce dei bam­bini. Fra quelli «desti­nati» a lumi­nose car­riere da classe diri­gente, e quelli che invece tro­ve­ranno il loro posto come lavo­ra­tori manuali in posi­zione di subor­di­na­zione. Fra chi «deve» andare all’università e chi è meglio che entri in fab­brica (o in un can­tiere o nego­zio…) il più pre­sto pos­si­bile. L’età in cui avviene la scelta deci­siva? Dieci anni. Quando cioè si con­clude il primo ciclo sco­la­stico, quello della Grund­schule, l’unico uguale per tutti. Quello è il momento in cui i bam­bini ven­gono indi­riz­zati verso «un’istruzione gene­rale basi­lare» oppure «un’istruzione generale accre­sciuta» oppure «un’istruzione gene­rale appro­fon­dita». Cia­scun livello cor­ri­sponde a una tipo­lo­gia di scuola: Haup­tschule, Real­schuleGym­na­sium. Nei primi due anni del secondo ciclo, ai «migliori» è con­sen­tito il pas­sag­gio da un livello all’altro: quindi, dopo i dodici anni rien ne va plus.

Nono­stante il trien­nio supe­riore di alter­nanza scuola-lavoro sia con­di­viso in modo gene­ra­liz­zato, esi­stono voci cri­ti­che su ciò che viene prima. Le varie forze di sini­stra, com­presa quella piut­to­sto annac­quata dei social­de­mo­cra­tici, sono con­cordi nel soste­nere un modello di scuola uni­ta­ria, o comun­que un po’ meno clas­si­sta. E in qual­che Land accade, per for­tuna, che ai ragazzi siano offerti per­corsi che li por­tano a sepa­rarsi fra di loro più tardi, cioè al decimo anno sco­la­stico: una pos­si­bi­lità con­cessa dal fatto che nella Repub­blica fede­rale l’ordinamento sco­la­stico è una competenza esclu­siva delle sin­gole regioni (o stati fede­rati, che dir si voglia). La prima «scuola media uni fi­cata (Gesam­tschule)» nac­que – e non a caso – nella rivol­tosa Ber­lino ovest nell’anno di gra­zia 1968. Al di là del Muro, nella Ger­ma­nia real­so­cia­li­sta, la scuola uni­ta­ria era la regola ovun­que.

Una larga messe di studi mostra che le con­di­zioni di par­tenza dise­guali non ven­gono supe­rate: solo una pic­cola mino­ranza di chi fre­quenta il Gym­na­sium, cioè la scuola dei «migliori», pro­viene dalle fami­glie dei ceti più popo­lari. E se si tratta di migranti, i numeri si fanno ancora più impie­tosi: non aiuta, ovvia­mente, il fatto che negli ultimi anni si siano create scuole-ghetto dove i geni­tori tede­schi non iscri­vono più i loro figli. L’esempio forse più noto è quello della Rütli-Schule del quartiere Neu­kölln a Ber­lino, dove il 90% degli alunni è di ori­gine non-tedesca: alcuni anni fa gua­da­gnò la ribalta della cro­naca per nume­rosi epi­sodi di vio­lenza e degrado, ora è oggetto dell’attenzione delle isti­tu­zioni con mol­tis­simi pro­getti di soste­gno all’integrazione e al suc­cesso sco­la­stico.
Prima di impor­tare il sistema della Ger­ma­nia, quindi, biso­gne­rebbe pen­sarci. E se pro­prio si vuole si potrebbe comin­ciare però dal dif­fuso stile edu­ca­tivo anti­au­to­ri­ta­rio, e dalle mate­rie che da noi sono com­ple­ta­mente dimen­ti­cate o quasi. L’educazione ses­suale, ad esem­pio: pre­vi­sta dalle leggi di molti Län­der con la fina­lità di «deter­mi­nare la pro­pria vita in libertà e respon­sa­bi­lità», «pre­pa­rare gli stu­denti a rap­porti pari­tari con il/la part­ner» e svi­lup­pare «il con­senso verso l’esistenza di differenti orien­ta­menti ses­suali» (qui citiamo dalla nor­ma­tiva del Nord-Reno Vest­fa­lia).

E l’educazione civica, impor­tan­tis­sima. Agli stu­denti sono inse­gnati i valori della demo­cra­zia nata dalla scon­fitta del nazi­smo, ma senza che ciò si tra­duca in pre­di­che ina­scol­ta­bili impar­tite ex cathedra: al cen­tro della disci­plina c’è lo svi­luppo di uno spi­rito cri­tico orien­tato a cimen­tarsi con i pro­blemi e le con­tro­ver­sie del pre­sente. Impa­rando, nei limiti del pos­si­bile, anche il valore del con­flitto. E il diritto alla resi­stenza con­tro il potere ingiu­sto, rico­no­sciuto in Ger­ma­nia per­sino dalla Costituzione.

il manifesto, 11/10/14

 

La scuola inglese

Metodo scolastico inglese: dalla Thatcher ai laburisti fino ai tory, come ti distruggo il welfare e consegno gli studenti al privato

Leonardo Clausi

Una delle caratteristiche salienti dell’assetto sco­la­stico bri­tan­nico dal secondo dopo­guerra è la con­dotta quasi del tutto bipar­ti­san tenuta nei suoi con­fronti da Tories e Labour. Una quasi unanimità, sca­tu­rita ini­zial­mente dal con­senso for­di­sta basato sul wel­fare, che è pas­sata indenne attra­verso l’era that­che­riana e la pri­va­tiz­za­zione — quando non il com­pleto sman­tel­la­mento — dello stato sociale che vi ebbero luogo.

Ben­ché con­sa­crata anima e corpo a quell’ideologia neo­li­be­ri­sta il cui pre­sup­po­sto fon­dante è la netta revoca del ruolo stato e del set­tore pubblico in gene­rale dalla vita dei cit­ta­dini, Mar­ga­ret Thatcher, che dal 1970 al 1974 rico­prì la carica di Secre­tary of State for Edu­ca­tion (gros­so­modo equi­va­lente al nostro mini­stero della pub­blica istru­zione), sovrin­tese alla crea­zione del mag­gior numero di com­pre­hen­sive schools (scuole medie supe­riori) di qual­siasi altro col­lega nella stessa carica prima o dopo di lei. Sem­pli­ce­mente per­ché sarebbe stato troppo com­plesso e costoso invertire il pro­cesso, ini­ziato sotto i labu­ri­sti.

Le com­pre­hen­sive sono scuole supe­riori sta­tali intro­dotte nel 1965 in Inghil­terra e in Gal­les che non pon­gono limiti qua­li­ta­tivi ai requi­siti dello stu­dente per garan­tir­gli l’accesso, e tan­to­meno discrimi­nano in base al censo: sono fre­quen­tate dal 90 per­cento degli stu­denti bri­tan­nici. Si distinguono dalle assai più spa­rute – ne restano 164 — gram­mar schools, per acce­dere alle quali è neces­sa­rio un test d’ammissione e che sono retag­gio del nem­meno troppo car­sico dna clas­si­sta del paese.

Ma se, da edu­ca­tion secre­tary, That­cher si era dovuta pie­gare alle siner­gie pre­di­cate nel dopoguerra, una volta dive­nuta primo mini­stro avrebbe coscien­zio­sa­mente ripu­diato tale approccio, da lei con­si­de­rato un nefa­sto fat­tore egua­li­ta­rio abbrac­ciato dai labu­ri­sti nella pub­blica istru­zione non meno che negli altri ser­vizi civili e sociali, non­ché un relitto dell’economia mista di stampo key­ne­siano.

L’agenda di That­cher, una volta pre­mier – mutare il con­senso for­di­sta basato su eco­no­mia reale e wel­fare in quello post­for­di­sta, gra­zie al bino­mio tagli al welfare/deregulation finan­zia­ria – è filtrata pres­so­ché indenne nella lezione blai­riana fatta pro­pria dalla social­de­mo­cra­zia euro­pea (la stessa che con vent’anni di ritardo Renzi sta «otti­mi­sti­ca­mente» cac­ciando giù per la strozza agli ita­liani).

In cosa con­si­sté un simile scon­vol­gi­mento della pub­blica istru­zione? In una mano­vra di gra­duale pri­va­tiz­za­zione natu­ral­mente, tutt’altro che osteg­giata nel suc­ces­sivo pre­mie­rato di Blair. La facoltà di fare e disfare trama e ordito dello stato da parte della mag­gio­ranza di governo di turno in Gran Bre­ta­gna è data, natu­ral­mente, dall’assenza di costi­tu­zione scritta. Il potere cen­trale si era fino allora affi­dato alla delo­ca­liz­za­zione spe­cia­li­stica della com­pe­tenza, lasciando cioè agli addetti ai lavori – inse­gnanti, sin­da­cati d’insegnanti, pro­fes­sori, fun­zio­nari sco­la­stici — il com­pito di tenere la barra dell’istruzione nazio­nale, fidando nelle loro capa­cità di pren­dere le giu­ste deci­sioni per il bene degli stu­denti e delle fami­glie, limi­tan­dosi a finan­ziarne le ini­zia­tive.

Ma con la crisi eco­no­mica della fine degli anni Set­tanta, la con­trof­fen­siva neo­li­be­ri­sta capi­ta­nata da That­cher prese di mira soprat­tutto la cul­tura poli­tica di que­sti stessi addetti ai lavori. Rei di essere troppo con­ta­mi­nati da per­mis­sive ideo­lo­gie socia­li­ste, ses­san­tot­tine e liber­ta­rie, corpo docente e fun­zio­nari sco­la­stici furono addi­tati a con­causa della dis­so­lu­zione della fami­glia nucleare, vec­chio bastione ideo­lo­gico dei con­ser­va­tori della cui difesa ad oltranza l’allora Primo Mini­stro aveva fatto il capo­saldo della pro­pria poli­tica.

Arri­vata dun­que al potere nel 1979, mossa dall’astio ideo­lo­gico nei con­fronti di quella che considerava una con­ven­ti­cola di hip­pies, That­cher comin­ciò la rifon­da­zione siste­ma­tica dell’assetto della pub­blica istru­zione nazio­nale, rima­sta finora rela­ti­va­mente immu­tata dagli anni Trenta. Con Ken­neth Baker, suo edu­ca­tion secre­tary dal 1986 all’89, pro­mul­ga­rono lo spar­tiac­que dell’Education Reform Act del 1988, i cui prin­cipi a tutt’oggi sovrin­ten­dono la strut­tura della pubblica istru­zione nazio­nale.

Le scuole pri­ma­rie e secon­da­rie sono gestite secondo i prin­cipi dell’«open enrol­ment» (iscri­zione aperta) e del «local mana­ge­ment». In base ad essi, le scuole medie e supe­riori devono iscri­vere tutti i bam­bini i cui geni­tori fac­ciano richie­sta, per poi rice­vere auto­ma­ti­ca­mente i fondi neces­sari all’educazione dello sco­laro e del cui uso ha piena discre­zione. Que­sto signi­fica creare un’ibridazione fra società e mer­cato in cui la scuola diventa un’azienda come un’altra, il cui successo dipende dalla qua­lità e desi­de­ra­bi­lità dei pro­dotti, nella fat­ti­spe­cie i buoni risul­tati degli stu­denti agli esami, a loro volta forieri di abbon­dante clien­tela (iscri­zioni) e quindi di sov­ven­zioni sta­tali.
La qua­lità della scuola è moni­to­rata rego­lar­mente da un’agenzia di con­trollo, Ofsted, le cui ispezioni sono temu­tis­sime dagli staff degli isti­tuti in dif­fi­coltà. Chi fa bene si merita un bol­lino di qua­lità come una bot­ti­glia di rosso doc, nella fat­ti­spe­cie uno stri­scione colo­rato appeso all’ingresso della scuola. Le scuole che invece otten­gono scarsi risul­tati sono addi­tate al pub­blico ludi­brio, oltre a rice­vere san­zioni disci­pli­nari e a per­dere iscritti. Una logica di sod­di­sfatti o rim­bor­sati, in cui le famiglie/clienti sono supremo giu­dice del ren­di­mento della scuola è suc­ce­duta al sistema precedente, dove erano le isti­tu­zioni locali a decre­tare chi andava in quale scuola ed ero­gava i fondi. Così, il set­tore pri­vato con­ti­nua a ingo­iare vaste fette della suc­cu­lenta torta dell’istruzione.

Una ten­denza che il recente mini­stro Tory Michael Gove, noto altresì per la stretta auto­ri­ta­ria che ha voluto impri­mere a livello disci­pli­nare (non che non vi siano grossi pro­blemi in que­sto senso, come prova il recente omi­ci­dio dell’insegnante di spa­gnolo Ann Maguire in una scuola di Leeds da parte di un alunno sedi­cenne) ha raf­for­zato con la recente isti­tu­zione delle free school e la conferma delle aca­demy: le prime sono scuole del tutto auto­nome, create dai geni­tori degli alunni secondo le pro­prie con­vin­zioni cul­tu­rali e reli­giose, sono sov­ven­zio­nate dalle auto­rità locali e non dallo stato, e non devono seguire il natio­nal cur­ri­cu­lum (l’insieme sta­bi­lito per legge delle mate­rie inse­gnate). Le seconde erano state isti­tuite già dai labu­ri­sti per risol­le­vare scuole in aree socialmente depresse gra­zie all’attrazione di spon­sor pri­vati (gruppi reli­giosi, isti­tuti di beneficienza, altre scuole pri­vate).

Le free schools di Gove, che ha pro­se­guito nella tra­di­zione di attac­care inde­fes­sa­mente la cul­tura poli­tica degli edu­ca­tori, sono già più della metà delle scuole secon­da­rie nazio­nali. Molte stanno dando prova di aver peg­gio­rato il livello dell’insegnamento e del ren­di­mento degli alunni, anzi­ché ele­varlo. L’assetto isti­tu­zio­nale del paese fa sì che le riforme non pos­sano dimo­strarsi riu­scite che in corso d’opera. E se fal­li­scono è troppo tardi, il danno è subito. Non che un simile rischio dissuada il Labour qua­lora vinca le pros­sime ele­zioni: l’attuale mini­stro ombra della pub­blica istruzione, Tri­stram Hunt, non intende disfare quanto fatto dal pre­de­ces­sore ma solo intro­durre dei cor­ret­tivi, sem­pre nel segno della logica bipar­ti­san di cui sopra. Sia il cen­tro­de­stra che il centrosinistra abbrac­ciano lo stesso fetic­cio meri­to­cra­tico sban­die­rato ormai osses­si­va­mente anche in Italia.

il manifesto, 11/10/14

 

La scuola in Francia

Malgrado la crisi, in Francia il budget per la scuola resta il principale capitolo di spesa pubblica. Eppure le aule fanno i conti con le discriminazioni e la tendenza in crescita dell’abbandono degli studi

Anna Maria Merlo

In Fran­cia ci sono 66 milioni di spe­cia­li­sti della scuola, tanti quanto gli abi­tanti del paese. Essendo uno dei paesi euro­pei che fanno più figli, tutti hanno in un modo o nell’altro a che fare con la scuola. Intanto, c’è il peso della sto­ria: è la scuola pub­blica, laica, repub­bli­cana e gra­tuita (in Francia anche i libri sono gra­tis fino alla fine del liceo) che ha costruito la Fran­cia, il mae­strodella terza repub­blica, hus­sard de la Répu­bli­que delle leggi di Jules Ferry, è una figura che per­mane nella mito­lo­gia nazio­nale. Ancora oggi, mal­grado la crisi, il bud­get per la scuola resta il prin­ci­pale capi­tolo di spesa pub­blica (e nella finan­zia­ria 2015, piena di tagli, sarà in aumento del 2,4%).

Questo inve­sti­mento, anche sen­ti­men­tale, nella scuola pub­blica rende tanto più fru­stranti i confronti inter­na­zio­nali. I fran­cesi aspet­tano con ansia ogni anno i risul­tati dell’inchiesta Pisa dell’Ocse e si ram­ma­ri­cano per i medio­cri risul­tati. Secondo il rap­porto Pisa del 2012, la scuola fran­cese sarebbe il sistema che raf­forza di più le ine­gua­glianze sociali di par­tenza. 150mila gio­vani ogni anno escono dal per­corso sco­la­stico senza aver otte­nuto nes­sun diploma, anche se l’obiettivo di avere l’80% di una gene­ra­zione con il Bac (il diploma di fine studi secon­dari) sta per essere raggiunto (77,3% nel 2014). Degli stu­diosi della scuola, molto nume­rosi in Fran­cia, defi­ni­scono «ipo­cri­sia nazio­nale» la visione che per­si­ste nel paese rispetto alla scuola, con­si­de­rata sulla carta una strut­tura di egua­glianza, che darebbe a tutti eguali pos­si­bi­lità. Secondo uno stu­dio del think tank Terra Nova, a 4 anni un bam­bino di fami­glia povera avrebbe ascol­tato 30 milioni di parole in meno di un suo coe­ta­neo di fami­glia agiata. E la scuola non rie­sce più a col­mare que­sto gap. Nella nar­ra­zione nazio­nale, la scuola deve restare un «san­tua­rio», ma ormai è da tempo che i muri crollano e che gli scos­soni della società entrano in pieno nelle aule. Di qui la cre­scita di scuoleghetto, con­cen­trate nei quar­tieri in dif­fi­coltà. E degli effetti di que­sto feno­meno: la scuola che nel pas­sato per­met­teva di pren­dere l’ascensore sociale per le classi popo­lari, ora porta all’università un terzo di figli di qua­dri supe­riori e di pro­fes­sioni libe­rali (che nella società sono il 15% della popo­la­zione), per­cen­tuale che sale a più del 50% nelle Grandi scuole, con entrata per con­corso selet­tivo. In que­ste Grandi scuole (in par­ti­co­lare scuole di inge­gne­ria o eco­no­mia), c’è solo il 6% di figli di ope­rai e impie­gati.

Di qui il dif­fon­dersi di una vera e pro­pria nevrosi nelle fami­glie e la grande dif­fi­coltà che hanno i governi suc­ces­sivi a fare delle riforme. Il per­corso sco­la­stico è pres­so­ché pre­de­ter­mi­nato. I corsi ini­ziano all’asilo (che non è obbli­ga­to­rio, ma sem­pre più fre­quen­tato dai 2 anni e mezzo), con un ciclo che si con­clude con la prima ele­men­tare (Cp) dopo tre anni di materna. La scuola pri­ma­ria con­serva ancora un po’ di libertà, anche sociale, nel senso che la stra­te­gia sco­la­stica delle classi medio alte si mette all’opera a partire dal col­lège (4 anni di media) e per­mette ancora alle ele­mentari classi miste social­mente e per l’origine etnica. Il col­lège, con­si­de­rato l’anello debole del sistema, sca­tena già la cac­cia alla buona scuola da parte delle fami­glie che (soprat­tutto a Parigi) inven­tano di tutto per mostrare di avere la resi­denza nelle zone dove si sono quelli migliori (le iscrizioni avven­gono per quar­tiere, ma si può cam­biare zona gio­cando sulle «opzioni»). La scelta del liceo dipende dai pro­fes­sori del col­lège e da un sistema infor­ma­tiz­zato che a Parigi soprat­tutto fun­ziona come la Borsa valori: biso­gna avere un certo livello di voti per poter spe­rare di iscri­versi in un buon liceo, ma <CW-8>il livello dipende dal numero delle domande. Stesso sistema per l’indirizzo, dopo un primo anno di seconde géné­rale (a meno di non essere già stati indi­riz­zati verso le scuole pro­fes­sio­nali). Il Bac S (scien­ti­fico) è il più ricer­cato, per­ché apre tutte le porte: la scuola fran­cese pro­muove sulla mate­ma­tica. Poi, l’accesso alle classi pre­pa­ra­to­rie per i con­corsi alle Grandi scuole dipende dai voti men­tre l’iscrizione all’università, sulla carta in gran parte libera, lascia adito a molte inco­gnite: per le uni­ver­sità più ricer­cate, i sin­da­cati degli stu­denti denun­ciano una sele­zione nasco­sta (attra­verso il risul­tato del Bac). Sta di fatto che la sele­zione avviene per entrare al secondo anno, sulla base dei voti: l’abbandono al primo anno di licenza è enorme, solo 4 stu­denti su dieci pas­sano al secondo anno, il 26% ripete e il 32% lascia per sem­pre.

In que­sto clima, è molto dif­fi­cile pro­porre delle riforme. La scuola fran­cese boc­cia molto, anche se tutte le ricer­che inter­na­zio­nali affer­mano che ripe­tere serve a poco (il 67% degli alunni entrati in sixième – prima media — nell’89 ave­vano ripe­tuto o ripe­terà almeno un anno prima della fine della scuola secon­da­ria, ora la per­cen­tuale è un po’ dimi­nuita). Ogni anno infu­riano le pole­mi­che sul degrado delle docenze, che secondo i detrat­tori non tra­smet­te­rebbe più gli inse­gna­menti fondamen­tali: eppure, su 864 ore annuali di corsi alle ele­men­tari, 360 sono dedi­cate al fran­cese e 180 alla mate­ma­tica. La legge ora sta­bi­li­sce che ripe­tere l’anno deve diven­tare un «ultimo ricorso», ma nella pra­tica inse­gnanti e fami­glie sono reti­centi ad evi­tare le boc­cia­ture. Cam­biare i pro­grammi sol­leva pole­mi­che a non finire. L’ultima bat­ta­glia è in corso alle ele­men­tari, attorno alla pro­po­sta del mini­stero dell’Educazione nazio­nale di dedi­care qual­che ora all’abc dell’eguaglianza, per scon­fig­gere gli ste­reo­tipi di genere. La destra ha orga­niz­zato mani­fe­sta­zioni con­tro una supposta «teo­ria di genere», accu­sando la scuola di per­ver­tire l’ordine natu­rale. Altro sco­glio: la modi­fica dei «ritmi sco­la­stici» alla materna e alle ele­men­tari, per evi­tare le gior­nate di corsi dalle 8,30 alle 16,30, facendo fre­quen­tare le aule anche il mer­co­ledì mat­tina, giorno tra­di­zio­nal­mente libero. I comuni dovreb­bero pro­porre delle atti­vità com­ple­men­tari dopo le 15,30, alleg­ge­rendo le gior­nate di corso. Ma inse­gnanti, fami­glie (e per­sino medici) affer­mano che andare a scuola 4 giorni e mezzo «stanca» i bambini.

il manifesto. 11/10/14

 

La scuola negli U.S.A.

Alla cronica penuria dei fondi pubblici e alle sconfortanti classifiche degli studenti, le famiglie Usa hanno reagito con l’autogestione e con istituti ad hoc. Risultato, esodi di massa e classi-ghetto

Luca Celada

Il mese scorso ha susci­tato un certo scal­pore la noti­zia che, come parte del pro­gramma di smobilita­zione del Pen­ta­gono, il distretto sco­la­stico di Los Ange­les avesse rice­vuto in dota­zione 60 fucili d’assalto mili­tari M16, 3 lan­cia­razzi ed un vei­colo anfi­bio anti-mina da poco rien­trati dall’Iraq.

Un eccesso di zelo anche per un sistema — quello sco­la­stico ame­ri­cano col vizio di con­fon­dere un po’ troppo spesso la pub­blica istru­zione con un pro­blema di ordine pub­blico. Il distretto di Los Ange­les, secondo solo a quello di New York per gran­dezza, man­tiene una forza di poli­zia autonoma di 350 agenti armati e 126 guar­die giu­rate che pat­tu­gliano le scuole col potere di arrestare assenti ingiu­sti­fi­cati o ragazzi che fumano uno spi­nello. E dire che la disci­plina non sarebbe il pro­blema prin­ci­pale di un sistema assil­lato da mille dif­fi­coltà, che piazza rego­lar­mente i pro­pri stu­denti in delu­denti posi­zioni nelle clas­si­fi­che atti­tu­di­nali inter­na­zio­nali (gli ultimi dati danno i ragazzi ame­ri­cani tren­tu­ne­simi in mate­ma­tica e ven­tu­ne­simi nel mondo in scienze e let­tere).

Incre­di­bil­mente inol­tre solo il 70% degli iscritti fini­sce le scuole secon­da­rie, un tasso straor­di­na­rio visto che quasi terzo addi­rit­tura dei ragazzi non fini­sce la scuola dell’obbligo.

Oltre alla cro­nica penu­ria di fondi pub­blici, sem­pre insuf­fi­cienti, i pro­blemi della scuola ame­ri­cana in gene­rale deri­vano in gran parte alle dise­gua­glianze ine­renti ad una società mul­tiet­nica e multiraz­ziale carat­te­riz­zata da forti scom­pensi sociali. In Usa, l’istruzione pub­blica fa capo ad ammi­ni­stra­zioni muni­ci­pali o pro­vin­ciali ope­ranti nell’ambito delle linee guida di mas­sima sta­bi­lite dal mini­stero fede­rale. Così un prov­ve­di­to­rato come quello di Los Ange­les si trova ad ammi­ni­strare 700mila stu­denti in un migliaio di scuole che riflet­tono la vasta diver­sità della città. All’interno dello stesso distretto esi­stono scuole dra­sti­ca­mente diverse: men­tre nel quar­tiere nero di South LA è nor­male tro­vare cam­pus asfal­tati e reti­co­lati con stu­den­te­sche inte­ra­mente più sor­ve­gliate che istruite, lo stesso distretto ammi­ni­stra isti­tuti in zone agiate in cui scuole modello dispon­gono di labo­ra­tori di robo­tica e orti bio­lo­gici. La dif­fe­renza la fanno di solito le asso­cia­zioni di geni­tori che hanno ampio spa­zio per intra­pren­dere ini­zia­tive e fund-raising per affiancare le ane­mi­che casse pub­bli­che.
La situa­zione è stata esa­cer­bata negli anni dalla fuga di fami­glie bian­che e più agiate verso un numero cre­scente di scuole pri­vate (dal costo medio di circa 10mila dol­lari l’anno), un esodo di massa che ha fatto si che oggi nelle scuole pub­bli­che di Los Ange­les il 70% degli stu­denti sono ispa­nici, il 15% neri, appena il 10% sono bian­chi e 5% circa asia­tici. Ovvero un sistema pub­blico popo­lato da stu­denti poveri, mol­tis­simi di recente immi­gra­zione fra cui sono rap­pre­sen­tati più di 30 ceppi lin­gui­stici. Dalle ele­men­tari alle secon­da­rie le scuole si tro­vano così ad affron­tare un immane opera di socia­liz­za­zione e inte­gra­zione di base, a par­tire dall’insegnamento dell’inglese.

I ten­ta­tivi di rime­diare ai macro­sco­pici «scom­pensi ana­gra­fici» risal­gono ai tempi della Great Society di Ken­nedy e John­son quando dopo il movi­mento per diritti civili, il governo fede­rale cercò di inte­grare scuole segre­gate, un impresa di mas­sic­cia «inge­gne­ria sociale» dagli intenti nobili quanto disa­strosi i risul­tati. Il cosid­detto «busing» incon­trò pre­ve­di­bil­mente la feroce oppo­si­zione dei «pri­vi­le­giati» ma in defi­ni­tiva anche quella degli «inte­grati» che veni­vano spe­diti a stu­diare lon­tano dai pro­pri quar­tieri. L’integrazione «pilo­tata» oggi è stata in gran parte abban­do­nata e chi è obbli­gato o sce­glie di rima­nere nella scuola pub­blica resta anche in balia di una buro­cra­zia sorda e ten­ta­co­lare, inca­pace di modi­fi­care schemi dan­nosi e inef­fi­caci.

L’effetto è stato di sti­mo­lare le solu­zioni «auto­ge­stite» non solo con le solite col­lette dei geni­tori per pulire gli edi­fici o com­prare i com­pu­ter, ma sotto forma del movi­mento delle Char­ter School un feno­meno che negli ultimi anni è let­te­ral­mente dila­gato, soprat­tutto in Cali­for­nia. La «char­ter» sono scuole a sta­tuto spe­ciale finan­ziate dal prov­ve­di­to­rato ma gestite in piena auto­no­mia. Chiun­que può pre­sen­tare un pro­getto per una scuola indi­cando even­tual­mente un indi­rizzo spe­ci­fico, a patto di garan­tire il pro­gramma di base. In 20 anni, le scuole char­ter in Cali­for­nia sono pas­sate da 31 a 1130. Alcune inse­gnano il pro­gramma tra­di­zio­nale, senza grandi varia­zioni, sfrut­tando la maggiore auto­no­mia ammi­ni­stra­tiva, altre modi­fi­cano ampia­mente i metodi di istru­zione, dall’insegnamento in spa­gnolo, coreano o armeno a metodi didat­tici stei­ne­riani; tutte sono finan­ziate pub­bli­ca­mente al 100% con numero chiuso e l’accesso rego­lato da un sistema di lot­te­ria.

Solo a Los Ange­les ne ope­rano attual­mente ben 269, spesso si tratta di scuole pic­cole, ospi­tate in isti­tuti riqua­li­fi­cati o in altri locali affit­tati per l’occasione, ex fab­bri­che o magaz­zini. Non sem­pre però: la più grande, la Gra­nada Hills Char­ter High School, ha 4000 iscritti, si tratta di una scuola pub­blica che ha deciso di «eman­ci­parsi» dal distretto in seguito al voto della mag­gio­ranza degli inse­gnanti che ora viene ammi­ni­strata diret­ta­mente dal pre­side.

Le char­ter hanno rac­colto circa il 10% della popo­la­zione stu­den­te­sca, com­presi molti che prima fre­quen­ta­vano isti­tuti pri­vati, come le scuole cat­to­li­che, otte­nendo risul­tati acca­de­mici net­ta­mente supe­riori alle pub­bli­che ordi­na­rie. Fra i fau­tori del sistema ci sono diversi mece­nati, soli­ta­mente di pro­ve­nienza impren­di­to­riale e spesso dall’industria digi­tale come Reed Hastings il fon­da­tore della azienda di video strea­ming Net­flix e Bill Gates che ha fatto della riforma delle scuole un impe­gno cen­trale della sua fon­da­zione. Gates ha anche finan­ziato la pro­du­zione di Wai­ting For Super­man, un bel docu­men­ta­rio di Davis Gug­ge­n­heim (Una sco­moda verità) su un gruppo di fami­glie che ten­tano la lot­te­ria per iscri­vere i pro­pri figli a ele­men­tari char­ter e sal­varsi dallo sfa­celo delle scuole dei quar­tieri fati­scenti in cui abi­tano. Pre­si­denti come Bill Clin­ton e Barack Obama hanno pub­bli­ca­mente soste­nuto le char­ter come alter­na­tive pos­si­bili e fun­zio­nanti rispetto al per­corso tra­di­zio­nale.
Allo stesso tempo, non sono man­cate le pole­mi­che, spe­cial­mente per il fatto che meno del 10% delle char­ter sono sin­da­ca­liz­zate e usano invece con­tratti fles­si­bili per impie­gare gli insegnanti.

il manifesto. 11/10/14

 

La scuola in Cina

L’esame in Cina determina la vita dei ragazzi. Secondo la votazione ottenuta si può continuare o meno con l’università. Alcuni studenti si suicidano, addirittura

Simone Pieranni

Il nostro sistema edu­ca­tivo si basa su un dato: l’umanità non ha talenti natu­rali, viene tutto dall’istruzione. Così, quando esci dalla scuola, ti viene spon­ta­neo accet­tare il fatto che l’umanità non abbia diritti e che tutti i diritti ti ven­gano dallo Stato. In molte nazioni l’istruzione non pre­vede temi sco­la­stici spe­ci­fici, ma non mi sem­bra di aver mai sen­tito che la gente di quei paesi non sappia met­tere insieme il les­sico stu­diato per scri­vere». Parola di Han Han, talento let­te­ra­rio, e non solo, cinese. La cri­tica dell’ex ragazzo pro­di­gio è con­tro il sistema edu­ca­tivo nazio­nale e in particolare la sua esi­genza mne­mo­nica, mec­ca­nica che non invita al ragio­na­mento. Il sistema educa­tivo di Pechino si basa su un momento che deter­mina la vita di ogni cinese, il gao­kao, l’esame di ammis­sione all’università simile al nostro esame di matu­rità. Il gao­kao si iscrive all’interno delle tradi­zioni cinesi: fu sospeso solo durante la Rivo­lu­zione cul­tu­rale (1966–1976) e poi ripreso nel 1977. Il record di stu­denti esa­mi­nati c’è stato nel 2008: 10, 5 milioni. Nel 2014, nel giu­gno scorso, sono stati 9 milioni, il 3 per cento in più rispetto al 2013. Il gao­kao è il momento più impor­tante nella vita dei cinesi: sulla base del risul­tato otte­nuto, gli stu­denti potranno acce­dere a uni­ver­sità pre­sti­giose, garan­ten­dosi un futuro. L’alternativa: uni­ver­sità più sca­denti o addi­rit­tura la neces­sità di com­ple­tare gli studi all’estero. L’esame di ammis­sione è un momento impor­tante a livello nazionale. Le fami­glie si inde­bi­tano per consentire ai pro­pri figli il giu­sto riposo in alber­ghi lussuosi, quando devono svol­gere l’esame lon­tano dal vil­lag­gio di appar­te­nenza. Le vie limi­trofe alle scuole diven­tano iper con­trol­late: non si pos­sono suo­nare i clac­son, tutto deve essere tranquillo ed aiu­tare alla con­cen­tra­zione gli stu­denti. Spesso alcuni dei ragazzi e delle ragazze, dopo un fal­li­mento all’esame si sui­ci­dano: la pres­sione è altis­sima e tutto ricade sulle loro spalle.

Ma il pro­blema, ormai per certi versi sdo­ga­nato, è nelle tec­ni­che di inse­gna­mento e di stu­dio. Se la Cina viene detto, vuole com­ple­tare quel ciclo che dovrà favo­rire l’innovazione, a sca­pito delle capa­cità – ottime – di replicare quanto già esi­ste, dovrà neces­sa­ria­mente cam­biare il sistema scola­stico. È que­sto cui si rife­ri­sce Han Han. «La Cina ha una popo­la­zione alta­mente alfabetizzata. Oggi ha il sistema in più rapida cre­scita — in qua­lità e quan­tità — di istru­zione superiore nel mondo. Que­sto è il motivo per cui molte delle  prin­ci­pali uni­ver­sità del mondo hanno isti­tuito cen­tri di ricerca e di inse­gna­mento in Cina». È l’opinione, con­se­gnata al New York Times, di Wil­liam Kirby, che insieme a War­ren McFar­lan e Regina M. Abrami, hanno scritto Can Cina Lead? Rea­ching the Limits of Power and Gro­wth, pro­prio sulle poten­zia­lità cinesi nel campo della ricerca e dell’educazione. La Tsin­ghua Uni­ver­sity e l’Università di Pechino sono ormai regolarmente clas­si­fi­cate tra le prime 50 isti­tu­zioni di tutto il mondo. «Se saranno edu­cati a creare e inno­vare, distin­guen­dosi dagli inse­gna­menti in vigore da ben prima del 1949 non vi è alcun limite al loro futuro», riba­di­sce Kirby. Nell’ambito dei tanti cam­bia­menti della Cina, anche il gao­kao sarà pre­su­mi­bil­mente sot­to­po­sto a modi­fi­che e riforme, pro­prio per andare incon­tro alle nuove esi­genze della Cina, ormai player glo­bale. Come sostiene Lan Fang, diret­tore della rivi­sta eco­no­mica Cai­xin, «Entro il 2020, la Cina dovrà defi­nire un modello d’esame per la sele­zione degli stu­denti basato su prove che riguar­dano sin­gole mate­rie, un esame mul­ti­di­sci­pli­nare e un sistema di ammis­sione diver­si­fi­cato. Si dovrà, inol­tre, sepa­rare in maniera più netta l’esame dalla sele­zione degli stu­denti; aumen­tare le alter­na­tive per gli stu­denti; garan­tire alle uni­ver­sità, pur nel rispetto delle leggi vigenti, una mag­giore discre­zio­na­lità per la sele­zione degli stu­denti; imple­men­tare l’organizzazione di strut­ture spe­cia­liz­zate, la gestione a livello macro da parte del governo e mec­ca­ni­smi di supervisione par­te­ci­pa­tiva da parte della società» (l’articolo com­pleto è su www​.carat​te​ri​ci​nesi​.china​-files​.com )

I cam­bia­menti nel modello d’esame, dopo la riforma, saranno enormi. Sarà, infatti, attri­buita mag­giore impor­tanza al cosid­detto «esame gene­rale» (hui­kao) per valu­tare le com­pe­tenze acqui­site nelle scuole medie e supe­riori; ci saranno meno mate­rie da por­tare al gao­kao. «In que­sto modo, con­clude Lan Fang, ogni stu­dente avrà più oppor­tu­nità di essere ammesso ad un corso universitario».

il manifesto, 11/10/14

 

La scuola a Cuba

Il sistema scolastico cubano è considerato uno dei migliori del mondo, per qualità e capillarità. Ma i suoi docenti soffrono per i salari troppo bassi e cresce la corruzione

Roberto Livi

Il sistema edu­ca­tivo cubano è il migliore dell’America latina e dei Caraibi e l’unico del subcontinente che può essere para­go­nato a quello dei paesi svi­lup­pati. È que­sto il giu­di­zio espresso dalla Banca mon­diale nel suo ultimo report (inti­to­lato Pro­fes­sori eccel­lenti) sull’insegnamento in Ame­rica latina e nel Caribe. L’istituzione guida del neo­li­be­ri­smo mon­diale afferma, infatti, che Cuba pos­siede un corpo inse­gnante di buona qua­lità che pre­senta para­me­tri ele­vati – in talento acca­de­mico, autonomia pro­fes­sio­nale, ren­di­mento — tali da poter essere messo sullo stesso piano di paesi all’avanguardia, dalla Fin­lan­dia, alla Corea del Sud, pas­sando per Sin­ga­pore, Cina e Sviz­zera.

Non è certo il primo né l’unico rico­no­sci­mento che la mag­giore delle isole caraibiche ottiene a livello inter­na­zio­nale ed è il frutto della scelta di base attuata dalla rivo­lu­zione castri­sta che fin dall’inizio, dal 1959, ha pun­tato su un sistema che per­metta l’accesso universale e gra­tuito alla salute e all’educazione, otte­nendo risul­tati straor­di­nari, sra­di­cando l’analfabetismo (il tasso di scola­riz­za­zione nella pri­ma­ria – le nostre ele­men­tari — è del 100% e alla secon­da­ria del 99,7%), men­tre il tasso di mor­ta­lità infan­tile è infe­riore a quello degli Usa. Per l’insegnamento Cuba stan­zia il 13% del bilan­cio nazio­nale: più del tri­plo di quanto fac­cia il governo Renzi.

In un’inchiesta dedi­cata al tema dell’insegnamento il quo­ti­diano della gio­ventù comu­ni­sta, Juventud Rebelde, scrive che «lo Stato cubano…si fa carico della strut­tu­ra­zione e del funzionamento di un sistema nazio­nale di edu­ca­zione… fon­dato su cin­que prin­cipi basici: 1) scuola di massa e basata sull’equità, dun­que l’educazione come diritto e dovere di tutti i cit­ta­dini (anche i vil­laggi sper­duti nella mon­ta­gna hanno una scuola); 2) stu­dio legato al lavoro, per un’integrazione dell’educazione con l’economia; 3) la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica di tutta la società nel com­pito dell’educazione del popolo; 4) coe­du­ca­zione e scuola aperta alla diver­sità, per garan­tire uguaglianza di accesso a tutti i gradi dell’istruzione senza discri­mi­na­zione di sesso, razza, religione e pro­ve­nienza sociale; 5) gra­tuità: agli stu­denti ven­gono for­niti gra­tis libri di testo e materiale edu­ca­tivo e, nelle pri­ma­rie e secon­da­rie, anche un capo della divisa – pan­ta­loni e cami­cia.

Per chi sce­glie il sistema a tempo pieno, la scuola prov­vede a un pasto quasi gra­tuito (nella primaria, la mensa costa circa 50 cen­te­simi di euro al mese — avete letto bene! — anche se, in gene­rale, è di bassa qua­lità). Insomma, lo Stato prende in carico tutti gli alunni dall’età di cin­que anni (pre­sco­lar) fino, per chi merita, all’università, in un sistema sco­la­stico gra­tuito che pre­tende di coniu­gare edu­ca­zione di massa e edu­ca­zione di qua­lità. Uno sforzo enorme se si pensa che Cuba vanta un mae­stro ogni 43 abi­tanti (la media nazio­nale è di 11,5 alunni per mae­stro nella pri­ma­ria e secon­da­ria e di 4,7 alunni per pro­fes­sore nelle supe­riori). Nell’isola, poi, esi­stono 162 isti­tuti di livello uni­ver­si­ta­rio (com­presa una famosa uni­ver­sità inter­na­zio­nale di medi­cina e una scuola interna­zio­nale di cinema).

Non male, per un pic­colo paese che gli Stati Uniti sot­to­pon­gono da più di cinquant’anni a un brutale blocco eco­no­mico che è costato a Cuba cen­ti­naia di milioni di dol­lari. Ma , pro­prio il sommarsi degli effetti del blo­queo e della  crisi cono­mica, più un gigan­te­sco buro­cra­ti­smo dovuto al con­trollo cen­tra­liz­zato di tutto il set­tore, hanno messo il sistema edu­ca­tivo, dalla fine del secolo scorso, in un con­ti­nuo stato di emer­genza: il defi­cit di pro­fes­sori, i bassi salari (meno di venti euro al mese), le dif­fi­cili con­di­zioni di lavoro e di stu­dio (man­canza di sup­porto tec­nico) e negli ultimi anni un serio pro­blema di cor­ru­zione (legato ai bassi salari) e una cre­scente insod­di­sfa­zione delle fami­glie hanno indotto il governo a varare una serie di riforme per miglio­rare e ren­dere più effi­cace il sistema di inse­gna­mento.

Le ultime misure sono state varate a par­tire dall’anno acca­de­mico in corso e pre­ve­dono l’incorporamento di 7000 nuovi mae­stri, gio­vani diplo­mati nelle scuole di peda­go­gia, per coprire i ruoli spe­cial­mente nelle scuole peri­fe­ri­che. Inol­tre le nuove misure – in linea con le riforme economi­che e sociali — pre­ve­dono la con­ces­sione agli isti­tuti di una mag­giore fles­si­bi­lità e autonomia nella scelta degli orari e delle mate­rie com­ple­men­tari di inse­gna­mento. Nella pri­ma­ria, ad esem­pio, si pos­sono con­cen­trare gli inse­gna­menti basici (spa­gnolo, mate­ma­tica, «il mondo in cui viviamo») nelle quat­tro ore di scuola del mat­tino, men­tre le due ore del pome­rig­gio sono riservate agli «spe­cia­li­sti», docenti d’arte e di musica, inglese e infor­ma­tica o pro­fes­sori di edu­cazione fisica (mio figlio fa ten­nis quat­tro pome­riggi la set­ti­mana, ndr).

Un cam­bio radi­cale è stato annun­ciato per gli esami di ingresso all’università (vi si accede, in gene­rale, dopo tre anni di scuola pre­u­ni­ver­si­ta­ria) a par­tire dallo scan­dalo scop­piato la scorsa estate per le mas­sicce frodi accer­tate, che hanno por­tato ad arre­sti e misure disci­pli­nari di professori che ven­de­vano le prove e infi­cia­vano una parte degli esami. Non vi saranno que­stio­nari segreti nelle tre mate­rie d’esame – spa­gnolo, mate­ma­tica, sto­ria — ma si comu­ni­che­ranno in anticipo cento domande e a ogni allievo ver­ranno rivolte cin­que domande scelte a caso per ciascuna materia.

il manifesto, 11/10/14

 

La scuola Ceca.

Nella Repubblica ceca, il sistema scolastico è fatto ad ostacoli e si intromettono anche gli industriali: difficile che chi provenga dagli istituti tecnici riesca poi ad andare all’università

Jakub Hornacek

A metà set­tem­bre si sono riu­niti, all’ombra dell’esposizione del Museo nazio­nale della tec­nica di Praga, i rap­pre­sen­tanti della poli­tica ceca con gli impren­di­tori. Al cen­tro della discus­sione, c’era il sistema duale dell’istruzione nelle scuole supe­riori.

Da alcuni anni, gli impren­di­tori cechi lamen­tano una cro­nica mancanza di forza lavoro tec­nica a livello di ope­rai qua­li­fi­cata. Secondo loro, i gio­vani cechi schi­vano gli indi­rizzi di stu­dio pre­senti negli isti­tuti tec­nici pre­fe­rendo i licei, che per­met­tono un accesso all’università. Una scelta di vita mal dige­rita dagli indu­striali, che non hanno apprez­zato la cre­scita del numero degli iscritti uni­ver­si­tari regi­strato a ini­zio del secolo, vista solo come una stra­te­gia adot­tata dagli stu­denti e dalle loro fami­glie per posti­ci­pare l’entrata sul mer­cato di lavoro. «È neces­sa­rio che la gio­vane gene­ra­zione impari a levarsi alle sette di mat­tina per andare a lavo­rare, altri­menti è finita», non si è trat­tie­nuto il pre­si­dente degli indu­striali Jaro­slav Hanak.

Per fer­mare la caduta degli isti­tuti tec­nici, la Camera di com­mer­cio ceca spinge dal 2010 per l’introduzione di un sistema duale di istru­zione secon­da­ria. Nelle richie­ste della prin­ci­pale asso­cia­zione impren­di­to­riale ceca c’è la par­te­ci­pa­zione degli impren­di­tori alla strut­tu­ra­zione dell’offerta di for­ma­zione dei sin­goli indi­rizzi degli isti­tuti tec­nici, la for­ma­zione pra­tica dei stu­denti nelle aziende, che dovreb­bero dotarsi con un con­tri­buto sta­tale di labo­ra­tori adatti alla for­ma­zione e una par­te­ci­pa­zione dell’imprenditoria locale alla dire­zione del sin­golo isti­tuto. In cam­bio di una for­ma­zione fatta su misura delle aziende, gli impren­di­tori dichia­rano la dispo­ni­bi­lità di assu­mere i stu­denti con voti oltre la media. Pec­cato che in pochi isti­tuti, dove il sistema duale fun­ziona, le pro­messe di assun­zione sono state man­te­nute solo per le primi due-tre classi, e poi, essendo state occu­pate le posi­zioni libere, le aziende non hanno assunto più.

«Vogliamo intro­durre il sistema duale di istru­zione, rivi­ta­liz­zando così gli isti­tuti tec­nici e facendo incon­trare la domanda e l’offerta sul mer­cato del lavoro», ha con­fer­mato il mini­stro social­de­mo­cra­tico dell’istruzione Mar­cel Chla­dek. Il mini­stro ha soste­nuto che il sistema duale dovrebbe ridurre la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile che, tut­ta­via, nella fascia d’età dei matu­randi non è ancora a livelli d’allarme.
Qual­che dub­bio sulla sua fun­zio­na­lità ce l’ha, invece, la socio­loga Linda Soka­cova, secondo cui «è natu­rale che in molti optino per altri tipi di scuole, con­si­de­rando la situa­zione e l’offerta for­ma­tiva e cul­tu­rale degli attuali isti­tuti tec­nici». Linda Soka­cova, inol­tre, ha notato la discre­panza tra i discorsi di tutte le forze poli­ti­che, che vor­reb­bero rin­fol­tire gli isti­tuti tec­nici, e la pra­tica dei sin­goli poli­tici, che man­dano a stu­diare la pro­pria prole nei licei d’élite.

Con l’acceleratore pre­muto sul sistema di istru­zione duale è ritor­nata al cen­tro la volontà delle imprese: quella di poter orien­tare sem­pre più la pro­du­zione di un bene comune come l’istruzione in cam­bio della pro­messa (sem­pre più pre­ca­ria) di un impiego. Un tema affron­tato già due anni fa dalle pro­te­ste stu­den­te­sche e dai ricer­ca­tori dell’Accademia delle scienze, quando l’allora governo di cen­tro­de­stra sostenne che il lavoro di stu­dio e di ricerca si dovesse adat­tare alle esi­genze delle aziende tra­mite una mag­giore rap­pre­sen­ta­zione degli impren­di­tori nei con­si­gli d’amministrazione delle facoltà e un sistema di pre­stiti d’onore. «Il nostro sistema fa troppa ricerca di base e poco quella appli­cata uti­liz­za­bile dalle aziende», disse allora il pre­mier Petr Necas, susci­tando un aspris­simo scon­tro con tutta la comu­nità acca­de­mica e gli isti­tuti di ricerca.

Dopo un con­flitto di due set­ti­mane il governo di cen­tro­de­stra dovette far com­ple­ta­mente mar­cia indie­tro. Oggi l’esecutivo a tra­zione social­de­mo­cra­tica sta ten­tando di sot­to­porre una cura simile alla scuola supe­riore, che è chia­mata a pro­durre forza lavoro qua­li­fi­cata, cor­ri­spon­dente alle esi­genze azien­dali. Inol­tre gli studi sul sistema duale tede­sco, modello per quello ceco, sot­to­li­neano la bas­sis­sima pro­ba­bi­lità degli stu­denti degli isti­tuti tec­nici di acce­dere alle uni­ver­sità.
La sele­zione ver­rebbe così fatta alla radice, diret­ta­mente nelle scuole supe­riori. Negando così a molti una cul­tura, che li aiuti a diven­tare dei cit­ta­dini cri­tici e consapevoli.

il manifesto, 11/10/14

_______________________________________________________________________________

Ed ora un occhio alle cifre ipotetiche, visto che le chiacchiere, che abbondano ne “La buona scuola”, evitano accuratamente di parlare di investimenti. Da alcune considerazioni apparse sul Sole 24Ore…

E’ cronaca la pubblicizzazione da parte Governativa di un settore scolastico al centro dei finanziamenti nella prossima Legge di Stabilità. C’è da assumere i precari e da avviare tante nuove novità, come la valutazione, la scuola-lavoro. In realtà, almeno secondo quanto scrive il Sole24Ore, i tagli saranno superiori agli investimenti.

Un miliardo è stimato il finanziamento al settore scuola, annunciato dal Premier già prima dell’estate, gran parte del quale andrà per le assunzioni di 148mila docenti.

Da dove verranno tali finanziamenti? Ovviamente, le risorse dovranno essere trovate all’interno stesso della scuola. Ma c’è di più, a conti fatti, i tagli saranno superiori all’investimento.

Il calcolo è stato anticipato dal Sole24Ore. Il Ministero dell’istruzione parteciperà con 1,1 miliardi sui 6 miliardi di tagli attesi per il 2015. Come parteciperà il settore scolastico?

Secondo il quotidiano (l’articolo completo, con i tagli provenienti anche da Università e Ricerca, lo trovate a questo indirizzo), i tagli saranno così distribuiti:

  • 144mln dal taglio dei membri esterni dell’esame di maturità;
  • 130mln dal taglio del fondo per le spese di pulizia;
  • 80 milioni dal blocco degli scatti di anzianità, che diventano 189 in 3 anni;
  • 55 mln dall’eliminazione delle supplenze brevi;
  • 50 dal taglio dei progetti nazionali di istruzione.

Nessun cenno, da parte del Sole24Ore, del taglio agli organici ATA con blocco del turno-over, precedentemente anticipato da Italia Oggi.

Sta di fatto che l’istruzione parteciperà per un sesto dei tagli attesi per il 2015 e riceverà meno di quanto dovrà cedere.

a cura di marco sansoè

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *