Perché il piano dell’Onu in Libia non funziona, di Guido Viale

Ancora sui migranti.  Ancora per ribadire che l’Italia è l’artefice, insieme all’Europa, di una politica che non solo ha cancellato il diritto internazionale, ma che  favorisce un meccanismo concentrazionista in Libia e nei paesi subsahariani. Stiamo assistendo all’aumento dei morti nel Mediterraneo e il nostro Governo finanzia bande armate in Libia e eserciti regolari per respingere i migranti alle frontiere dei paesi africani avviando così migliaia di persone alla morte certa o a diventare carne da macello per trafficanti e nuovi schiavisti!

Mentre Minniti si erge a risolutore della “emergenza migranti” Gentiloni tesse le lodi di questa politica, mentendo ai cittadini che stanno pagando la carneficina in corso…

Qui di seguito una utile e efficace riflessione di Guido Viale apparsa su il manifesto.

Nei prossimi mesi l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, agenzia dell’Onu, evacuerà (se ci riesce) 15mila profughi detenuti nella Libia di Serraj. Costo previsto, 80 milioni: 5.300 euro a testa. L’Oim calcola che imbottigliati o imprigionati ci siano da 700mila a un milione di migranti. Evacuarli tutti costerebbe dunque da 37 a 50 miliardi. Ma a quei profughi il viaggio è costato spesso anche di più, con i riscatti pagati dalle famiglie per salvare quelli di loro sotto tortura.
Drammatiche somme, a cui vanno aggiunti i 660mila profughi sbarcati in Italia dal 2013. Tutto questo ci dà la misura del drenaggio dai paesi di origine: a beneficio di mafie e bande armate. Ma per raggiungere e rimpatriare tutti quei prigionieri bisognerebbe fare un’altra guerra: contro le centinaia di bande a cui la precedente guerra contro Gheddafi ha consegnato il paese.
I trasferimenti, assicura l’Oim, saranno volontari. Ovvio: ma verso dove? Di 50mila, considerati profughi perché provenienti da Stati “insicuri” (Somalia ed Eritrea), di occuperà l’Unhcr: destinazione, uno Stato dell’Unione europea; ma nessuno li vuole. Tutti gli altri, considerati “migranti economici”, perché provenienti da Stati considerati “sicuri”, anche se attraversati da conflitti sanguinosi (in alcuni casi combattuti anche da truppe europee), dovrebbero venir rispediti in quei paesi da cui sono scappati. E che ne faranno, di quei loro sudditi, i governi a cui l’Oim li vorrebbe restituire? Nei 5.300 euro è compreso, in teoria, anche il costo del loro reinsediamento e del loro avviamento al lavoro. E con quali programmi? Quelli spacciati dall’Unione europea, il migration compact di Renzi, l’action plan della conferenza de La Valletta, il “piano Marshall per l’Africa” ventilato ad Abidjan. Tutti piani che hanno per referenti delle multinazionali (Renzi, per esempio, indicava esplicitamente Eni ed Edf, impegnate nella devastazione, rispettivamente, di Nigeria e Niger): per trasferire attività industriali, costruire infrastrutture, “valorizzare” risorse locali: cioè continuare a saccheggiare quei territori come hanno fatto finora; e come la Cina sta dimostrando di saper fare molto meglio.
Tutto ciò, anche se venisse fatto, non cambierebbe le ragioni che spingono milioni di persone a fuggire dalle loro case, migrando in gran parte non verso l’Europa, ma verso altre regioni o altri Stati africani confinanti. Più facile che quei fondi vengano impiegati nella costruzione di nuovi campi di concentramento, trasferendo più a sud una parte degli orrori della Libia.
Per risanare quelle terre e quelle comunità non ci vogliono “grandi opere”, ma nuovi protagonisti: abitanti e comunità locali messe in grado di intervenire, con lavori di bonifica, risanamento e pacificazione, su territori e tessuti sociali che loro conoscono bene, perché vi hanno vissuto per centinaia di anni. Magari aiutati da qualche scaglione di migranti desiderosi di ritornare nei paesi che hanno lasciato, dopo qualche anno o decennio passato in Europa, e con bagagli di conoscenze, relazioni e professionalità acquisite nell’emigrazione. Tutto ciò, a condizione che torni la pace in quei territori; che vuol dire: smettere e impedire di vendere armi a chi sta facendo la guerra e mettere i cittadini espatriati di quei paesi in grado di organizzarsi e di mettere a punto dei piani di pacificazione dei territori da cui sono fuggiti, invece di trattarli come intrusi e scarti umani. Nessuno è più pacifico di chi fugge da una guerra; nessuno sa affrontare meglio i problemi di un ritorno a una convivenza pacifica tra i nemici di ieri. Forse che molti dei profughi siriani non sarebbero capaci di partecipare alla ricostruzione del loro paese?
I governi europei non hanno una strategia perché non sanno più dare lavoro, casa e servizi nemmeno a un numero crescente di loro concittadini; e perché sono tutti lanciati all’inseguimento delle forze di destra e razziste che del respingimento hanno fatto la loro sirena elettorale. Ma quei respingimenti tanto invocati e mai spiegati non funzionano: li ha messi in pratica Minniti, con il plauso di Salvini, Meloni e dei loro seguaci; e si è visto che non risolvono niente: aumentano solo i morti e le violenze.
Chi invece si schiera per l’accoglienza cerca spesso di rendere accettabile questa scelta ridimensionando il fenomeno: in fin dei conti “sono pochi”, l’Europa avrebbe tutte le possibilità, e anche l’interesse, a integrarli. Sono sì pochi; ma sono l’avanguardia e la manifestazione di un processo epocale. I profughi ambientali e climatici, e le vittime delle guerre provocate da quei dissesti, non sono pochi; sono milioni; e saranno sempre di più; e nessuno riuscirà a fermarli.
Per questo si deve e si può lavorare alla loro accoglienza e inclusione, ma anche per mettere in condizione quelli che lo desiderano di far ritorno nel loro paesi.
A rispondere a un problema che è di ordine secolare può contribuire solo la consapevolezza che l’Europa, il Medioriente e l’Africa centro-settentrionale sono ormai un unico mondo con al centro il Mediterraneo; e che è interesse di tutti garantire una libera circolazione. In modo che, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza all’estero, tutti, profughi e migranti, di ieri, di oggi e di domani, siano messi in grado di ritornare, se vogliono, nelle loro terre. E viceversa.
Abbiamo anche tanto da imparare da popoli e culture che continuiamo invece a trattare come se fossero ancora delle colonie.

il manifesto, 13 /12/2017

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