E poi dicono che uno diventa pessimista. All’avvicinarsi delle elezioni, l’idea per la sinistra radicale di saltare un giro era apparsa un po’ provocatoria anche a chi l’aveva formulata. Tanto che è stata messa da parte appena s’è affacciata la possibilità di attraversare queste brutte elezioni con un’innovazione promettente a sinistra, fuori dal recinto e con la volontà di respirare l’aria del conflitto. Ma essa è già andata perduta, costringendo, di fatto, all’abbandono l’area che più aveva investito sull’innovazione di metodo, quasi a farne una pregiudiziale per dare credibilità alla assai difficile impresa di fare forza politica ed elettorale attraverso la critica e il contrasto con l’Europa reale, quella neoautoritaria del primato assoluto del mercato e della competitività, l’Europa plasmata dal capitalismo finanziario. Non aver trasformato il fallimento in un ulteriore lacerante conflitto a sinistra è una buona cosa, ma non cancella la delusione per un’ennesima occasione perduta. Invece essa può, forse, diventare un’occasione per riflettere ulteriormente su come e da dove si debba partire per ricominciare una storia di sinistra, su quali siano le condizioni minime necessarie per intraprendere il cammino.
Senza una radicale discontinuità col passato, il morto mangia il vivo. La discontinuità è necessaria non solo per ricostruire il rapporto perduto tra la politica e l’esistenza ma anche per poter recuperare il meglio della storia del movimento operaio. Vale per la grande politica, ma, dobbiamo constatarlo, vale anche per le elezioni. Personalmente l’avevo imparato anche direttamente riflettendo autocriticamente sul fallimento dell’Arcobaleno, che pure, allora, mi era sembrato essere realisticamente l’unica possibilità di aggregazione a sinistra. Il realismo non è più una virtù. La discontinuità è una precondizione per la riuscita dell’impresa. La discontinuità prima, rispetto alla presentazione alle elezioni, è l’assunzione della più rigorosa pratica democratica: una testa un voto, su tutto, dal programma alle candidature. Democrazia e trasparenza. Senza eccezioni. Se si accetta l’eccezione, chi la determina è il sovrano. Il sovrano partitico (oggi, non ieri) è, a sinistra, mortifero. Come quello del leader assoluto.
Forse, davvero, la ricostruzione della rappresentanza istituzionale a sinistra non può che passare per l’organizzazione della coalizione sociale e per il formarsi di sue proprie istituzioni. Ma, almeno, andrebbero banditi i cartelli di forze preesistenti, l’occupazione di quote di candidature in nome di rappresentanze partitiche o comunque di eredità pregresse. Questa volta poi, di fronte alla crisi verticale della politica e alla crisi della democrazia, ci sarebbe stato bisogno di una ancor più netta discontinuità. Senza radicalità di programma e di metodo, oggi, non c’è salvezza a sinistra. Non c’è stata neppure dove avrebbe potuto e dovuto esserci, a sinistra, fuori dal campo del governo atteso. Peccato, perché ce n’è la necessità e l’urgenza.
Il campo del governo si organizza muovendo dal profilo tecnocrate ad una delle tante forme possibili di grande coalizione, quella dell’alleanza tra il centrosinistra e il centro. Il centrosinistra si modella per essere parte organica della coalizione di governo di questa Europa. Bersani ha condotto con intelligenza e sapienza tattica il PD ad esserne il perno riconosciuto. La sua base di massa e la sua solidità è, purtroppo per chi come noi pensa che questo è invece proprio quello che andrebbe combattuto, il miglior fattore per l’integrazione nell’Europa mercantilista e, sostanzialmente, tecnocratica. Un’operazione non priva di contraddizioni, ma molto insidiosa. Monti punta a costruire l’altra componente, quella borghese. Il suo è un gioco spregiudicato e con più di una sgrammaticatura istituzionale, ma può sorprendere solo chi non ha saputo leggere il carattere costituente del suo governo che ora si trasforma in una costituente di soggettività politica, il partito borghese sotto le insegne dell’Europa del patto di stabilità e con il sostegno, seppur periclitante, del Vaticano. Finora l’operazione, più volte tentata in Italia nel passato, è sempre fallita (come quella speculare del partito socialdemocratico). Ma ora c’è una novità, c’è una grande levatrice in campo, l’Europa reale e, in Italia, si annuncia la nascita della terza repubblica. Si profilano così, per usare il linguaggio moroteo, due storie parallele, una storia di convergenze, una storia di divergenze, ma sempre parallele, cioè interne alla stessa idea di società: l’economia sociale di mercato nel tempo però del capitalismo finanziario, poco sociale e molto di mercato. Da noi è facile prevedere divergenze parallele in campagna elettorale e convergenze parallele alla prova del governo. Per chi pensa che, oggi, in politica, come nel lavoro e nella società, il discrimine sia proprio l’Europa reale, quella della parità di bilancio, del fiscal compact, incompatibile persino con lo stato sociale ancora esistente, ne viene come conseguenza che la costruzione dell’alternativa sociale e politica a questo modello regressivo dell’Europa, non può che collocarsi fuori da questo recinto. Perciò è significativa l’attesa di un’alternativa anche nel voto. Perciò la delusione di un’occasione mancata non deve distrarre le forze, che così pensano e che così agiscono, dal compito principale. Credo che persino in campagna elettorale non dovrebbe mancare la loro voce. Se istanze di movimento, come le realtà che hanno provato a portare, senza riuscirci, queste idee anche nella formazione delle liste, le faranno vivere in forma originale, indipendentemente dal voto, anche nella campagna elettorale, con mobilitazioni dirette per la democrazia, per il lavoro (per esempio sulla proposta Gallino per l’occupazione), per la cittadinanza, per l’ambiente e la salute, allora il tempo di una campagna elettorale, che si annuncia pessima, non sarà tempo perso.
Fausto Bertinotti, 2 gennaio 2013