Letture utili. Oggi in Turchia

Per uscire dalle banalità superficiali dell’informazione italiana (e occidentale),  ecco un suggerimento di lettura:

1. un lungo scritto collettivo di grande interesse che, con l’aiuto dei diretti interessati, traccia una linea di interpretazione molto efficace;

2. due brevi scritti di Luigi Vinci.

La stampa italiana plaude “ai giovani turchi che lottano (repressi duramente della polizia) per affermare il diritto all’autodeterminazione e alla libertà di manifestare”.

Chissà cosa fanno di diverso i valsusini da anni! Almeno che, ancora una volta, la cultura razzista e arrogante dell’occidente pensi che la democrazia sia una prerogativa sua, già pienamente conquistata, ovviamente, dalla quale gli altri popoli siano esclusi o ancora immaturi per possederla!
Buona lettura.

Oggi in Turchia. Una analisi

http://www.clashcityworkers.org/documenti/analisi/1007-cosa-sta-succedendo-in-turchia-e-cosa-centra-con-noi.html

Cosa sta succedendo in Turchia e cosa c’entra con noi. Un’analisi e alcune considerazioni

[a tutti i compagni scesi in strada, ai morti, ai feriti, agli arrestati]

Il mio secolo non mi fa paura,
il mio secolo pieno di miserie e di crudeltà
il mio secolo coraggioso e eroico.
Non dirò mai che sono vissuto troppo presto
o troppo tardi.
Sono fiero di essere qui, con voi.
Amo il mio secolo che muore e rinasce
un secolo i cui ultimi giorni saranno belli:
il mio secolo splenderà un giorno
come i tuoi occhi.

Nazim Hikmet, Il mio secolo non mi fa paura


indice
1. Questioni di metodo / 2. La Turchia negli ultimi dieci anni / 3. Le contraddizioni dello sviluppo, le classi sociali, le mobilitazioni degli ultimi anni / 4. La situazione attuale, le possibili evoluzioni e cosa è lecito sperare / 5. Cosa c’entra la Turchia con noi? Alcune conclusioni

Perché è importante conoscere meglio la Turchia e sapere quello che sta accadendo lì?

Perché questo paese rappresenta un caso da manuale dell’applicazione delle “riforme” neoliberiste, le stesse che stanno imponendo e vorrebbero massicciamente imporre anche da noi. In questo senso, capire quello che sta succedendo in Turchia vuol dire appropriarsi direttamente di strumenti che ci servono nelle nostre battaglie quotidiane, comprendere perché i destini dei nostri popoli sono così intrecciati. Materialmente, e non per motivi ideologici o “estetici”.


Cosa troverete in questo testo?

– Innanzitutto una ricostruzione della storia della Turchia degli ultimi dieci anni, una storia che ci fa imparare molto su come funziona la “crescita” economica nel modo di produzione capitalista e come la dimensione politica si modelli plasticamente sulle esigenze del profitto.

– Su questa base, più documentata possibile, tenteremo un’analisi delle classi sociali in Turchia e delle loro rappresentanze politiche, raccontando anche le mobilitazioni degli scorsi anni e i nuovi movimenti sindacali che si stanno delineando nel paese.

– Nel quarto paragrafo cercheremo poi di fare il punto su quest’ultima rivolta, individuandone i tratti di maggior interesse e gli insegnamenti che ci consegna.


Cominciamo però con una precisazione…


1. Questioni di metodo

Già alcuni giorni fa abbiamo scritto un breve articolo sulla Turchia: lo spunto che lanciavamo era completamente diverso dal dibattito che sta ancora imperversando in rete, ipnotizzato dalla cronaca dei fatti o dalle opposizioni semplici (del tipo “ambientalisti vs governo”, “laici vs islamici”, “movimenti vs neoliberismo”)1. Con quell’articolo, così come con questo documento, noi non intendevamo affatto dire: “ecco spiegato tutto” o peggio: “questa è la verità!”. Sappiamo che la realtà è sempre dinamica e complessa, che ci vuole molto studio e una capillare conoscenza dei fatti per poter avere un’interpretazione globale, che la contingenza politica è fatta di un coacervo di tensioni, motivi, cause, che gli stessi partecipanti alle proteste assumono in maniera variegata, a seconda della propria storia, sensibilità, contesto. Non ci sorprende affatto che chi sta in piazza dica di essere sceso perché non voleva un centro commerciale nel suo quartiere, o perché è diventato sempre più costoso e difficile bersi una birra, o ancora perché stufo dei soprusi della polizia: e non intendiamo affatto sostenere che questi motivi siano “falsi”, e che la gente non sappia perché sta in piazza per davvero. Ogni momento di rottura si situa all’incrocio di più traiettorie, è una congiuntura unica, in cui convergono insoddisfazioni individuali e rivendicazioni collettive, in cui si sollevano tante figure sociali diverse. Non è una novità dei nostri tempi: è sempre stato così – ed è questo quello che il pensiero postmoderno ignora, quando rappresenta schematicamente il passato e insegue il marketing della discontinuità ad ogni costo…


Il problema però è che per capire davvero un movimento non ci si può limitare a una sommatoria di impressioni o all’idea che questo si fa di sé. Qualcuno diceva: “Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione2.


Insomma, per capire un fenomeno nelle sue cause profonde, comparandolo ad altri, cercando di capire dove e come si può verificare ancora – questo per noi vuol dire un approccio “scientifico”, seppur di una scienza tutta particolare, com’è quella sociale e politica –, non basta fermarsi alla raccolta di opinioni dei partecipanti alle proteste, a un’analisi delle strategie dei partiti in causa, a una serie di constatazioni geopolitiche… Bisogna invece cercare di vedere cosa struttura nel profondo una società. Per noi partire dalla dimensione economica e dalla contraddizione capitale/lavoro che la informa non vuol dire affatto svalutare tutti gli altri fattori, ma semmai comprenderli sul terreno in cui si articolano. Vuol dire osservare come la dimensione economica plasma sotterraneamente e in continuazione tutta la società, come struttura e divide il campo sociale, quale dialettica apre fra le classi, come investe i bisogni individuali e collettivi.


Cercare di capire tutto questo, e soprattutto cercare di capire che farsene, è molto complicato, e quindi non ci sognavamo in un breve articolo di sintetizzare tutto quello che sta accadendo in Turchia. Semplicemente, come abbiamo fatto nel caso della Tunisia, dell’Egitto e della Libia, intendevamo lanciare un’ipotesi di lavoro, suffragata da una serie di documenti elaborati da analisti più esperti di noi, sperando che qualcuno la raccogliesse, la approfondisse, la motivasse meglio. Pensiamo infatti di essere solo un  tassello di un “intellettuale collettivo” fatto di migliaia di compagni sparsi per l’Italia e il mondo. Speriamo che le nostre riflessioni e i dati che abbiamo raccolto potranno essere utili e che gli elementi riscontrati nella vicenda turca vivranno anche nelle nostre pratiche e nelle nostre analisi della situazione italiana ed europea. Perché davvero quello che sta accadendo lì ci riguarda da vicino… Ma è tempo ormai di entrare nel merito.



2. La Turchia negli ultimi dieci anni

Per capire quello che sta succedendo, cerchiamo innanzitutto di conoscere la Turchia ricostruendo la sua storia recente. Con una premessa: prenderemo in esame il periodo che va dall’inizio degli anni Duemila in poi. Abbiamo scelto questo come punto di partenza perché in quegli anni avviene qualcosa che marca il paese in maniera significativa. Dal 2001 si producono infatti importanti cambiamenti destinati a trasformare la Turchia come non era mai accaduto nei decenni precedenti. Basta gettare un rapido sguardo ad alcuni grafici per capire che in quegli anni deve essere successo qualcosa di grosso: tutti gli indicatori macroeconomici (PIL, inflazione, debito pubblico, Investimenti Diretti all’Estero) subiscono uno scarto molto accentuato3. Guardate qui (clicca sui grafici per ingrandirli):

Cosa è accaduto? Nel 2001 la Turchia versa in una condizione molto difficile4. La crescita del PIL segna un terribile -9,4%, e lo sviluppo economico è a dir poco stentato. L’inflazione viaggia intorno a un incredibile 68,5% annuo5, una cifra altissima se si pensa che nello stesso periodo in Italia è al 2,8% e la media UE è al 2,4%. Inoltre la Turchia ha un alto debito pubblico (77,9% del PIL), e un complesso produttivo arretrato, imperniato intorno ad alcune vecchie aziende dello Stato, che controlla ancora i maggiori settori strategici. Per il resto si tratta di un paese in parte ancora agricolo, in cui lo stesso comparto dei servizi, anche turistici, è arretrato.

    

A seguito dello scoppio della bolla della new economy e della crisi finanziaria del 2001, si profila un serio rischio di bancarotta per la Turchia, incapace di trovare finanziatori sui mercati internazionali e di piazzare i propri titoli di Stato. Il paese si vede quindi costretto a chiedere un nuovo intervento del Fondo Monetario Internazionale. A condurre le trattative è Kemal Derviş, già vicepresidente della Banca Mondiale e nel 2001 Ministro dell’Economia turco. Praticamente un uomo dell’imperialismo al posto giusto al momento giusto. Ciononostante la trattativa non è semplicissima: la concessione del prestito è infatti subordinata al “principio di condizionalità”, ovvero all’approvazione di provvedimenti “lacrime e sangue” per la popolazione turca. I capisaldi delle riforme per l’FMI devono essere: la riduzione del debito pubblico, il rigore fiscale, la lotta all’inflazione, una fitta serie di riforme strutturali per il rafforzamento del settore privato, del sistema bancario e il miglioramento dell’investiment climate. In altre parole, “le riforme richieste puntano ad un aumento dell’efficienza e della produttività, attraverso un piano di liberalizzazioni e privatizzazioni. L’obbiettivo è un rapido aumento della produzione, incrementando la competitività del settore industriale orientato all’export, sostenuto da una politica di moderazione salariale”6.


Ovviamente Kemal Derviş accetta queste condizioni e l’FMI approva il finanziamento nel febbraio 2002: questa sarà l’operazione più grossa mai fatta dal Fondo. Parliamo di 16,5 miliardi di dollari, che portano a un’esposizione complessiva della Turchia verso il Fondo per ben 31 miliardi. Questo prestito segue la formula “Stand by”, cioè l’erogazione non avviene in un’unica soluzione ma, potremmo dire, a stato avanzamenti lavori: in altri termini i soldi vengono dati solo se vengono effettivamente eseguite le politiche prescritte dal Fondo.


L’investimento resta però pesante anche se è vincolato all’esecuzione di provvedimenti molto duri – l’FMI infatti non si sente di rischiare (lo dimostra il fatto che nello stesso periodo non concedeva facilmente aiuti a paesi sull’orlo della bancarotta come l’Argentina). È interessante allora capire perché la situazione si sblocchi. Qui entra in gioco la volontà politica degli Stati Uniti, molto rappresentativi dentro l’FMI, che fanno di tutto perché la Turchia non crolli. Sono gli anni della cosiddetta “guerra al terrorismo”, gli USA stanno investendo molto in quella zona, e si preparano ad attaccare l’Iraq. La Turchia deve servire da retroterra per le operazioni nell’area: non può quindi permanere in una situazione di instabilità7.


Ma c’è ancora un “piccolo” problema da risolvere: nel suo complesso la classe dirigente che fino a quel momento aveva guidato la Turchia non è credibile né agli occhi dei finanziatori internazionali, né agli occhi della popolazione che deve digerire una manovra di questa portata. C’erano infatti stati pesanti scandali di corruzione, che avevano portato alle dimissioni, nel maggio del 2001, del Ministro dell’Energia e, nel settembre dello stesso anno, di quello dei Lavori Pubblici.


È precisamente in questo momento che entra in scena Erdoğan.
Un personaggio complesso, di origini molto umili, addirittura incarcerato per le sue idee politico-religiose, legato a strati popolari islamici e agli abitanti delle periferie di Istanbul, città di cui era stato sindaco. Alle elezioni del novembre 2002 il suo partito, l’AKP – che appare una novità sullo scacchiere politico turco, visto che è stato fondato nel 1998 – prende il 34,3% di voti. Per il complesso sistema elettorale, un proporzionale con sbarramento al 10%, questo vuol dire andare direttamente al governo, visto che l’unico altro partito in lizza è il CHP, laico e di centrosinistra, che incassa un misero 19,4%. 


Certo, l’eredità politica è pesante, “bisogna onorare gli impegni” con l’FMI, ma Erdoğan sembra il personaggio giusto. Qui si delinea quell’alleanza fra neoliberismo e islamismo che caratterizza gli ultimi dieci anni della vita politica turca: un’aggressiva politica economica antipopolare accompagnata però dalla costruzione di consenso e di unità nel corpo sociale grazie al richiamo religioso e ai suoi dispositivi di educazione, cura e contenimento. Fra il 2003 e il 2005 Erdoğan porta avanti con estrema determinazione il programma imposto dall’FMI. In particolare il suo Governo mette in campo: 


a) una legge quadro sugli investimenti esteri (che ha come sottopunto una “protezione contro gli espropri”);
b) una normativa che disciplina la creazione di imprese;

c) la riforma del mercato del lavoro; 

d) la legge sul controllo della finanza pubblica;

e) la normativa sugli appalti pubblici;

f) le liberalizzazioni del mercato elettrico, del gas, degli alcolici, della telefonia fissa e mobile;

g) le privatizzazioni del comparto della TEKEL e delle raffinerie della TÜPRAS e della compagnia elettrica TEDAŞ;


Il carattere di classe di queste misure è evidente. Non c’è bisogno di dilungarsi per quanto riguarda le liberalizzazioni e le privatizzazioni: queste attirano subito capitali perché svendono pezzi importanti dello Stato e aprono nuovi settori di mercato, con conseguente aumento delle tariffe e un peggioramento delle condizioni di lavoro degli impiegati, che passano sotto padrone…


Prendiamo piuttosto la legge quadro, a cui peraltro si ispirano molte proposte che circolano anche da noi. Questa legge serve esplicitamente a incoraggiare gli stranieri a venire a investire in Turchia. Come lo fa? Innanzitutto diminuendo i vincoli burocratici: in altre parole per aprire una fabbrica non c’è più bisogno di permessi e di certificazioni ma bastano semplici “notifiche” – questo vuol dire che nei fatti spariscono molti controlli e tutele per chi lavora e per il territorio. In secondo luogo, le aliquote sui redditi da impresa scendono al 20%, assestandosi così fra le più basse d’Europa, e vengono anche previsti aiuti fiscali a chi investe, oltre all’esenzione da IVA in alcune zone.
Come se non bastasse, la legge quadro prevede anche la possibilità per i capitali esteri di controllare sino al 100% delle aziende turche, tranne quelle individuate da regolamenti speciali; la possibilità di fare ricorso agli arbitrati internazionali; addirittura la libertà per i capitali stranieri di rimpatrio dei profitti, dei dividendi e di ogni altro provento; l’esenzione delle imposte doganali per l’importazione di macchinari e attrezzature; l’esenzione da IVA rispetto all’acquisto di macchinari prodotti in loco.
Ciliegina sulla torta, vengono create anche delle “zone economiche speciali” in cui lo Stato dà incentivi economici, terreni gratuiti, alleviamento fiscale, alleviamento dei contributi pensionistici per i lavoratori (cioè i soldi non ce li mette il padrone, ma lo Stato), e viene anche data la possibilità di utilizzare le strutture universitarie pubbliche per effettuare ricerche e sviluppo a vantaggio di aziende private. In altre parole, il Governo turco regala il paese e la sua popolazione al capitale internazionale, subordinando l’uno e l’altro all’imperialismo.


Non va meglio in materia di lavoro.
La prima cosa che fa il Governo di Erdoğan è istituzionalizzare la pratica del lavoro interinale: in altre parole nelle fabbriche turche si afferma legalmente il caporalato e forme di “lavoro in affitto”. Ancora, vengono introdotte misure di massima flessibilità della forza-lavoro, che in pochi anni faranno sì che la Turchia arrivi ad avere la settimana lavorativa media più alta d’Europa – ben 53 ore! –, il tasso più basso di assenze lavorative per malattia (solo 4,6 l’anno nel 2013), un numero impressionante di morti sul lavoro8, un salario minimo netto che nel 2013 è di miseri 409 dollari – poco più di 300€ al mese… Qualche grafico ci permette di capire intuitivamente cosa stiamo dicendo (clicca sui grafici per ingrandirli):

Grazie all’estorsione del pluslavoro operaio, il paese in poco tempo cambia faccia: gli Investimenti Diretti all’Estero passano da 1,8 miliardi di dollari del 2003, ai 22 miliardi di dollari nel 2007. Nello stesso periodo l’inflazione – storico problema turco, e grosso problema soprattutto per il sistema bancario9 – viene abbattuta all’8,4%10. Erdoğan arriva così con i “compiti fatti” all’ulteriore revisione degli accordi con l’FMI alla fine del 2007.


Ma, nonostante questi dati strabilianti (per i padroni, ça va de soi!), resta nell’economia turca un neo che la turba ancora oggi: il saldo negativo della bilancia dei pagamenti. Detto semplicemente, la Turchia continua a importare più di quanto esporti, e la sua economia cresce solo grazie all’afflusso di capitali freschi sotto forma di IDE. L’Economist lo dice chiaramente: quella turca sarebbe un’economia “estremamente vulnerabile”. Infatti “quando l’economia, a livello globale, attraversa una fase positiva c’è un forte afflusso di denaro verso la Turchia che offre alti tassi di profitto e la lira turca acquista valore, aumentano gli import e il disavanzo nella bilancia commerciale. Ma quando gli investitori hanno paura allora i capitali escono dal mercato turco più rapidamente rispetto ad altri paesi, spingendo in basso la lira turca e provocando una riduzione della domanda interna”11.


Ma siamo nel 2007, nel momento di maggiore espansione dei mercati mondiali. Così la campagna elettorale di quell’anno si gioca sulla possibilità di non rinnovare i prestiti con l’FMI. Erdoğan fa cioè ventilare l’ipotesi di non voler ancora “aiuti”, e d’altronde tutti i partiti sembrano concordare in nome di una sorta di “orgoglio nazionale”. In realtà ben presto tutti si accorgeranno che sono necessari, perché se per una qualsiasi ragione dovessero venire meno gli IDE (e a fine 2007, a crisi ormai conclamata, è possibile che ci sia una diminuzione di questi capitali), tutto il castello crollerebbe.


E in effetti Erdoğan, che ha ormai vinto trionfalmente con il 46,6% promettendo la fine delle politiche di austerità, opta nel maggio 2008 per un rinnovo degli accordi con l’FMI, che vuol dire nuova tranche di riforme massacranti. Si procede così ad altre privatizzazioni: di autostrade e ponti, di porti e aeroporti, ma anche di quel poco che rimane sotto il controllo pubblico, dalle dighe al settore delle lotterie12. Ma non è finita qui: il governo di Erdoğan procede anche con la riforma delle pensioni fortemente voluta proprio dall’FMI, che porta l’età pensionabile a 65 anni, in un paese la cui aspettativa di vita è meno di 72 per gli uomini (per le donne questa riforma è ancora più penalizzante perché l’età pensionabile passa dai 58 ai 65 anni!). Il Governo mette in campo nel 2008 anche una riforma che istituisce l’Assicurazione Sanitaria Unificata, una sorta di privatizzazione dei sistema sanitario, che solleva molte proteste.


Nel 2009 Erdoğan deve anche fare i conti con gli effetti della crisi: il PIL crolla al -4,8%, e gli IDE, che per la maggior parte provenivano dall’Unione Europea ora in recessione, continuano ad affluire solo da Est. Questo segna un cambiamento nelle politiche estere della Turchia: di fatto si blocca il processo di adesione alla UE, iniziato con i negoziati del 2004. D’altra parte sarà lo stesso Erdoğan, sfruttando la ripresa del 2010, a cercare un proprio spazio di azione, anche militare, dal Medio Oriente al Nord Africa, intervenendo in Libia e in Siria, rinvigorendo il mito della Turchia Ottomana e presentandosi – per un breve periodo – addirittura come paladino di tutti gli arabi contro Israele (ricordate l’affaire della nave Mavi Marmara, assalita da un commando israeliano che fece ben nove morti fra gli attivisti pro-palestinesi?)…

D’altronde, dopo lo stop elettorale della amministrative del 2009 in cui l’AKP prende “solo” il 38,9%, è proprio il +8,9% del PIL del 2010 che incoraggia Erdoğan a procedere nel rafforzamento del suo potere politico e delle sue reti clientelari. Lo testimonia innanzitutto il Referendum Costituzionale di quell’anno, che serve al leader islamico per ridimensionare l’azione di altri corpi o settori dello stato, come la magistratura, che prova a mettere sotto controllo politico, e l’esercito, che rappresenta un vero e proprio concorrente, visto che non è solo il “garante in ultima istanza dell’ordine democratico”, ma controlla anche posti di lavoro e quote di ricchezza, restando però espressione di una borghesia laica e kemalista.


I buoni risultati economici spingono Erdoğan anche ad “alzare la testa” nei confronti dell’FMI, e a non chiedere ulteriori finanziamenti, come pure era stato suggerito dal Fondo nel 2009. Questo gli attira le antipatie di alcuni settori del capitale internazionale: non è un caso che alla vigilia delle elezioni politiche del 2011 l’Economist e il Financial Times appoggeranno apertamente l’opposizione del CHP, paventando un “eccesso di potere” del primo ministro islamico. Ovviamente l’Economist e il Financial Times, così come oggi gli USA e l’ONU, non sono mica sensibili a questioni democratiche: semplicemente ai capitali internazionali conviene sempre non avere a che fare con leadership troppo forti…

Ciononostante l’AKP fa a questo giro il miglior risultato di sempre: il 49,83%. Ma siccome stavolta due partiti superano la soglia di sbarramento (l’opposizione laica di centrosinistra del CHP al 25,98% e i nazionalisti dell’MHP al 13,01%) Erdoğan perde seggi, e con 327 seggi sui 330 necessari, non può cambiare la costituzione da solo. In ogni caso può continuare a imperniare intorno a lui reti di potere e a sostenere i nuovi strati sociali di borghesia islamica, e in particolare l’associazionismo religioso che gli permette di intercettare i ceti popolari.


Anche per questo si arriva alla riforma della scuola nel 2012, che punta sia a favorire gli istituti islamici, sia a facilitare l’evasione dell’obbligo scolastico, in uno dei paesi più famosi al mondo per il lavoro minorile (parliamo di 1,6 milioni di bambini al lavoro13), perché se pure si aumenta l’obbligo scolastico di quattro anni, è solo per spezzettarlo in tre diversi momenti, favorendo così la dispersione in ogni cambio di scuola.

3. Le contraddizioni dello sviluppo, le classi sociali, le mobilitazioni degli ultimi anni
Come si vede, nonostante la sostenuta crescita del PIL dal 2002 al 2013 (in media il 5%, nonostante la crisi mondiale), per Erdoğan non sono tutte rose e fiori. Basta gettare uno sguardo ad alcuni dati dell’OCSE per capire quante contraddizioni si siano accumulate, non solo dal punto di vista macroeconomico (ricordate il problema accennato prima della bilancia dei pagamenti e della dipendenza della Turchia dai capitali esteri?), ma soprattutto dal punto di vista sociale. È ancora l’OCSE, fra i templi del liberismo mondiale, a inserire la Turchia tra i primi cinque paesi al mondo con il più profondo gap tra il 10% della popolazione più ricca e il 10% della popolazione più povera (assieme a Cile, Messico, Stati Uniti e Israele, ovvero i paesi all’avanguardia nelle politiche neoliberiste)14.


In altri termini, contro il mantra ripetuto sia dai liberisti che dai socialdemocratici anche italiani, il cui postulato intoccabile è che della crescita economica finiscono prima o poi per beneficiare tutti, e quindi bisogna “sviluppare l’economia e sostenere le imprese”, interi strati della popolazione sono rimasti tagliati fuori dallo sviluppo, anzi, hanno visto persino la loro condizione peggiorare.

Come sottolinea Sevket Pamuk, storico dell’economia di fama mondiale e Presidente del Dipartimento di studi sulla Turchia della London School of Economics, “la condizione di operai, lavoratori non qualificati e dipendenti pubblici in Turchia non è migliorata di molto. Inoltre a un aumento seppur ridotto dei loro stipendi, fa da contraltare l’aumento del costo della vita nelle città e un’inflazione all’8,9% che rende impercettibile questo cambio”15. Pamuk si mantiene prudente, ma la realtà è anche peggiore delle sue supposizioni. Non solo perché i salari hanno perso potere d’acquisto, non solo perché si lavora di più e in condizioni peggiori, con una copertura sanitaria e pensionistica scarsissima. Ma anche perché, nonostante la ripresa economica, la disoccupazione resta comunque all’8,8%, mentre persiste una consistente fascia di NEET16, per non parlare della situazione ancora arretrata delle campagne, rimaste estranee all’accelerazione dell’economia.


Ma chi ha beneficiato allora delle politiche di Erdoğan? Qual è il profilo delle classi in Turchia? Su quali blocchi sociali i vari raggruppamenti politici costruiscono il loro potere? Se non capiamo questo, non possiamo capire nulla delle rivolte che si stanno sviluppando e dell’esito che possono prendere.


Chi sia stato il grande vincitore della lotta di classe nell’ultimo decennio è evidente. Ce lo dice ancora una volta Pamuk: “Il tenore di vita e il livello di ricchezza delle famiglie dell’alta borghesia è sicuramente aumentato. Allo stesso tempo è nata una nuova piccola borghesia, formata da coloro che sono emigrati dalle campagne dell’Anatolia verso le grandi metropoli turche come Istanbul, Ankara e Smirne per cercare un futuro migliore. Divenuti principalmente commercianti e piccoli imprenditori si sono arricchiti grazie alle politiche del AKP di Erdoğan di cui sono i più forti sostenitori”. Proviamo a specificare meglio.


Erdoğan può contare su un blocco sociale di tutto rispetto. Ha innanzitutto il sostegno di alcune famiglie della grande borghesia, di grandi costruttori e delle “tigri anatoliche”, direttamente legate a lui da vincoli di amicizia e parentela. Ma non solo: le sue politiche economiche hanno creato quasi dal nulla una nuova borghesia islamica, fondata sulla piccola e media impresa (chiamata KOBI, quella in cui si registrano più morti sul lavoro, meno presenza dei sindacati, più sfruttamento etc). Queste reti economiche, spesso tirate su da abitanti delle periferie, prosperano sul sommerso, che continua a rappresentare il 50% dell’economia turca, e sono capillarmente presenti sui territori. Ma Erdoğan riesce anche a penetrare negli strati popolari e nelle campagne, grazie al richiamo all’islamismo e al suo materiale supporto a scuole, centri di assistenza e di volontariato a sfondo religioso, che agiscono come raccoglitori di voti e pilastri del consenso per l’AKP.


Ma Erdoğan non riesce a coprire tutto il fronte borghese. Che è rappresentato anche dalle grandi famiglie della borghesia laica, i “vecchi padroni del vapore”, come li chiama il Sole 24 Ore17, che in quest’ultimo decennio hanno perso progressivamente quote di potere. Il ruolo di questa frazione borghese non è affatto da trascurare: non solo perché gode di posizioni acquisite negli ultimi cento anni, non solo perché ha forti legami internazionali, ma anche perché continua ad essere interna all’esercito e a rappresentare, attraverso lo strumento politico del CHP, la maggiore opposizione del paese. Inoltre gode anche di un largo sostegno popolare legittimato dal richiamo ai valori della secolarizzazione e alla figura di Ataturk.

Punta invece tutto sul nazionalismo, sul tradizionalismo di matrice laica e sull’opposizione alle minoranze curde e armene, il terzo partito turco, l’MHP.

 
Ma, se questi sono i blocchi sociali egemonizzati dalla borghesia, qual è la situazione materiale e la percezione di sé del nostro soggetto di riferimento, cioè il proletariato? Con chi sta, dove sta, che fa e come partecipa alla vita politica turca?


Iniziamo con alcune constatazioni, banali. In questi ultimi dieci anni c’è stata una crescita del proletariato in termini assoluti. Lo sviluppo turco si è infatti contraddistinto per l’espansione della manifattura, dell’industria e del settore “arretrato” dei servizi. Questo ha portato ad un aumento dei lavoratori dipendenti, e in particolare degli operai e degli addetti al turismo: è stata cioè messa più gente a lavoro, molti sono stati strappati dalle campagne, dalle forme di sussistenza e di riproduzione quasi individuale, e sono pienamente entrati nel rapporto di sfruttamento capitalistico.


Eppure, a fronte di questa crescita numerica, almeno in prima battuta il ruolo e l’azione di questo soggetto sociale non è stato particolarmente visibile. Uno dei motivi è presto spiegato: la difficoltà di organizzarsi, sia sui posti di lavoro che a livello politico generale. Partiamo da quest’ultimo livello, per certi aspetti meno complesso: i partiti di sinistra e in particolare i comunisti, gli studenti, gli intellettuali dissidenti in Turchia sono stati costantemente repressi. Negli anni di Erdoğan questa repressione si è fatta particolarmente spietata: si pensi al caso dei Grup Yorum, gruppo rock folk turco della sinistra radicale le cui cantanti nel settembre del 2012 furono arrestate e torturate, o ancora di più alla gigantesca operazione contro la sinistra di questi ultimi mesi, che ha portato all’arresto di circa 8mila persone tra cui numerosi sindaci, docenti universitari, giornalisti, sindacalisti, militanti di base…

Se consideriamo poi che la soglia di sbarramento per ottenere una rappresentanza politica in Parlamento è fissata al 10%, si capisce come la sinistra di classe non riesca a “farsi vedere” su una dimensione nazionale, pur essendo affollata di gruppi, di micropartiti, di organizzazioni anche molto combattive e capaci.


Ma perché i lavoratori, pur essendo tanti e sperimentando forme disumane di sfruttamento, non sono riusciti a irrompere significativamente nella vita sociale e politica turca e a contrastare questa spietata lotta di classe portata avanti da Erdoğan?

Innanzitutto c’è un problema materiale: una parte cospicua della forza lavoro è legata a dimensioni di piccola e media impresa, dove il controllo padronale è più forte, e la concentrazione operaia è significativa solo in alcuni distretti. Ma basta gettare un colpo d’occhio per vedere come funzionano i sindacati in Turchia, di quali diritti beneficiano i lavoratori, come si convoca uno sciopero, per capire che la situazione è effettivamente difficilissima. Facciamo qualche esempio18.


Iscriversi a un sindacato è una vera impresa. C’è tutta una complessa procedura burocratica che prevede l’autentificazione della richiesta presso un notaio di ben cinque copie, che vengono poi inoltrate a diversi uffici, anche governativi. Inoltre il sindacato non è presente ovunque. Chiamare uno sciopero è poi davvero arduo: c’è un lungo iter di avviso alla controparte, dopodiché in qualsiasi momento le autorità possono sospendere la precettazione. Peraltro, prima del Referendum Costituzionale del 2010, era possibile scioperare solo nel settore privato, e comunque non nelle industrie strategiche come quelle di produzione di carbone, le centrali idroelettriche, elettriche, a gas e a carbone, nel settore bancario e dei notai. Dopo una lunga lotta ora è possibile scioperare anche nel pubblico impiego, ma con norme molto rigide. Ancora, la costituzione turca vieta, almeno nel settore privato, gli scioperi politici e di solidarietà – ovvero quelli che più costruiscono legami di classe ed elementi di coscienza fra lavoratori.


Ciononostante sarebbe falso affermare che in Turchia sui posti di lavoro vige la pace sociale. Al contrario. Quello che si riesce a sapere (infatti, data la difficoltà di organizzarsi stabilmente spesso le tensioni scoppiano in maniera autorganizzata e locale, dunque non vengono registrate), dimostra che è proprio nelle proteste degli operai, dei lavoratori dipendenti e in generale dei ceti popolari, che un filo rosso fra le lotte non si è mai spezzato. È in questo “fondo” che sono state attinte le risorse per mobilitarsi, tenere le piazze, comunicare, estendere l’opposizione, e da questo dipende sia il carattere marcatamente sociale che hanno subito assunto, nelle forme e nei tempi, le proteste, sia la loro generalizzazione anche fuori Istanbul, l’estensione quasi simultanea in tutte le città e gli insediamenti industriali (mentre non a caso la campagna è restata in massima parte estranea al “contagio”, come di vede dalla cartina qui sotto19). A dimostrazione che le rivolte non nascono dal nulla ma, per quanto possano apparire agli osservatori come un Evento, sono in realtà il prodotto di un’accumulazione di forze, di una sedimentazione continua.

 

Proviamo quindi a ricostruire questo filo rosso. Se in un primo momento la crisi economica del paese all’inizio degli anni Duemila pesa sulla possibilità di avviare mobilitazioni, la stessa crescita economica genera a un certo punto anche elementi di consapevolezza nei lavoratori. Nel 2004 arrivano i primi scioperi nel settore della produzione dei pneumatici, che sono così forti e inquietanti da portare il Governo a varare apposta una legge per vietare questo tipo di mobilitazioni. Gli scioperi aumentano costantemente fino al 200720, anno in cui c’è un fortissima mobilitazione contro la privatizzazione della Turk Telecom. Parliamo di circa 26.000 lavoratori coinvolti, pochi se pensiamo in termini astratti, ma tantissimi se pensiamo che sono 20 volte di più che pochi anni prima, e se riflettiamo sul dato che la sindacalizzazione in Turchia riguarda nemmeno tre milioni di lavoratori su 23…

Nel 2007 saranno oltre 1 milione le giornate complessive di lavoro sottratte al padrone. Questi temporanei exploit, che arrivano anche a scontri con le forze dell’ordine e che trovano momenti di aggregazione intorno a un Primo Maggio da sempre vissuto come giornata di lotta, dimostrano che una conflittualità c’è sempre stata, e che i movimenti non si generano dal nulla, ma vivono di continuità magari sotterranee, ma forti.


Il 2008 è caratterizzato da grosse mobilitazioni contro la riforma delle pensioni e la riforma sanitaria, che com’è ovvio toccano in primo luogo proprio i lavoratori. Ma la situazione esplode davvero nell’ottobre del 2009, quando a Istanbul c’è il vertice dell’FMI e della Banca Mondiale. Per giorni in città si succedono scontri anche molto duri, ci sono tanti arresti e feriti. Non a caso il 2009 è anche l’anno di nascita di Resistanbul, una delle sigle che ha caratterizzato anche questi giorni di mobilitazione.


Questo flusso prosegue imperterrito per tutto il 2010, anno in cui scendono in piazza, con relativi scontri, gli operai della TEKEL, avvengono le proteste contro il Referendum Costituzionale del 2010 e la riforma della scuola del 2012, che fra le altre cose lascia senza lavoro ben 300.000 insegnanti che si iniziano a organizzare. Nello stesso tempo il pubblico impiego si mobilita per il rinnovo del contratto: migliaia di lavoratori chiedono addirittura aumenti salariali… Insomma, sembra davvero il caso di soffermarsi su alcuni aspetti di questo nuovo movimento sindacale.


Da questo punto di vista la lunga lotta della TEKEL, una delle aziende di tabacchi e alcolici di vecchia proprietà dello stato “regalata” da Erdoğan alla British American Tobacco, è emblematica. Il caso della TEKEL ha riscosso molta attenzione a livello internazionale21, non solo perché la tenacia dei lavoratori nel resistere per mesi ai processi di flessibilizzazione e al taglio dei salari ha fatto sì che si creassero le condizioni per una delle più grandi manifestazioni recenti in Turchia (ben 100.000 persone nelle strade di tutto il paese), ma perché la mobilitazione è stata fortemente spinta e organizzata dai lavoratori stessi, anche contro le burocrazie dei sindacati di sinistra, ovvero DISK e KESK. La stessa forma che si è data la lotta, quella della “Comune di Sakarya”, ovvero di un insieme di tende organizzate in un quartiere nel cuore di Ankara, è un momento di snodo per la storia dei movimenti turchi contemporanei.

Come scrive Sungur Savran, giornalista radicale di Istanbul, nel descrivere l’impatto di quella vicenda sui tanti visitatori, militanti socialisti e comunisti che si recavano lì per dare una mano, lavoratori che andavano a fraternizzare, “l’accampamento di Sakarya diventò presto una Mecca per tutti i movimenti di opposizione e creò un impeto per il risveglio della coscienza di classe in tutti quanti, nei lavoratori TEKEL e nei visitatori”. Come non legare questa vicenda, a cui parteciparono tanti compagni di Istanbul, a quella del Gezi Park? E come non pensare che nella protesta di Ankara, per certi aspetti anche più violenta di quella di Istanbul, non c’entri la memoria di questa lotta? Non si siano anzi mobilitati proprio questi nuclei di lavoratori?

Ma facciamo un altro esempio. Nel settembre 2006 ad Antalya a ribellarsi sono le lavoratrici della SUPRAMED, una fabbrica della multinazionale tedesca Prescription Medical Corp22: per quanto la lotta abbia riguardato numeri trascurabili (parliamo di 83 lavoratrici su 85) ha segnato un momento importante. Innanzitutto perché è stata condotta in prima persona da donne, che hanno avuto il coraggio di resistere per ben 448 giorni di sciopero, in secondo luogo perché alla fine è risultata vincente, riuscendo persino a strappare miglioramenti contrattuali, e in terzo luogo perché è riuscita a introdurre per la prima volta il sindacato nelle famigerate Zone Economiche Speciali aperte da Erdoğan (in questo senso quest’esperienza ha molti punti di contatto con quella dei lavoratori della Chung Electronics in Polonia)23.


Estremamente interessante sembra poi la lotta di un anno fa dei lavoratori della Turkish Airlines24. La compagnia aveva infatti deciso di licenziare ben 305 dipendenti, “colpevoli” di aver cercato di fermare con iniziative e proteste una proposta di legge governativa mirante a vietare gli scioperi nel trasporto aereo. Il 3 giugno 2012 la norma è stata comunque pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale mentre i lavoratori si sono ritrovati disoccupati. Ma anche per il suo forte impatto mediatico e sociale, la vertenza si è trasformata nel simbolo della nuova stagione del sindacalismo turco, tanto che a mediare è arrivato nientemeno che il Ministro del Lavoro di Erdoğan, che pure aveva approvato l’operato della Turkish Airlines.

Le dichiarazioni dei sindacalisti coinvolti sono estremamente interessanti per capire quello che sta succedendo nel paese negli ultimi anni, e ci forniscono la chiave per afferrare anche il senso delle ultime proteste: “La questione è semplice: se la Turchia sta crescendo, vogliamo la nostra parte di questa crescita”, spiega infatti il Presidente della Confederazione dei sindacati del settore pubblico Memur-Sen. “Il governo ha preferito stare dalla parte dei ricchi, cioè con il capitale”, gli ha fatto eco il leader della Confederazione dei sindacati del pubblico impiego KESK.

 

Insomma, basta consultare qualche rivista specializzata25 o fare una ricerca in rete, per scoprire che in Turchia non c’è mai stata pace sociale. D’altronde non è possibile, in un modo di produzione capitalistico, abolire la conflittualità di classe: prima o poi i problemi sono destinati a venire a galla. Certo, lo sviluppo di queste lotte incontra tante barriere, fra cui la repressione dei padroni e dello stato è solo una, e forse la più trascurabile.

Il proletariato turco sembra infatti risentire anche dell’impatto “classico” dei processi di globalizzazione su un paese periferico, e in particolare della creazione di quella linea di frattura (individuata da alcuni scritti di Robert Cox nel 1981 e di Andreas Bieler nel 2000) fra un lavoro orientato verso la produzione nazionale e un altro orientato verso la produzione internazionale26. Questi legami con capitali di diversa provenienza sembrano generare apparenti differenze di interessi all’interno della stessa classe, e quindi anche due approcci differenti: uno più corporativo, ed è il caso degli impiegati pubblici e degli addetti all’agricoltura, e uno più “solidale” e “internazionalista”, ed è il caso degli operai del tessile e delle automobili. Questo conflitto interno al proletariato consente alla borghesia nel suo complesso un più facile controllo della situazione, perché è un fattore di divisione costante fra i sindacati e persino fra segmenti diversi della forza lavoro, ad esempio fra quella legata all’economia formale e quella legata all’economia informale.

In tutto questo bisogna poi aggiungere che l’AKP approfitta di veri e propri sindacati “gialli”, ovvero filopadronali, per sviluppare meccanismi di partnership e di compensazione fra capitale e lavoro (immaginate a vantaggio di chi!).


D’altra parte è proprio questa compressione sui posti di lavoro che fa sì che le proteste, quando esplodono, siano poi molto accese. E quello che è accaduto a Istanbul nel 2009 in occasione della “visita” dell’FMI, o che sta avvenendo in questi giorni in tutte le città turche, dimostra che si può solo spostare il luogo della conflittualità: se la si disarticola sui posti di lavoro è per poi trovarsela spalmata nella metropoli, concentrata intorno alla difesa di un luogo che l’intelligenza di un movimento individua come centrale.


Per concludere, si vede bene che, in questo contesto di decennale sviluppo, ma di cruda disuguaglianza, problemi come quello della gentrificazione – che non ha tanto a che vedere con gli alberi del Gezi Park, ma riguarda i ben più materiali sfratti di proletari e minoranze dalla zona, oltre alla distruzione di una piazza ad alta valenza simbolica per i movimenti –, per quanto importanti, non ci aiutano a capire la globalità dell’avvenimento, il fatto che sia stato fatto proprio da tutta una fascia di esclusi dal trionfale progresso dell’economia capitalistica.

Insomma, non dobbiamo stupirci del perché tutto questo sia successo, semmai al contrario ci dovremmo chiedere perché non è successo prima… In ogni caso quello che è certo, e che ci dà speranza anche per la situazione italiana, è che quando intorno c’è del materiale infiammabile basta una scintilla perché tutto prenda fuoco.

4. La situazione attuale, le possibili evoluzioni e cosa è lecito sperare

Proviamo ora ad azzardare qualche riflessione sullo stato della mobilitazione turca, cercando di sottrarci alla cronaca che ci bombarda momento per momento e che ci invia segnali contraddittori. Tentiamo cioè di ragionare oltre il Gezi Park, sulle tendenze di medio e lungo periodo, che sono quelle che sono state messe in evidenza finora.


Nel breve periodo, Erdoğan ha ancora molte carte da giocare, e la repressione poliziesca forse non è nemmeno la principale. Innanzitutto il suo partito, per quanto abbia al suo interno una frazione più “dialogante” (in parte perché teme un’eccessiva gestione familistica degli affari, in parte perché vuole strumentalmente ricavarsi spazi di visibilità magari in vista di future operazioni elettorali), resta di gran lunga il più rappresentativo nella società turca. Inoltre, grazie anche alla mediazione dell’apparato islamico, può contare di un certo sostegno popolare, utile quando si tratta di far scendere in campo mazzieri e squadristi da gettare contro i manifestanti, per poi far intervenire in seconda battuta lo stato come garante dell’ordine (è una mossa classica, dall’Italia fascista alla Grecia di Alba Dorata, e che è stata sperimentata già in questi giorni).
Ma soprattutto Erdoğan è stato per oltre dieci anni il garante degli interessi dell’imperialismo in Turchia, un interlocutore credibile non solo per il capitale europeo o statunitense, ma per tutti. Di fatto è stato il primo leader della turbolenta Turchia contemporanea che abbia stabilmente garantito condizioni di profittabilità, e di questo lui stesso ne è assolutamente consapevole, come ha dimostrato in tutti i suoi ultimi interventi. Difficile che venga “scaricato” dai suoi ricchi sostenitori o dagli investitori stranieri senza che prima si sia trovato un degno successore. Uno che possa fare quello che la borghesia nel suo insieme deve sempre fare: bastonare il proletariato, perché se alza la testa son problemi per tutti, non solo per i padroni turchi.


Questi i punti di forza di Erdoğan. Ma quelli dell’opposizione? Li abbiamo visti: la potenza di queste mobilitazioni è stata data proprio dalla saldatura fra un largo malessere sociale, ora si può capire perché così diffuso, con militanti della sinistra – pochi ma combattivi, formati nel corso delle lotte degli ultimi dieci anni – e con larghe fette di popolazione fedele agli ideali del kemalismo e preoccupata dal rafforzamento dell’islamismo (appunto perché storicamente in Turchia la questione del laicismo è una linea di frattura politica e forte, non solo ideologica, ma materiale).


In questo senso la presenza negli scontri degli ultras del Fenerbahce, del Besikitas e del Galatasaray, per restare alla sola Istanbul, è estremamente emblematica, perché questi ultras si situano proprio su quel crinale del lavoro/non-lavoro di ampie fette di proletariato metropolitano, hanno al loro interno attivisti politici e sindacali, e riescono a portare in piazza una certa consapevolezza tattica nello scontro con le forze dell’ordine. È qualcosa che abbiamo visto anche in Egitto e che, al di là della confusione politica iniziale (si pensi alla tifoseria “anarchica” del Carsi che brandisce bandiere di Ataturk), può in prospettiva essere estremamente produttiva. Anche perché, come l’Egitto, la Turchia è un paese giovane: la fascia più attiva della popolazione, quella fra i 18 e i 40 anni, è composta da ben 20 milioni di persone!


Ovviamente a patto che fallisca l’opzione di “recupero” del movimento da parte degli altri due partiti centrali nella vita turca: il centrosinistra laico del CHP e la destra dell’MHP. Come molti giovani, lavoratori e oppositori di Erdoğan sono scesi in piazza stufi della sua gestione della cosa pubblica, e vogliosi di rivendicare per loro spazi di decisione e parte di quella ricchezza ormai messa in circolo negli ultimi dieci anni, così questi due partiti che dietro hanno capitalisti esclusi dalla gestione di importanti appalti, cavalcano le proteste per cercare di rientrare in posizioni di potere27.

Il CHP per esempio sa che Erdoğan non è ben visto dai capitali europei, perché queste frazioni della borghesia internazionale temono la presenza di ingenti capitali “orientali” così vicino all’Europa, e non sono contente del fatto che il suo Governo abbia favorito nelle ultime privatizzazioni proprio i fondi provenienti dall’Est. D’altronde, se si leggono gli editoriali inglesi e tedeschi che hanno dato la linea a tutta l’Europa, si vede facilmente come le proteste non siano state viste male da certi gruppi del continente28. Il CHP lo sa, e per questo punta a un generale riequilibro dei poteri, constatando che nel suo complesso l’opposizione rappresenta comunque oltre il 40% del Parlamento, e che si potrebbe arrivare presto a nuove elezioni, che nell’immediato ridimensionerebbero il leader islamico. Se le proteste nelle piazze dovessero poi continuare, lo scenario per quest’opposizione sarebbe perfetto: si potrebbe puntare addirittura a una sorta di governo “tecnico” o di “unità nazionale” per superare la crisi e andare a rinegoziare gli interessi delle differenti frazioni borghesi.


Il rischio che la mobilitazione dei settori popolari venga recuperata da soggetti conservatori, che in sostanza propongono il classico “si stava meglio quando si stava peggio” è certamente esistente e non deve affatto sorprenderci: in fondo una protesta così scomposta ed eterogenea è facilmente manovrabile. In un contesto in cui le organizzazioni e le rappresentanze di classe sono così frammentate non può darsi a vedere alcun Proletariato in marcia verso la Rivoluzione… Anzi, com’è “ovvio” che sia, i lavoratori dipendenti, gli operai, gli abitanti dei distretti produttivi, alcuni gruppi tagliati fuori dallo sviluppo sono sì antagonisti al Governo, ma perché sperano innanzitutto che un qualsiasi cambiamento politico migliori anche le loro condizioni, li faccia partecipare della crescita economica, gli conceda una sorta di “ascensore sociale” che in questo momento per questi gruppi sembra non funzionare.

Il resto del “nostro” blocco sociale è poi formato dalle minoranze armene e curde che in questo momento hanno un’effettiva difficoltà a intervenire. Soprattutto i curdi sono impegnati con la complessa fase di transizione e di “soluzione democratica” di un conflitto secolare e, per quanto abbiano pure partecipato in massa alle proteste e persino lanciato qualche piccolo attacco in Kurdistan, sanno che se si gettassero nel conflitto con il loro peso militare non farebbero che rinforzare le tendenze nazionaliste e persino bloccare l’evolversi della protesta. D’altra parte i curdi, che in decenni di lotta hanno accumulato una certa esperienza dei “tempi” della rivolta e delle loro sconfitte, sanno che questo tipo di proteste possono dileguarsi anche velocemente, e pondereranno bene prima di intervenire negli “affari interni turchi” mettendo a rischio il loro percorso indipendentista.

   

Ma se l’analisi condotta nelle precedenti pagine è corretta, è difficile che Erdoğan se la possa cavare nel medio periodo solo con il manganello e le blande aperture di facciata. Le contraddizioni della società turca non saranno certo sciolte con qualche rimpasto di governo, e la situazione resta precaria, anche senza attendere che un calo degli investimenti esteri metta di nuovo in crisi l’economia, o che faccia risalire il debito pubblico e la disoccupazione. È proprio la situazione sociale a essere già ora tanto grave da meritare un altri tipo di approccio: e in questo senso è più probabile che se il Governo vuole vincere le prossime consultazioni, dovrà dividere il fronte della protesta concedendo qualcosa in termini salariali, alleviando qualche situazione di particolare disagio, mettendo in cantiere qualche misura popolare.


Qui ci fermiamo con le speculazioni, perché per poter prevedere cosa succederà, bisognerebbe quantomeno essere lì: sapere cosa si sta muovendo in ogni situazione lavorativa, se in questi giorni di protesta si sono create relazioni fra lavoratori, strutture informali di relazioni sindacali (come accaduto in Egitto proprio durante la sollevazione). Tutto questo non siamo riusciti a saperlo, forse nel marasma di questi giorni è anche difficile saperlo.  E ovviamente speriamo che questo diventi un terreno di ragionamento fra compagni, che su questo punto si possano raccogliere materiali e condividere dibattito.

 

Di certo però sappiamo quello che possiamo sperare per i compagni turchi. Che riescano a prendere il potere in questo contesto è davvero impossibile, dato l’assetto della controparte e il grado di frammentazione delle forze di classe (in questo senso basta vedere l’evoluzione della situazione nella Tunisia o nell’Egitto post-rivoluzionari, in cui l’elemento organizzativo è stato centrale). Ma possiamo sperare che spingano al massimo la mobilitazione per trovare quel punto di rottura politico che ne accrediti il ruolo presso larghi strati della popolazione. E possiamo anche sperare che questa rivolta sia il momento germinale di nuove forme di organizzazione di classe, o anche solo del rafforzamento (cioè aggregazione) e del coordinamento (cioè maggiore unità) di quelle già esistenti. Solo a queste condizioni ci potranno essere evoluzioni importanti nel medio periodo.



5. Cosa c’entra la Turchia con noi? Alcune conclusioni

Detto questo, è tempo di venire a noi. Non possiamo infatti limitarci a guardare le cose dall’esterno e metterci a tifare i compagni turchi perché tengano la piazza o facciano il “lavoro sporco” per noi. Esaltarci su social network per i sacrifici altrui non ci porterà lontano. Né ci porterà lontano la generosità dei presidi di solidarietà, che pur irrinunciabili, spesso si riducono a mera testimonianza. Bisogna invece essere pazienti e dirsi che la prima cosa che c’è da fare è imparare. Imparare, cioè mettersi a capire quale storia abbiamo in comune con il popolo turco, quali sono le possibili connessioni fra quello che vivono i turchi e quello che viviamo noi ogni giorno, e come trasferire qui Piazza Taksim. Solo a queste condizioni è possibile agire efficacemente, non deprimersi se la rivolta sarà schiacciata, e soprattutto evitare di abbandonarla quando “naturalmente” la Turchia scomparirà dai media.


Il primo punto è allora capire che la Turchia non è un paese distante o arretrato, ma che, al contrario, nella Turchia possiamo leggere la storia del nostro futuro.
Tutte le riforme che il paese ha implementato dal 2002 in poi sono quelle che prima Monti e poi Letta hanno realizzato o stanno provando a realizzare qui. Si è concretizzato quello che propongono da noi: in quest’ottica capire il caso turco, e vedere quanta miseria abbia prodotto, ci serve per mettere direttamente in discussione, e con più forza, le misure che il nostro Governo ci propone.

Volete un esempio? Pensiamo a come funzionano i licenziamenti in Turchia: un po’ di preavviso, un’indennità di qualche mensilità calcolata in base all’anzianità, e poi via. È esattamente quello di cui parlavano i nostri padroni quando spingevano per cancellare l’articolo 18, o quello di cui parlano le agenzie internazionali quando “suggeriscono” ai nostri governanti di “agevolare la flessibilità in uscita”!

E ancora, pensiamo al sistema di contrattazione fra imprese e lavoratori: non esiste in Turchia un vero e proprio sistema di contrattazione collettiva nazionale. La contrattazione avviene solo a livello aziendale e non a livello di settore. Questo vuol dire che i lavoratori sono più ricattabili perché sono di meno a trattare, che sono più divisi fra di loro perché si creano contratti e salari diversi azienda per azienda e quindi che non riescono a strappare accordi migliori. È esattamente quello a cui puntano da anni i padroni italiani, Marchionne in primis, quando cercano di spostare sul secondo livello, aziendale e territoriale, tutto il rapporto fra capitale e lavoro.

Potremmo continuare, ma ci concediamo solo un’ultima analogia. In queste settimane avrete sentito parlare dell’accordo sulla rappresentanza, sottoscritto da Confindustria e da tutti i sindacati confederali, il cui scopo è quello di “blindare” l’accettazione degli accordi, limitando la loro discussione ai soli firmatari di contatto, e impedendo così che prendano spazio i sindacati di base o nuove forme di autorganizzazione dei lavoratori. Ora, indovinate cosa è successo un anno fa in Turchia? Il Parlamento ha cominciato a discutere una proposta di legge che concede il diritto di accedere al tavolo delle trattative solo ai sindacati che superano una soglia di rappresentanza del 3%, calcolata sul totale dei lavoratori di quel settore. Se a questo aggiungiamo che il Governo sta rivedendo al ribasso le statistiche sui lavoratori sindacalizzati, sembra che appena 20 delle 51 organizzazioni sindacali attuali potrebbero mantenere il proprio status negoziale. È esattamente quello che potrebbe succedere fra poco in Italia, visto che da noi la soglia è stata fissata anche più in alto, al 5%…


In secondo luogo, il caso turco ci serve per mettere in questione tutti gli assunti sia degli economisti di destra che di sinistra, sia di quelli che chiedono più crescita, sia di quelli che vogliono l’austerity.
E persino di essere critici con alcune formulazioni della sinistra, anche radicale e di movimento, italiana. La Turchia infatti ci dimostra che non ha alcun senso l’opposizione fra crescita e austerity, se non si spiega preliminarmente “crescita per chi e come”. Infatti la Turchia ha avuto sia la crescita che l’austerity, lì si è realizzato quello che oggi chiede il Presidente di Confindustria Squinzi quando, sembrando intercettare il desiderio dei giovani e di larghe fette di popolazione, afferma che ci serve più “lavoro”… non dicendo però (o dicendo in altre sedi) a che prezzo, con che contratti, con che salari. Squinzi è criminalmente seguito dalla CGIL e dagli altri sindacati confederali, e stupidamente anche da alcuni compagni che parlano di “rilanciare l’economia del paese”, senza manco accennare che in un modo di produzione capitalista la crescita è sempre crescita dello sfruttamento, e che non esiste nessun “paese” in comune fra “noi”, che attraverso il lavoro e la fatica produciamo la ricchezza, e “loro”, che se ne appropriano e pensano solo ai profitti.

 
In terzo luogo, il caso turco ci permette di capire come funziona un’economia globalizzata e quali sono i legami materiali e niente affatto retorici fra i lavoratori di tutto il mondo. Facciamo un esempio, pescandolo proprio dalla cronaca di questi giorni. A Fabriano e a Teverola, in provincia di Caserta, la storica fabbrica INDESIT vuole chiudere, licenziare gli operai e trasferire la produzione… sapete dove? O in Polonia o in Turchia. E sapete perché? Perché in entrambi i paesi ci sono queste maledette Zone Economiche Speciali, in cui il livello dello sfruttamento del lavoro è vertiginoso. D’altronde, finché il capitale si può spostare dove la sua valorizzazione è più redditizia (e gran parte della sua valorizzazione dipende dal costo del lavoro vivo!), perché non dovrebbe farlo?29 L’unica cosa che può impedirlo è che i disordini in Turchia continuino, e i padroni dell’INDESIT debbano rifarsi i calcoli e mantenere la produzione in Italia! E questo ci porta a una conclusione finale.


Le proteste turche, a ennesima dimostrazione che non siamo di fronte alle convulsioni di un paese povero e in crisi, hanno assunto una forma molto simile a quelle che si verificano nei paesi a capitalismo avanzato. Una forma spontanea, mista, molto lontana dalle grandi mobilitazioni pianificate e organizzate di venti anni fa. Se i compagni che vi sono dentro riusciranno a evitare il doppio rischio della sconfitta per mano di Erdoğan e del recupero per mano del CHP, e riusciranno a costruire un fronte progressista, che si radichi nei gangli della vita sociale, avranno segnato un punto importantissimo anche per noi.


In altri termini, se questa rivolta dovesse avere, com’è stato in Tunisia e in Egitto, una ricaduta sui posti di lavoro, se gli operai riusciranno a strappare ad esempio salari più alti e migliori diritti, allora i capitali avranno più difficoltà a spostarsi, più difficoltà a delocalizzare le fabbriche e dunque ad avviare processi di competizione al ribasso fra gli operai europei. È lo stesso motivo per cui ai lavoratori turchi “conviene” che noi continuiamo a lottare per tenere i salari italiani più alti dei loro, perché così possono chiedere di più… 


In questo senso si può ben dire che la lotta dei turchi è la nostra lotta, e la nostra lotta è la lotta dei turchi.
E possiamo affermare lo stesso per quello che accade in Polonia, in Egitto o in Cina: noi ci avvantaggiamo di tutto quello che succede di buono ai proletari di tutti i paesi. Non è un caso che gli eventi turchi sono stati capiti e sostenuti proprio in quei paesi che hanno conosciuto forti mobilitazioni rivoluzionarie – pensiamo ai comunicati di solidarietà con la rivolta turca che hanno lanciato i sindacati indipendenti egiziani30. Ogni avanzamento del proletariato, in qualsiasi parte del mondo avvenga, è direttamente un rallentamento dell’attacco che arriva a noi, perché la leva della competizione e della concorrenza fra forza-lavoro, che è il primo strumento del capitale per dominarci, viene disarticolata.

E questo dimostra nei fatti il valore, ancora più necessario oggi, dell’internazionalismo.

 



note
1. Solo qualche giorno fa abbiamo scoperto che in quest’interessante articolo, Istanbul Uprising, di Ali Bektas, dell’importante rivista “Counterpunch”, uscito il 5 giugno, cioè due giorni dopo il nostro post, si affermava sostanzialmente la nostra stessa tesi: “Senza dubbio Istanbul non può essere messa insieme con Atene, Barcellona, Lisbona o New York. Quello che sta accadendo in Turchia è il rovescio della medaglia anti-capitalista. È una rivolta contro lo sviluppo. È una battaglia di strada per avere città che appartengano al popolo e non al capitale. È una resistenza contro un regime autoritario rafforzato da un boom economico. Quello che vediamo fiorire nelle strade di Istanbul è una convergenza fra la piccola ma crescente sinistra anti-autoritaria turca, che ha organizzato varie campagne socialmente rilevanti negli anni passati, e una larga sezione della popolazione urbana fedele agli ideali kemalisti di modernismo, secolarizzazione e nazionalismo”. http://www.counterpunch.org/2013/06/05/istanbul-uprising/

2. K. Marx in Per la critica dell’economia politica.

3. I dati che utilizzeremo sono forniti dalle maggiori agenzie internazionali: da FMI, Banca Mondiale, OCSE, EUROSTAT, TURKSTAT e dall’ISPAT (Investement Support and Promotion Agency of Turkey), un’importante agenzia di diretta emanazione del Governo, che serve a promuovere il paese presso i capitalisti internazionali: è impressionante come siano gli stessi governanti turchi ad ammettere candidamente lo sfruttamento della forza lavoro, l’abbassamento dei salari etc.

Per un colpo d’occhio sulla Turchia, rinviamo a una scheda statistica elaborata dall’OCSE.

Per più info sui rapporti fra l’Italia e la Turchia si veda invece l’opuscolo Turchia, paese emergente dalle grandi prospettive, a cura dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e la Nota congiunturale dell’aprile 2011 a cura dell’Istituto nazionale per il commercio estero

4. Per uno studio della Turchia di quegli anni segnaliamo quello effettuato dalla Camera del Commercio di Brindisi, Analisi del mercato estero, Ottobre 2007.

5. Giusto per dare un’idea, vuol dire che se una merce in Turchia il primo gennaio 2001 costava 100€, dopo solo un anno ne costava 168,5€!

6. Si veda G. Colombo, L’economia turca, il FMI e la UE: un triangolo virtuoso?, su ISPI Policy Brief, n. 11, settembre 2004.

7. Fra l’altro questo punto è importante perché parte del boom turco degli anni successivi passerà anche per gli approvvigionamenti militari e per i miliardi riversati dagli USA in Turchia a questo scopo. Non è un caso se alla fine di questo processo si produrrà persino un’espansione del capitale turco: nel Nord dell’Iraq rappresenta infatti la quota maggiore di capitale.

8. Da questo punto di vista la Turchia è prima in Europa. I morti censiti sono, nel 2009, ben 3 al giorno, ma calcolati su una platea di soli 9 milioni di lavoratori iscritti all’SGK (l’istituto analogo al nostro INAIL), mentre i lavoratori attivi nello stesso periodo sono quasi 23 milioni, il che presumibilmente porta le morti sul lavoro a 6-7 al giorno! In ogni caso, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 2009 il Paese era all’80esimo posto nel mondo per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro. Cfr. C. Spinella, Morti bianche, l’altra faccia del boom turco. A Istanbul 11 operai morti in un incendio, del 14 Marzo 2012.

9. L‘economista turco Emre Deliveli sostiene a questo proposito che “il successo turco è stato costruito sul mettere a posto le banche”: cfr. Why Turkey is Not Thriving, su Hurriet Daily News, 31 maggio 2013
10. Nel gennaio 2005 entra poi in vigore la nuova Lira turca, che vuole segnare anche simbolicamente una discontinuità con un passato di altissima inflazione.

11. Perplessità provengono anche dal Financial Times, e sono riportate in questo articolo di A. Tetta, Economia turca: quando la tigre abbaia, su Osservatorio Balcani e Caucaso, 13 agosto 2012.

12. “All’inizio del processo di privatizzazione, lo Stato deteneva quote di maggioranza in 250 imprese, 105 impianti produttivi, 524 proprietà immobiliari, 8 autostrade, 2 ponti e 6 porti marittimi. A fine 2009 erano state privatizzate 199 imprese ed in 188 la presenza dello Stato era del tutto scomparsa”, cfr. Istituto nazionale per il commercio estero. Nota congiunturale, aprile 2011.

13. Secondo uno studio condotto dal sindacato DISK, in Turchia ben il 49% dei ragazzi tra i sette e i quindici anni è impegnato in attività lavorative.

14. Cfr. il report dell’OCSE, Growing risk of inequality and poverty as crisis hits the poor hardest, del 15 maggio 2013 http://www.oecd.org/social/growing-risk-of-inequality-and-poverty-as-crisis-hits-the-poor-hardest-says-oecd.htm
15.
Cfr. ancora A. Tetta, Economia turca: quando la tigre abbaia, cit.

16. Giovani che non sono né in un percorso di formazione né in un percorso lavorativo: secondo l’OCSE nel 2010 il 43,7% della popolazione fra i 20 e i 24 anni non lavorava né studiava, anche se questi dati sono attendibili solo in parte, vista la cospicua presenza di economia sommersa.

17. Cfr. Vittorio Da Rold, La Turchia divisa anche sull’FMI, 18 luglio 2007.
18. Si veda l’articolo della European Trade Union Confederation (in italiano CES), I sindacati turchi e le relazioni industriali, aprile 2010.

19. Elaborata dall’agenzia di Global Intelligence Stratfor, 2 giugno 2013 .

20. Si vedano ancora i dati raccolti in I sindacati turchi e le relazioni industriali, cit.

21. Qui maggiori info sulla vertenza: S. Savran, The Tekel Strike in Turkey. The “Sakarya Commune” Wins the First Round!, su Global Research, 16 marzo 2010.

22. T., Linking Theories of Framing and Collective Identity Formation: Women’s Organizations’ Involvement with the Supramed Strike, su European Journal of Turkish Studies, novembre 2010.

23. Cfr. C. Spinella, Divieto di sciopero in Turchia. Una legge impedisce le proteste nel settore aeroportuale, 29 Giugno 2012.

24. Non lavoreremo per un piatto di lenticchie! Lotta e organizzazione nelle Zone Economiche Speciali (Polonia), su clashcityworkers.org, 24 Maggio 2013.

25. A questo proposito si veda l’ottimo numero del novembre 2010 dell’“European Journal of Turkish Studies” in cui si parla del movimento dei lavoratori turco, delle politiche neoliberiste di Erdoğan, del rapporto con l’Unione Europea.

26. Così almeno sembrano testimoniare le inchieste, interviste ed analisi empiriche raccolte da Elif Uzgören, ricercatore turco del Dipartimento di relazioni internazionali della Dokuz Eylul University. Cfr. Il suo articolo del 5 ottobre 2012, Labour Struggle in a Peripheral Context: Debating Labour and Alternatives to Globalisation in Turkey, su andreasbieler.blogspot.it

27. In questo senso i discorsi di Erdoğan sul nesso proteste/economica/destabilizzazione dall’esterno, pur rappresentando una becera speculazione politica volta a presentare i manifestanti come “estremisti nemici della patria”, non sono completamente campati in aria. Peraltro Erdoğan riconosce esplicitamente che il vero punto che pongono le proteste non è certo la difesa degli alberi, ma il modello economico turco…

28. D’altra parte non possiamo essere certi che i forti cali della Borsa di Istanbul della settimana scorsa, corredati da sospensioni e rinvii per motivi tecnici, indichino che i capitali internazionali abbiano deciso di scaricare Erdoğan. Questo perché gli investitori lavorano sempre prevedendo le cose, sganciandosi da prima, e non si “scoprono” se non sono innanzitutto certi che quello spazio è “bruciato” o non può essere occupato da nessuno. Insomma, non è da escludere che queste turbolenze sulla Borsa di Istanbul siano “normali” operazioni speculative nel breve, che vengano semmai “utilizzate” per rendere più mansueto un Governo che nel 2013, estinguendo il debito con l’FMI, potrebbe alzare troppo la testa.

29. Assumere questa prospettiva ci fa anche capire quante scemenze si siano dette in questi anni sulla “scomparsa della classe operaia”: in realtà è il capitale a spostarsi dove è più conveniente. Basta che si diano le giuste condizioni di profittabilità (come successo in Germania o negli USA negli ultimi anni, che non sono certo paesi del “terzo mondo”) ed ecco che il manifatturiero riparte, le fabbriche riaprono, se ne aprono pure di nuove. Per avere questo “miracolo” basta “solo” aumentare il tasso di sfruttamento, e dare incentivi e vantaggi di tutti i tipi alle imprese. Come dire, alle condizioni di Squinzi e Marchionne possiamo avere tutto il lavoro che vogliamo!

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Implosione turca

Luigi Vinci

 

Che accade in Turchia? Il governo di Erdoğan, capo carismatico del partito islamico-moderato AKP, forte di quasi la metà dei suffragi e della maggioranza assoluta nella Grande Assemblea Nazionale (il parlamento), vacilla, sotto l’urto di una rivolta giovanile che sta scuotendo le città della Turchia, i media dicono ben novanta, insomma tutte, e che appare motivato da molto di più del casus belli, l’improvvida e decisione dell’amministrazione di Istanbul, in mano essa pure all’AKP, di tirar giù gli alberi di piazza Taksim, la piazza centrale della parte europea (quindi storica) della città e luogo tradizionale di incontri, manifestazioni, pellegrinaggi turistici, a ridosso del grande bazar, per metterci un centro commerciale e una moschea (interessante connubio!: la dice tutta sull’AKP, il cui moderatismo è in realtà sinonimo di liberismo).

 

La comprensione degli eventi richiede, a me pare, di menzionare qualcosa del retaggio storico-culturale e storico-politico della Turchia. L’Impero Ottomano, centro civile prima potenza a lungo del Mediterraneo, decade via via che il centro dei traffici mondiali si sposta sull’Atlantico, a seguito della scoperta delle Americhe, e con esso si sposta verso Occidente il centro dell’economia, delle scienze, della tecnologia, della forza militare, ecc. La decadenza significa anche la conservazione della forma di governo (il califfato: una fusione integrale di potere politico e potere religioso in mano a un monarca), la corruzione della monarchia, una crescente debolezza militare rispetto ai più sviluppati, moderni e aggressivi paesi europei. Nel quadro dell’espansione territoriale-coloniale (nel caso della Russia) o semplicemente coloniale (Inghilterra, Francia, anche Italia, più tardi), l’Impero Ottomano diventa oggetto di aggressioni, perde territori. Ciò inoltre sinergizza, nel quadro della tendenza europea alla formazione di stati nazionali, con la rivolta delle popolazioni balcaniche e di una parte di quelle stesse medio-orientali, dagli armeni ai curdi agli arabi. Par farla breve, si arriva alla prima guerra mondiale, nella quale l’Impero Ottomano, succursalizzato economicamente dalla Federazione Germanica, ne è alleato, e conseguentemente soccombe. La sconfitta si trascina la perdita di gran parte dei territori. Anzi parte di quelli stessi che costituiscono l’attuale Repubblica di Turchia sono oggetto di tentativi di separazione (sui versanti armeno e curdo) o coloniali (da parte di Francia e Italia) o di accorpamento alla Grecia (l’area attorno a Smirne, gran parte della Tracia Istanbul esclusa). Che cosa impedisce che la Turchia, sostanzialmente, scompaia: il movimento dei Giovani Turchi, e cioè un movimento politico nazionalista, laico e modernizzante, molto radicato nella gioventù urbana istruita e negli ufficiali, soprattutto quelli giovani e con ruoli intermedi, formati nelle scuole militari, che, assunto il controllo delle forze armate e messa sotto controllo la monarchia, attraverso combattimenti feroci e tragedie etniche che non è qui il caso di esaminare (massacri di turchi da parte greca, massacri di greci, armeni e assiro-caldei da parte turca), contrattacca a guerra terminata le potenze occupanti, le sconfigge (la Grecia) o le obbliga a sgomberare (la Francia e l’Italia), abolisce il califfato, proclama la repubblica, nomina Presidente a vita il capo militare ed eroe di guerra Mustafa Kemal, che assumerà il cognome di Atatürk (“Padre dei turchi”). Segue un periodo, con pesante mano autoritaria, di un complesso vastissimo di riforme grandi e minori: la radicale separazione dello stato dalle istituzioni religiose e la loro riduzione a realtà privata, l’adozione dei cognomi, l’abolizione di obblighi religiosi tradizionali come il fez e il turbante degli uomini e il velo e il turban (il velo sui capelli) delle donne, l’adozione degli abiti europei, la legalizzazione delle bevande alcoliche, il partito unico (CHP, “Repubblicano del popolo”), due sindacati e solo due (da una parte quello dei lavoratori del settore privato dell’economia, dall’altra quelli del settore pubblico), l’adozione dei codici europei (recuperando, fondamentalmente, dal lato svizzero il codice civile e da quello italiano il codice penale), l’esclusione dalla lingua dei prestiti dal persiano e dall’arabo e l’adozione di neologismi in genere su base francese, il passaggio dall’alfabeto arabo a quello latino, ecc. L’esercito, inoltre, diventa tutore della laicità del paese, e, a questo fine, viene dotato del potere del più totale autogoverno. In poche parole, una straordinaria rivoluzione dall’alto; quando, nel 1938, Atatürk morrà, lascerà una Turchia completamente nuova. Non è un caso che essa oggi funga da modello istituzionale di una parte della popolazione urbana dei paesi arabi in rivolta contro monarchie arcaiche e ladre o cleptocrazie autoritarie finto-socialiste.

 

La ragione del grande prestigio in Turchia delle forze armate, per quanto ormai esse pure un apparato molto corrotto, fascisteggiante e razzista, al pari degli altri apparati dello stato, sta in questa storia. A nome della laicità dello stato, quindi contro la formazione di governi di partiti islamici, oppure a nome della lotta contro la corruzione di governo, o della lotta contro movimenti armati orientati a cambiamenti radicali dell’assetto dello stato (di estrema destra, di estrema sinistra, o curdi rivendicanti l’autonomia della parte di Turchia dove sono maggioranza), le forze armate sono state protagoniste di colpi di stato o di minacce di colpi di stato, di governi militari, anche di guerre decise di fatto autonomamente (contro la popolazione curda), disponendo dell’appoggio della larga maggioranza della popolazione turcofona, almeno fino a tempi recentissimi. Ma, attenzione! In realtà, come si intuisce, la rivoluzione kemalista e ciò che le è susseguito non sono riusciti a unificare culturalmente la Turchia. Questo è un lato decisivo della sua situazione ancor oggi: la Turchia è un paese scisso culturalmente in due, il suo versante laico e il suo versante islamico; e si tratta di una scissione profonda, che la rompe in due e molto pesantemente. Ed è anche una rottura sociale: da una parte c’è la popolazione colta delle città, c’è l’intera gioventù delle città e anche, ormai, parte di quella dei villaggi, ci sono gli apparati dello stato nella loro totalità e i media; dall’altra c’è la maggioranza della campagna e c’è buona parte della stessa classe operaia, quella più recente, non professionalizzata, essenzialmente fatta di ex contadini. Non è un caso che a fianco dei giovani di piazza Taksim si sia schierato, addirittura con la proclamazione dello sciopero generale, il sindacato dei lavoratori del settore pubblico, in genere impiegati, e non quello, effettivamente prepolitico, dei lavoratori del settore privato.

 

Erdoğan ha probabilmente fatto un grosso errore, non prendendo le distanze dalla municipalità di Istanbul e, anzi, sostanzialmente difendendo l’operato criminale della sua polizia, riserve minimaliste e di pura convenienza a parte. Vediamo. Piazza Taksim porta alla luce altri lati della complessa realtà politica, culturale e istituzionale turca. La brutalità della polizia non è una novità in Turchia: tra le difficoltà del processo di adesione della Turchia all’Unione Europea c’è stato a lungo, e indubbiamente tornerà ora a esserci, proprio questa realtà, fatta di torture, pestaggi, assalti a pacifiche manifestazioni (negli anni scorsi proprio in piazza Taksim la polizia si scatenava, con tanto di lacrimogeni altamente tossici sparati ad altezza d’uomo e cani lupo, contro manifestanti che celebravano il primo maggio o donne che celebravano l’otto marzo, “rei” e “ree” di non aver notificato l’intenzione di manifestare; per non parlare delle manifestazioni curde). Ed è la polizia turca nella sua virtuale interezza, inoltre, la responsabile primaria delle migliaia di desaparecidos curdi: sono essi vittime soprattutto sue, ben più che dei servizi o delle forze armate o dei collaborazionisti (i “Guardiani del villaggio”), fruendo automaticamente della copertura di una delle più infami magistrature del pianeta, quasi tutta al servizio del potere militare. In secondo luogo, l’atteggiamento di Erdoğan su piazza Taksim esprime lo zelo fondamentalista-reazionario e la propensione autoritaria dell’AKP, e di Erdoğan in modo particolare, cioè la sua abitudine ai modi spicci e a forzare le situazioni delicate. Ma Erdoğan non ha visto che anche la Turchia è diventata una polveriera culturale, soprattutto sul suo versante giovanile, in analogia, per un verso, al resto del Medio Oriente, per l’altro, all’Occidente europeo. Il grande e prolungato boom economico della Turchia sta avvenendo al prezzo di una disoccupazione o sottoccupazione o lavoro nero giovanili diffusissimi, e se questo può lì per lì bastare a ex contadini, certo non basta a ragazzi e ragazze delle città e istruiti. Il web e i suoi strumenti di comunicazione orizzontale e di organizzazione di iniziative funziona in Turchia come altrove nel mondo.

 

Di conseguenza, Erdoğan non ha intuito il rischio di riconsegnare l’iniziativa ai militari: ridimensionati dalla forza elettorale dell’AKP e dai processi ai generali organizzati in una sorta di Gladio golpista locale, Ergenekon, non meravigli se useranno gli eventi in corso, in un modo o nell’altro, in ogni caso intendendo ridimensionare la forza e l’indipendenza del governo dell’AKP. Non è un caso che le formazioni curde siano preoccupate: i militari sono ostili alla trattativa in corso, voluta dall’AKP, orientata a un compromesso che conceda ai curdi i diritti linguistici in cambio del loro via libera a una repubblica presidenziale e, in concreto, a Erdoğan futuro presidente plenipotenziario della Turchia. In ultimo, senz’altro Erdoğan non ha intuito che il suo comportamento avrebbe prodotto una frattura tra lui e il suo storico sodale, l’attuale Presidente della repubblica Gül, che ha solidarizzato con i manifestanti di piazza Taksim e affermato che il diritto di manifestare e di protestare pubblicamente è un inalienabile diritto democratico.

 

Qualcosa di grosso ha cominciato a rompersi in Turchia, in analogia, principalmente, al resto del Medio Oriente. Alle manifestazioni di piazza Taksim, riportano sempre i media, e riconosce Gül, prendono parte anche i giovani votanti per l’AKP. Il solco tra laicismo e fedeltà religiosa si sta rompendo in Turchia; sta iniziando, sulla base di un’intenzione democratica, la ricomposizione culturale di un paese scisso da un secolo. Sono processi che potranno incorrere in contrattacchi e subire battute d’arresto, ma che in genere risultano alla fine vincenti.

Milano, 4 giugno 2013

 

 

 

Non c’è solo la ferocia di polizia, in Turchia

Luigi Vinci

 

Ho osservato in un precedente articolo come la Turchia sia culturalmente scissa tra due anime, quella islamica e quella laica, e lo sia in modo profondo e, allo stato delle cose, difficilmente conciliabile. Appare oggi solo mediabile, seguendo le oscillazioni del rapporto di forze tra le rappresentanze fondamentali delle sue anime: quella, oggi, del partito islamico AKP e quella, storica, autoritaria dei militari, del grosso della magistratura, a partire dalla Corte Costituzionale, e del grosso dei quadri della burocrazia statale, dei governatori locali, ecc. Sul versante laico non ci sono però solo militari, magistratura, ecc.: in posizione completamente smarcata, rappresentando una tendenza che vorrebbe il passaggio a un’effettiva democrazia parlamentare (oggi ce ne stanno solo il simulacro, la vernice, la chiacchiera pubblica, la propaganda verso l’Europa, come i fatti di piazza Taksim mettono in tutta evidenza), è anche quel tanto di società civile semisviluppata (esiste solo nelle città): i media (pavidi e opportunisti, certo: ma più liberi, paradossalmente, che in Italia), le (potenti) associazioni per i diritti umani, la confindustria locale, il tessuto scolastico pubblico, la Corte di Cassazione (un’autentica perla nel porcile giudiziario: è una sorta di tritacarne di condanne barbariche), il partito curdo legale BDP. In posizione intermedia dentro alla vasta area laica, infine, è il partito kemalista storico CHP, oggi dentro all’Internazionale Socialista, il secondo oggi elettoralmente del paese: dalle oscillazioni davvero impressionanti, fino a tempi recenti semifascista, violentemente sciovinista e anticurdo, ora aperto più di AKP alle richieste curde. In un rigurgito di dignità si è persino esposto, dopo essere stato per un po’ a guardare, sentendo odore di voti, alle richieste dei ragazzi di piazza Taksim.

 

Se si guarda, pur all’ingrosso, all’antropologia culturale dei poteri turchi, c’è però da aggiungere un’altra cosa, altrettanto importante: che essi tendono pressoché tutti a essere qualcosa che somiglia molto al fascismo. E’ un qualcosa, dunque, che prescinde dalle forme politico-istituzionali, perché in un certo senso viene prima, affonda nella storia turca e non è mai stato rettificato da niente dei sui accadimenti e delle sue crisi. Solo così si spiegano le reazioni brutali del premier Erdoğan dinanzi ai manifestanti di piazza Taksim; solo così si spiegano i suoi discorsi dementi su come la reazione di migliaia di ragazzi alla devastazione di piazza Taksim, a nome dei devastanti interessi imprenditoriali del cognato (davvero tutto il mondo è paese!), in una città ambientalmente e sanitariamente tra le più devastate al mondo come Istanbul, sia in realtà espressione di un complotto internazionale contro la Turchia; solo così si spiega la ferocia assassina della polizia turca. Quest’ultima è davvero la vetrina del rapporto sostanziale tra poteri turchi e popolo, o meglio popoli, della Turchia. Come quando, davanti al televisore, vediamo che la nazionale italiana va a rete, saltiamo in piedi urlando, così è automatico che la polizia turca spari lacrimogeni ad altezza d’uomo, manganelli tutti, scateni i cani lupo, se del caso, come è avvenuto fino a ieri nel sud-est curdo, apra il fuoco. E’ automatico che il magistrato di turno ordini l’arresto dei giornalisti che narrano la barbarie poliziesca. C’è anche una figura di reato, involontariamente autoironica, a disposizione: l’“offesa all’identità turca”. Ed è automatico che il premier dica idiozie fascistoidi e cerchi di mobilitare seguaci e, se ci riesce, opinione pubblica contro gli eterni onnipresenti nemici di quest’“identità”, o dell’integrità territoriale stessa della Turchia, o della sua ascesa economica e politica nel mondo. Fu automatico che, quando andavo in Turchia, il ridicolo ministro di giustizia di allora del governo AKP, tale Čiček (in turco čiček, a far ridere ancora di più, significa fiore), ogni giorno ruggisse minacce contro gli eversori curdi, i loro avvocati e i loro complici europei: in ossequio alle richieste della Corte di Strasburgo che in Turchia i processi politici fossero equi e il potere politico ne tenesse conto.

 

Detto altrimenti, la furia selvaggia della polizia turca è solo la fotografia di quello che in Turchia è sotto il tappeto: la violenza sistematica e feroce contro ogni cosa che infastidisca i suoi poteri autoritari. E, se è vero che il partito AKP non è assimilabile al potere militare, anzi è in conflitto ora strisciante ora palese con esso, poiché si pone come potere sostitutivo, né è ossessionato dall’obiettivo dell’omologazione linguistica della Turchia come mezzo di resistenza all’immaginario stato d’assedio in cui sarebbe tuttora questo paese, sulla scia degli eventi effettivi che smembrarono, tra fine Ottocento e primo Novecento, l’Impero Ottomano; se è vero tutto questo, è anche vero che tuttavia il partito AKP è un potere turco totalmente in tinta autoritaria con la storia mai interrotta dei vari poteri turchi.

 

Ricordo qui, per dare un po’ di sostanza visiva, a questo ragionamento, qualcosa delle mie esperienze di parlamentare europeo in Turchia, delegato dal Parlamento Europeo a tentare di far uscire di galera alcuni ex parlamentari curdi. Richiesi una riunione con gli ambasciatori dei paesi dell’Unione Europea ad Ankara per chiedere loro di agire di conseguenza sul governo turco (c’era da poco Erdoğan premier). Con mia sorpresa vennero tutti gli ambasciatori: e i racconti che fecero sui comportamenti della polizia turca facevano rabbrividire. Migliaia di persone scomparse nel sud-est curdo, attivisti politici, attivisti delle associazioni per i diritti umani, membri addirittura di minoranze religiose, come gli aleviti, pacifisti e democratici, fermati con un pretesto qualsiasi, rilasciati a tarda notte, prelevati dietro l’angolo del commissariato da agenti del commissariato, scomparsi. La gente fermata per violazioni del codice della strada sistematicamente picchiata. La gente arrestata per fatti politici o sindacali sistematicamente torturata negli interrogatori. La gente in carcere per motivi politici sistematicamente picchiata, torturata, messa in isolamento. Le donne fermate o arrestate sistematicamente violentate. Spesso anche i ragazzini. Gli ambasciatori di Svezia e d’Irlanda quasi piangevano parlando di queste cose. Naturalmente alle autorità europee, a parte le chiacchiere, non gli poteva importare di meno: con la Turchia gli affari economici europei prosperavano. La Turchia si era inoltre unta, per così dire, l’ufficio della Commissione Europea ad Ankara: i cui rapporti mensili a Bruxelles descrivevano la Turchia come qualcosa in marcia verso le condizioni del Lussemburgo. Unica eccezione, una ragazza italiana che mi diede una mano importante: e che quindi sarà licenziata.

 

Sono peggio i servi della polizia turca o i generali o i ministri loro padroni? Sono peggio i generali e i ministri turchi o i sepolcri imbiancati che governano l’Europa?

Milano, 16 giugno 2013

1 commento

  1. Percorrendo piazza Taksim, e le arterie ad essa collegate, si possono incontrare in questi giorni migliaia di manifestanti che bevono birra senza nascondersi; un dettaglio questo, solo in apparenza folkloristico: una delle scintille che ha spinto molte persone ad unirsi al movimento è stata la limitazione governativa imposta sul consumo di alcolici, cui si sono aggiunte le discriminazioni sessuali ed il divieto di scambiarsi effusioni in pubblico, e, più in generale, una visione polarizzata della società di stampo tradizionalista, probizionista ed anti-inclusivista. Bere birra e baciarsi in pubblico sono divenuti atti di resistenza ed espressione della richiesta di libertà di un intero popolo, in una relazione causale implicante il complesso e decisivo rapporto tra conseguimento del piacere, modalità di comunicazione e accesso alla società dei consumi che è alla base del modello liberale e di individualismo metodologico occidentale.

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