I dilemmi della lotta per il clima e l’ambiente :: di Guido Viale

Riportiamo qui una importante riflessione di Guido Viale sulla campagna ambientalista in corso, apparsa su il manifesto. 

I dilemmi della lotta per il clima e l’ambiente

Guido Viale

La crisi climatica al centro degli allarmi lanciati da Greta Thunberg marcia parallelamente a una crisi ambientale, anch’essa planetaria, che riguarda soprattutto la perdita di biodiversità, come ci ricorda Extintion Rebellion; ma la giustizia ambientale, cioè la salvaguardia e il rispetto della Terra non può essere disgiunta dalla giustizia sociale, cioè dal riscatto degli oppressi, degli sfruttati e degli esclusi; un nesso che è al centro dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco e della proposta di una nuova alleanza tra umani e natura di cui il sinodo sull’Amazzonia in corso a Roma dovrebbe fornire un paradigma.

Queste equivalenze, fatte proprie da Fridays for future e dagli altri movimenti che mettono l’ambiente al primo posto aiutano ad affrontare i principali dilemmi della lotta per la salvaguardia del pianeta.

Primo: basterà sostituire i combustibili fossili con fonti rinnovabili per mettere in sicurezza il futuro dell’umanità? No, le fonti rinnovabili sono sicuramente in grado di fornire a tutti gli abitanti della Terra l’energia necessaria a una vita dignitosa, a condizione di non farne l’uso sconsiderato di oggi.

Ma quasi metà del cambio di rotta dovrà venire da risparmio ed efficienza. Però, mentre installare impianti per le rinnovabili – ma anche ristrutturare un’azienda o coibentare un edificio per renderli più efficienti – comporta processi strutturati, risparmio ed efficienza si concretizzano per lo più in migliaia di atti che costellano la vita quotidiana: come spegnere la luce quando si esce da una stanza (come raccomanda anche il papa), mettersi un golf invece di alzare il riscaldamento e una maglia in meno invece di accendere il condizionatore, mangiare meglio, usare di più piedi, bicicletta e mezzi pubblici per spostarsi, fino a rinunciare per sempre al totem dell’auto privata a favore di car-sharing, taxi collettivi e trasporto a domanda.

Passare all’auto elettrica è un mito fuorviante, perché muovere una tonnellata di ferraglia, sia a trazione convenzionale che elettrica, per trasportare 100 chili di ciccia (pari alla media di 1,2 passeggeri per veicolo) resta il colmo dell’inefficienza, la manifestazione di una civiltà uscita dai binari. D’altronde, nel 2050, per raggiungere i tassi di motorizzazione europei ci vorrebbero 5 miliardi di veicoli (oggi ce n’è meno di un miliardo). Insostenibile.

L’economia circolare, cioè l’azzeramento della produzione di rifiuti e il riciclo integrale degli scarti che riducono il consumo di natura, sono anche componenti fondamentali dei programmi di efficienza energetica.

Secondo, l’energia è l’unica variabile in gioco? No, agricoltura, allevamento, alimentazione e foreste pesano quasi altrettanto.

In parte perché una parte dell’energia la consumano anche loro; ma soprattutto perché l’agricoltura industriale, frutto di una chimica nata per fare la guerra, devasta suoli e biodiversità (con monoculture, fertilizzanti e pesticidi sintetici, deforestazione, consumo e inquinamento dell’acqua), rendendoli inadatti a riassorbire carbonio. L’unica alternativa è una agricoltura biologica, multiculturale, multifunzionale, di piccola taglia, di prossimità, scientificamente aggiornata.

Terzo, la conversione ecologica riguarda solo i paesi «avanzati»? No, questa ricetta vale anche per il recupero delle terre la cui devastazione provoca le migrazioni che già oggi spaventano i governi di Europa e Usa, e che domani l’avanzare della crisi climatica e ambientale moltiplicherà per cento. A condizione, ovviamente, che si cessi di devastare quei paesi con uno sfruttamento feroce, di farvi le guerre e di vendere armi ai loro governi o alle loro bande. La questione dei profughi e dei migranti si può risolvere solo da noi: accogliendoli in modo degno e preparando quelli di loro che vorrebbero far ritorno nei loro paesi (quasi tutti: nessuno lascia volentieri la propria casa per sempre) a lavorare insieme alla pacificazione e alla rigenerazione delle loro terre valorizzando i contatti che mantengono con le loro comunità di origine. L’alternativa è solo una guerra permanente, spietata e alla fine perdente, contro i poveri della Terra, che purtroppo è cominciata…

Quarto: può una transizione del genere essere promossa e realizzata «dall’alto»?

Da governi, organismi internazionali, imprese grandi e piccole? No, non l’hanno intrapresa fino ad ora (ma conoscevano la minaccia del clima da decenni); non lo faranno neanche adesso, se non sotto la pressione montante di tanti movimenti popolari.

Continuano a inseguire «crescita» e Grandi opere, mentre ci sarebbero migliaia di produzioni da abbandonare subito e molte di più da avviare, fornendo adeguate garanzie a chi dovrà cambiare lavoro o trovarne uno. Ma, soprattutto, le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica, l’agricoltura sostenibile, anche se a volte non sono incompatibili con il centralismo dell’attuale organizzazione economica, realizzano compiutamente le loro potenzialità solo con una forte decentralizzazione: con il passaggio dal grande al piccolo, dal concentrato al diffuso, dal seriale al mirato, dal gerarchico al partecipato.

Partecipazione vuol dire democrazia e iniziativa dal basso, due cose incompatibili con l’attuale struttura economica.

Quinto: come devono rapportarsi i movimenti per il clima e l’ambiente che hanno una visione globale e radicale dei problemi con le istituzioni, i partiti, i media, le altre associazioni, i centri sociali?

Smascherare chi vorrebbe «cavalcare» o stravolgere gli obiettivi dei movimenti per rafforzare se stessi con misure di facciata è indispensabile, perché i cambiamenti da realizzare sono immensi e radicali. Ma non si deve aver paura di mescolarci con loro: siamo più forti noi.

La rapidità del disastro che sta colpendo il pianeta ci conferma nella certezza che clima e ambiente sono il problema numero uno, da cui tutti gli altri non possono che dipendere.

il manifesto, 17/9/2019

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