Intervista a Aminata D. Traoré, ex ministra e attivista africana sull’intervento francese in Mali e sulle vere cause della crisi
di Raffaella Chiodo Kaprinski
Aminata Traoré, ex ministra della Cultura del Mali, è oggi esponente della società civile maliana, attiva nella rete dei Forum Sociali Mondiali e promotrice di molti progetti con al centro due questioni focali: le donne e i migranti respinti. Ma la crisi e il conflitto che riguardano il Mali in questi giorni impone di cominciare dalla domanda che in molti nella società civile italiana si pongono.
Come viene vissuto dal popolo maliano l’intervento militare francese? Il popolo maliano lo ha accolto bene perché ha paura, ha paura degli islamisti e tutti sanno quello che è successo dal gennaio 2012 a oggi nelle regioni di Gao, Kidal e Timbuctu. Le popolazioni temevano l’avanzare degli islamisti e il nostro esercito non era in condizioni di fermarli. Quindi, a causa della rapidità dell’avanzata, la gente ha applaudito l’intervento. Ma in fondo è chiaro che quello che avremmo voluto tutti noi: un esercito maliano ben formato in grado di proteggerci, perché ora abbiamo a che fare con l’ex potenza coloniale. La nostra fierezza e la nostra dignità si sono affermate quando l’esercito francese ha lasciato il Mali alla fine dell’epoca coloniale. È stato allora che ci siamo sentiti decolonizzati e abbiamo riguadagnato la nostro orgoglio. Ma se l’esercito francese ritorna oggi per salvarci, personalmente non mi sento fiera. Inoltre sono certa che la soluzione militare non può risolvere il problema. Oggi soffro molto perché mi è difficile dover constatare che la comunità internazionale non ha sostenuto lo sforzo di instaurare un clima di pace, per uno sviluppo in maniera pacifica.
Nell’appello che avete lanciato nei mesi scorsi, avete messo in risalto le radici del conflitto e il legame stretto con le cause di impoverimento dell’Africa. Ci vuoi spiegare meglio? Oggi siamo tutti consapevoli che siamo di fronte alle conseguenze del fallimento dello sviluppo in ogni campo. Mi piacerebbe conoscere la situazione dell’Italia. Mi sto battendo contro le conseguenze degli aggiustamenti strutturali che sono l’indebitamento, la povertà, la disoccupazione, perché oggi gli islamisti reclutano molti giovani disoccupati, giovani senza speranza. Per questo motivo ritengo che la soluzione militare non sia la soluzione e che siamo in presenza di un fallimento deplorevole del modello di sviluppo neoliberale esportato nei nostri paesi.
Spesso ricordi che ci sono altri aspetti di questo conflitto. Quali? Come voi sapete, la guerra si svolge in una delle regioni del Mali più fragile dal punto di vista ecologico e questa regione è stata la sede di varie progetti di sviluppo. Ci tengo a sottolineare che l’Ocse aveva avviato una grande azione in tutto il Sahel per sviluppare la lotta contro la siccità e la desertificazione. Abbiamo avuto programmi in tal senso che non hanno portato a niente; abbiamo avuto programmi contro la povertà e la disoccupazione che non hanno risolto nulla; abbiamo avuto dei programmi di lotta contro l’emigrazione forzata dei giovani, e anche questi non hanno portato a niente. Dovete sapere che se una decina di salafiti arrivano con del denaro possono reclutare tutti i giovani disperati che incontrano, in un paese in cui la maggioranza della popolazione è disperata, non c’è lavoro, non è nemmeno più possibile emigrare, non c’è da mangiare; è così dunque che il movimento islamista prolifica. A causa di questi reclutamenti dei giovani maliani, c’è il rischio che l’esercito maliano vada a battersi contro altri maliani. Comunque la prima responsabilità di questa guerra, in cui gli islamisti sono responsabili di tutte le atrocità che accadono, va ricercata nella guerra in Libia. Il Mali oggi è un paese indebolito perché vittima collaterale dell’intervento dei paesi Nato in Libia. Tutti lo sanno. Quindi a partire da questo momento penso che non sia normale che una volta destabilizzato un paese – nel momento in cui Sarkozy e gli altri sono intervenuti in Libia – non abbiano tenuto conto degli effetti collaterali che avrebbero creato. Hanno creato problemi al Mali e ci siamo trovati a sostenere anche finanziariamente da soli quelle conseguenze, e a fare i conti sia la componente della sicurezza del paese che la sua tenuta politica. Noi stiamo subendo l’ingerenza della comunità internazionale che ci impone, insieme alle libere elezioni, ingerenze nelle dinamiche politiche interne. La comunità internazionale pretende che la democrazia sia la soluzione. Ma la domanda è: quale democrazia? Se guardo la crisi in Grecia, Spagna e Italia, mi chiedo: è un problema di democrazia? Di elezioni? O è un problema di sistema?
Quali sono secondo te le cause reali di questa crisi? In questo scenario le donne pagano un prezzo pesantissimo, a causa delle tante ingiustizie. C’è l’attitudine che consiste nell’imporre ai i paesi poveri di pagare le conseguenze della turpitudine dell’ingerenza dei paesi ricchi. Tutti sanno che dietro a tutto ciò c’è la volontà dei paesi ricchi di controllare le risorse naturali dell’Africa. Queste sono guerre di destabilizzazione e di posizionamento. Il Mali è nella zona d’influenza della Francia, la Francia ha bisogno militarmente di essere presente qui e oggi. Ci sono in gioco due fattori: l’islam radicale e la Cina. La Francia vuole inserirsi per controllare le risorse della regione. Questa per loro è la sola maniera di uscire dalla crisi. Questo accomuna il destino delle donne italiane e africane. I vostri dirigenti pensano di risolvere la propria crisi attraverso il controllo delle risorse naturali dell’Africa con la guerra. La domanda che dobbiamo farci è se vogliamo un mondo basato sulla giustizia, l’uguaglianza e la solidarietà o un mondo dove quelli che hanno più potere impongono la guerra ai più poveri.
Qual è la situazione oggi in Mali? Oggi in Mali c’è lo stato di emergenza. Circolano poche notizie, poche immagini, c’è poca informazione, tutto è sotto il controllo francese. Le comunicazioni telefoniche con il Nord sono interrotte. Non ci sono immagini sulle conseguenze dei bombardamenti. Quello che mi preoccupa è che le popolazioni del Nord soffrano una carestia. Penso alla regione di Kidal, dove i viveri e i beni di prima necessità vengono dall’Algeria e oggi le frontiere sono chiuse. Non so come le popolazioni del Nord accedano ai viveri. L’esercito francese controlla tutto. Io sono informata via web o con canali satellitari, come voi, perché l’informazione passa attraverso i canali francesi. È difficile raggiungere le persone del Nord, non c’è comunicazione, penso alle donne in gravidanza, ai bambini malati, ai farmaci che non arrivano. Sono molto preoccupata. Quello che temo oggi è che le popolazioni si attacchino reciprocamente. Sappiamo che le persone che sono state vicino agli islamisti subiscono già dei regolamenti di conti. Tutto ciò è molto preoccupante. Penso ai tuareg che non sono stati con i cosiddetti ribelli e che rischiano di venire attaccati. Temo che la crisi si sviluppi su base etnica. Come dicevo prima, sono tutte le conseguenze della guerra in Libia. La risoluzione dell’Onu di dicembre vedeva la necessità di formare i militari maliani. E una delle soluzioni dell’esercito francese sarebbe stata quella di arginare l’avanzata dell’esercito degli islamisti formando quello maliano. I militari maliani non sono attrezzati per affrontare le regioni del Nord. È importante evitare la guerra e formare i militari per garantire la sicurezza territoriale. Adesso ci sarà il problema della fame, della sete, dei rifugiati, degli sfollati. Bisognerà gestire la crisi umanitaria e il rischio di una catena di odio tra maliani. Ora dobbiamo gestire le conseguenze della guerra e non più i problemi dello sviluppo.
Come si muove in questo quadro la società civile maliana? Non posso parlare a nome di tutta la società civile. Sapete che la società civile è divisa. Conoscete già il lavoro che ho fatto per sostenere le donne affinché diventassero protagoniste e cittadine per intero ed essere coscenti della questione macroeconomica. In passato abbiamo cercato di elevare il dibattito politico sviluppando una coscienza sociale e politica diffusa nel nostro paese. La domanda principale ora è di aiutare le popolazioni a trovare le alternative alla guerra. Ancora una volta le alternative sono economiche. Oggi mi sforzo di dimostrare che anche se il Mali non ha aerei da guerra e bombardieri, ha però altre risorse che sono molto più importanti. Sono quelle sociali, morali, psicologiche e non materiali. Oggi dobbiamo riarmarci moralmente, per non farci mettere in ginocchio fino alla fine dei nostri giorni per dire grazie alla Francia.
Traduzione e collaborazione di Patrizia Salierno e Augusta Angelucci. Il manifesto, 6/2/2013