L’altra faccia del Decreto sicurezza

Il Decreto sicurezza non rende impossibile solo la vita dei migranti ma anche di chi intende dissentire e agire nelle forme necessarie per rendere palese il dissenso.

Quindi oltre a proseguire la strada della “uscita” progressiva dal diritto internazionale, sconvolgere i diritti costituzionali dei migranti, negare forme civili di accoglienza, ridurre i finanziamenti per l’accoglienza e l’integrazione e di conseguenza ridurre l’occupazione nel settore (migliaia di giovani si troveranno nell’arco di 6 mesi disoccupati),  questo decreto aggrava la condizione dei cittadini che intendano in modo organizzato manifestare il dissenso e costruire azioni di lotta.

Il Coordinamento Biella antifascista ha iniziato un lavoro di controinformazione che ha già affrontato la parte relativa alla condizione migrante. Ora deve anche attrezzarsi per affrontare il tema dell’agibilità politica in tempi di controllo e repressione come quelli che ci aspettano!

Qui di seguito riportiamo un testo di Alessandra Algostino apparso nel sito volerelaluna

https://volerelaluna.it/politica/2018/12/05/il-decreto-sicurezza-guai-agli-ultimi-e-a-chi-dissente/

 

Il decreto sicurezza: guai agli ultimi e a chi dissente
Alessandra Algostino

Come in ogni provvedimento in materia degli ultimi anni, nel cosiddetto “decreto sicurezza” (decreto legge n. 113 del 2018 approvato in via definitiva dalla Camera il 28 novembre scorso), c’è – a fianco delle norme che riscrivono restrittivamente i diritti dei migranti (v. Verso un nazionalismo autoritario) – una parte dedicata alla repressione dei comportamenti attraverso i quali si esprime il dissenso politico, il disagio sociale o che costituiscono manifestazioni di una supposta “alterità” rispetto alla società. La punta dell’iceberg di tale intervento repressivo sta nella ri-penalizzazione del blocco stradale, nell’inasprimento delle pene relative alle occupazioni di edifici, nell’incremento delle ipotesi di “DASPO urbano”.
Innanzitutto è re-introdotto il reato di blocco ferroviario e stradale (v. Il decreto Salvini e il blocco stradale). La fattispecie di impedimento e ostacolo alla libera circolazione in una strada ordinaria o ferrata era stata introdotta nel 1948, su iniziativa del Ministro dell’Interno Scelba, e punita con la reclusione da uno a sei anni, con pena raddoppiata nel caso il fatto fosse commesso da più persone, anche non riunite. Nel 1999, il blocco stradale o ferroviario era stato depenalizzato, punito con una sanzione amministrativa pecuniaria.
La ratio sottesa al reato era (ed è) evidente: reprimere il dissenso. Il blocco stradale (o ferroviario) costituisce, infatti, uno strumento classico utilizzato in occasione di scioperi o manifestazioni di protesta. È un mezzo attraverso il quale sono espressi il dissenso, il disagio sociale, il conflitto nel mondo del lavoro. Il presidio che si trasforma in corteo per le vie di una città, gli operai, o i riders, in agitazione che bloccano la circolazione sono forme di protesta strettamente correlate all’esercizio di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, come lo sciopero (art. 40), la riunione (art. 17) e la manifestazione del pensiero (art. 21).
Il dissenso è coessenziale alla democrazia: di ciò non può non tener conto il legislatore quando bilancia sue manifestazioni, anche radicali, con altri interessi. La democrazia è conflitto e deve riconoscere ad esso spazi di espressione; il ricorso allo strumento penale in tali contesti indica una involuzione autoritaria dello Stato.
Forse la replica tout court del provvedimento Scelba è, peraltro, parsa eccessiva anche al legislatore: in sede di conversione del decreto viene operata una eccezione, prevedendo che nell’ipotesi di blocco stradale (ma non ferroviario) compiuta mediante l’ostruzione con il proprio corpo, sia comminata solo una sanzione amministrativa pecuniaria (da 1.000 euro a 4.000 euro), sanzione prevista altresì per i promotori e gli organizzatori.
In secondo luogo, diretta a colpire i movimenti sociali e il tentativo di far emergere una storia di diritti non garantiti e una situazione di disagio sociale, è la norma che inasprisce la punizione, nell’ambito del reato di cui all’art. 633 codice penale (Invasione di terreni o di edifici), di «chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici» (la pena della reclusione, in precedenza fino a due anni, ora è da uno a tre anni), con un aggravamento se il fatto è compiuto da più di cinque persone, o da persona palesemente armata, e con un ulteriore aumento di pena per promotori e organizzatori delle occupazioni, se il fatto è commesso da due o più persone.
Nel caso delle occupazioni a scopo abitativo, invece di leggere l’occupazione come un segnale di carenza da parte delle istituzioni nella garanzia di un diritto fondamentale, quello all’abitazione, e dell’emersione di una situazione di tensione sociale, si sceglie l’accanimento contro coloro che rendono visibile il problema e forniscono una prima, se pur parziale e inadeguata, risposta. In presenza, poi, di occupazione di uno spazio dove svolgere attività politica, culturale, sociale, entrano in gioco direttamente valori come la tutela del dissenso, il pluralismo, la partecipazione attiva. Se ciò non esclude, in caso di commissione di illeciti, la perseguibilità degli stessi, occorre in sede normativa, così come giudiziaria, una ponderazione complessiva del contesto.
È una questione che chiama in causa quantomeno la questione della proporzionalità delle pene, incidendo sulla ragionevolezza in ordine alla restrizione della libertà personale, con una violazione altresì dell’art. 27, comma 3, Costituzione, laddove prevede che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».
In terzo luogo, il decreto amplia i margini di utilizzo del cd. “DASPO urbano”, ponendosi una volta di più in linea di continuità con il precedente “decreto Minniti”. Ora il sindaco può comminare la sanzione amministrativa pecuniaria (da 100 euro a 300 euro) e l’ordine di allontanamento, oltre che dai luoghi precedentemente contemplati (quali porti, aeroporti, stazioni ferroviarie, scuole, università, musei, aree archeologiche o comunque interessate da consistenti flussi turistici o destinate al verde pubblico), anche dai presidi sanitari e dalle aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli, ai quali, in sede di conversione, sono aggiunti locali pubblici e pubblici esercizi.
Prosegue così il processo che tende a trasformare il sindaco in sceriffo, dotandolo del potere di adottare sia proclami generali (il potere di ordinanza) sia bandi ad hoc: nel primo caso, in linea con il processo di attribuzione di poteri normativi sempre più vasti agli esecutivi nonché di un processo di de-legificazione e frammentazione normativa; nel secondo caso, in coerenza con l’incremento di misure preventive (e repressive), con un pericoloso ritorno in auge di categorie come la pericolosità sociale di “oziosi e vagabondi” e una amministrativizzazione della sicurezza (che si accompagna a un sempre più largo utilizzo in sede giudiziaria delle misure di prevenzione).
Ciò che rileva non è incidere su eventuali cause del disagio sociale, in coerenza con il progetto di emancipazione sociale sancito nella Carta costituzionale, ma rendere ancor più invisibili ed espellere dai luoghi della vita sociale coloro che già vivono in situazioni precarie e di difficoltà; in questo senso, si situa anche la reintroduzione, in sede di conversione del decreto del reato di “esercizio molesto dell’accattonaggio” (art. 669 bis codice penale).
L’obiettivo è il decoro urbano: l’art. 9 del decreto Minniti, sul quale si basa il provvedimento in esame, recita «misure a tutela del decoro di particolari luoghi». Al decoro urbano è sacrificata la tutela della dignità e dei diritti (artt. 2 e 3 Costituzione) nonché, nello specifico, la libertà di circolazione e movimento (art. 16) e, con il divieto di accesso ai presidi sanitari, la tutela della salute (art. 32).
Il decreto e la legge di conversione, come anticipato e come risulta evidente dalla connessione tra la nuova disciplina dei migranti (v. Verso un nazionalismo autoritario) e quella sulla sicurezza in senso stretto, realizzano un ulteriore passo nella limitazione dei diritti di tutti. C’è, in essi, un fil rouge (o, meglio, noir): un intento repressivo, di limitazione, se non negazione, dei diritti. Da un lato, vi è la decisione di respingere le persone, restringendo lo spazio del diritto di asilo e rendendolo sempre più ostile; dall’altro, la volontà di reprimere il dissenso e rendere invisibile il disagio sociale.
L’immagine che si forma davanti agli occhi è quella di una società del (non-)pensiero unico, che espelle il diverso: chi pensa e agisce diversamente, chi proviene da un luogo diverso, chi vive in modo diverso. Il sistema sociale ed economico è sempre più diseguale e per questo fragile. Necessita quindi di convogliare l’attenzione contro un nemico che crei una fittizia comunanza di intenti fra chi sta al vertice e chi alla base della piramide (le masse atomizzate) per evitare che la diseguaglianza esploda verso l’alto; nello stesso tempo ha bisogno di confinare le “anomalie”: chi è al di fuori del sistema e chi è contro il sistema. Con un amaro gioco di parole: da un lato confini, territoriali e razziali, escludenti, e dall’altro confino (sotto forma di espulsione sociale, ma anche detenzione).
Il testo normativo si accanisce contro le vittime dell’ingiustizia economica e sociale (le persone costrette a migrare da una realtà globale segnata da una crescente diseguaglianza, da violenza e povertà, e le persone che quello stesso sistema spinge ai margini e non tutela) così come punisce chi quel sistema contesta (l’astrattezza delle fattispecie penali sia nell’immaginario di chi le prevede sia nella concretezza del loro utilizzo giudiziario si traduce nella punizione “privilegiata” di un certo tipo di dissenso). I diritti, universalmente sanciti, si rivelano sempre più privilegi riservati, e da riservare, ai cittadini. A ciascuno, peraltro, la sua diseguaglianza: i cittadini vedono riavvolgersi il film della storia dei diritti, con un rewind che corre veloce verso un passato sordo alle istanze della democrazia sociale e dalla libertà condizionata, quando non negata. L’universalità dei diritti, l’eguaglianza, il dissenso: sono intaccati i pilastri della democrazia costituzionale.

Volerelaluna, 5/12/2018

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