Ancora sulla Fiat: la dura analisi di Bertinotti e le sollecitazioni di Viale.

Un voto potente  di Fausto Bertinotti

È tutto cambiato da quando Mirafiori meritava l’apertura del primo numero de il manifesto quotidiano. Sono cambiati l’aria del tempo, il tipo di capitalismo, l’organizzazione del lavoro, la composizione sociale di classe, si è eclissata la democrazia e la politica si è sfatta. Anche noi potremmo recitare, in altro senso, come nell’incipit di Cristo si è fermato a Eboli: «Sono passati molti anni, pieni di guerre, e di quello che si usa chiamare la storia».

Una storia che è andata a rovescio per gli operai. Mirafiori non è più la cattedrale del controllo operaio, ha, come tutto il suo mondo di appartenenza subìto in Europa dure sconfitte e una storica ristrutturazione che ne ha duramente ridimensionato la popolazione lavorativa.

Eppure Mirafiori, per un momento, così come è ora, è ritornata al centro di uno scontro che la trascende, quello tra capitale e lavoro.

Il manager internazionale che guida la nuova Fiat, espressione fisica del capitalismo globalizzato, la sceglie, dopo Pomigliano, come luogo strategico della sua grande prova. La sfida è tale che se vince cambia di nuovo tutto, come dopo un terremoto: le relazioni sindacali, i rapporti sociali, la collocazione del lavoro nella produzione e nella società. Un’intera civiltà del lavoro sarebbe travolta. Chi resiste a questa idea di dominio e i lavoratori interessati non possono sottrarsi alla contesa. Il ricatto più pesante che possa essere fatto gravare sui lavoratori, se non accetti il nuovo regime di fabbrica perdi il lavoro, viene attivato dal padrone.

Il disegno della Fiat sembra irresistibile. Sarà bene, specie dopo l’esito del voto che riapre ai lavoratori, a chi sta con loro, una possibilità, continuare a riflettere su quella minacciosa ambizione che resta duramente in campo. E l’idea, nella tempesta della crisi che investe in Occidente la globalizzazione capitalistica, di perseguire l’obiettivo della competitività delle merci, sopprimendo la contraddizione interna alla produzione, il vincolo sociale e il portato della democrazia, creando così un regime totalitario d’azienda. L’idea della Fiat è semplice ed estrema: quella di eliminare i vincoli sociali e democratici ai quali è stata sottoposta l’impresa capitalistica dalla storia moderna. La nuova fabbrica nascerebbe contro la modernità in una regressione non congiunturale ma storica. La sua base materiale è un’organizzazione del lavoro intrinsecamente autoritaria nella quale non c’è spazio per la soggettività. Le persone e i loro corpi devono diventare protesi del processo di lavoro e delle macchine.

L’abbattimento dei diritti, persino costituzionali, non è il frutto di una cinica cattiveria, è molto peggio, è la conseguenza coerente della scelta di un modello di competitività aziendale dalla quale vengono fatte derivare la delegittimazione del conflitto, l’attacco al diritto di sciopero, la cancellazione del sindacato, se autonomo, dall’impresa. Sono i bisogni e le soggettività dei lavoratori che non debbono poter esprimersi ed essere rappresentati. Sono la dignità e la libertà della persona che lavora che non possono avere cittadinanza nel nuovo luogo dello sfruttamento e dell’alienazione capitalista. Un’azienda totalitaria in un capitalismo totalitario. Il referendum illegittimo, perché condizionato dal ricatto, doveva servire a sgombrare il campo da ogni resistenza, promuovere la passivizzazione dei lavoratori, espellere la Fiom dalla fabbrica.

Nel conflitto di classe è sempre vero che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il voto operaio di Mirafiori è una vera sorpresa, clamorosa e potente. Le cronache operaie di Loris Campetti e il commento di Rossana Rossanda ne fanno testo. L’operazione, quella del referendum, non certo quella generale, fallisce. Il voto falsifica proprio l’assunto che sta alla base dell’intera operazione, che ne costituisce il fondamento ideologico, cioè la presunta ineluttabilità della scelta aziendale. Come nell’economia, così nell’impresa, questa è la sfida che il capitalismo sta portando alla democrazia. Mors tua, vita mea. La pretesa di negare l’esistenza stessa della lotta di classe ha questa radice. Il Corriere della Sera ha sviluppato il tema distinguendo tra i diritti individuali e i diritti sociali per assoggettare questi ultimi all’economia; diritti come variabili dipendenti del mercato. È il consapevole rovesciamento del paradigma della Costituzione repubblicana che infatti si vorrebbe sostituito da una costituzione materiale che affermi il primato (dominio) del mercato.
Non si capisce però su cosa l’imprenditore fondi la previsione di successo della sua opzione di impresa totalitaria. Come egli non sappia che questi tentativi hanno nella storia sempre incontrato, prima o poi, il contrasto del conflitto che, quando non ha potuto esprimersi nella maturità della contesa sociale e politica, ha preso la strada della resistenza passiva e del boicottaggio. Ma il voto di Mirafiori non si è arreso neppure a questa prospettiva e ha riaperto la partita proprio sul terreno sociale, sindacale e politico.

L’intervista di Marchionne, su Repubblica di ieri, mostra tutta la sua avventuristica determinazione nel proseguire sulla via intrapresa dalla Fiat. Essa ha mostrato la sua forza sul terreno politico-istituzionale e degli schieramenti, costringendo anche una borghesia, in parte riottosa e in altra parte in tutt’altre faccende affaccendata, a seguire come una qualsiasi intendenza, allo stesso modo delle forze politiche e sociali che fanno parte dell’edificio neocorporativo che pure Marchionne ha picconato, da destra.

Ma, qui sta il punto, il manager internazionale che ha collocato la contesa di Mirafiori sulla scena della globalizzazione, ha perso proprio a Mirafiori contro gli operai che voleva senza volontà e senza coscienza di classe. Marx sapeva già quel che non sa Marchionne, che la forza-lavoro si differenzia da qualsiasi altro genere di merce perché contiene «un elemento morale e storico».
Quel voto dovrebbe ricordarlo non solo all’A.D. della Fiat. Il sindacato e la Sinistra non ritorneranno ad essere protagoniste di alcunché senza assumere questa lezione, la lezione dell’irrinunciabilità del conflitto di classe, della partecipazione e della democrazia. La Fiom, che ha rotto l’isolamento e la solitudine operaia, ha dimostrato che solo così si interloquisce con i movimenti e con i saperi critici di oggi. Dopo il voto di Mirafiori, questo prendere parte diventa per la sinistra persino una questione morale. Intanto, quelli che lo hanno fatto prendano almeno l’impegno di lavorare assieme.

il manifesto, 19/1/2011

 

La Fiat a scuola   di Guido Viale

A tutti i «modernizzatori» che hanno salutato il referendum di Mirafiori come l’ingresso delle relazioni industriali italiane nella «modernità» va ricordato che la Modernità, o «Età moderna», è iniziata nel 1492 con la scoperta dell’America. A quel tempo, nella Modernità, l’Italia delle Signorie era già entrata. Nei secoli successivi ha avuto alti e bassi (attualmente sta sicuramente attraversando un basso); ma se il 14 gennaio 2011 dovesse diventare una data storica, starebbe a segnare non l’entrata ma l’uscita del paese dalla Modernità: per ripiombare in un nuovo Medioevo; oppure, per instaurare una forma nuova di «feudalesimo aziendale». Perché?

Non mi soffermo sulla limitazione del diritto di sciopero – accordata dal nuovo contratto – che ogni lavoratore dovrà poi sottoscrivere individualmente; né sulla abolizione della rappresentanza elettiva a favore di una gestione dei contenziosi affidata ai sindacati firmatari (trasformati così in missi dominici: ovvero, agenti del padrone); temi già ampiamente trattati da altri. Ma che cosa succederà in produzione?

Gli operai verranno messi in cassa integrazione, prima ordinaria, poi straordinaria, motivata da un «evento improvviso e imprevisto» (così il contratto; che però prevede «l’imprevisto» con assoluta certezza) e finanziata con fondi Inps attinti dalla «gestione speciale» dei lavoratori precari (che in questo modo verranno scorticati delle loro già irrisorie pensioni) e da contributi statali aggiuntivi (alla faccia della rinuncia della Fiat agli aiuti di Stato). Nel frattempo – oltre un anno – i lavoratori verranno convocati uno a uno per la firma del contratto individuale per vincolarli indissolubilmente ai termini dell’accordo. E per essere selezionati. Molti verranno scartati per una ragione o un’altra. È quello che Fiat sta già facendo con gli operai della Zastava, nonostante i generosi aiuti della Bei e del governo serbo. Marchionne sa bene che maestranze con un’età media di 48 anni (nel 2012), per il 30% composte da donne, e per un altro 30% certificate Rcl (ridotte capacità lavorative) non possono reggere i ritmi di lavoro previsti dall’accordo. Poi verrà costituita la NewCo – sembra che si chiamerà Mirafiori Plant – ristrutturando gli impianti con fondi Chrysler e Fiat (il famoso miliardo: ma chi sa quanto sarà poi effettivamente speso?). A febbraio 2012, se tutto «va bene», comincerà la produzione. Di che cosa?

Di Suv (che modernità!) con marchio Chrysler e Alfa, assemblati su pianali e con motori prodotti negli Usa, e poi rispediti negli Usa per essere venduti.

Mercato permettendo: anche con nuovi motori, i suv restano pur sempre i veicoli più energivori, quelli che avevano mandato a picco la produzione dei tre big di Detroit nel 2008; e il petrolio sta risalendo verso i cento dollari al barile. Ma che senso ha questo andarivieni tra Italia e Usa, quando persino lo stabilimento di Termini Imerese era stato giudicato improduttivo perché troppo lontano dai fornitori di componenti? Il senso è che tra le condizioni poste da Obama per consentire la scalata di Marchionne alla Chrysler c’è quella di esportare dagli Usa, e fuori dall’ambito Nafta (Canada e Messico), prodotti per almeno 1,5 mld di dollari. Dunque, pianali e motori trasferiti da Detroit a Torino (cioè da Chrysler a Fiat Plant: due società differenti anche se controllate dallo stesso management) dovranno concorrere nella misura maggiore possibile al raggiungimento dell’obiettivo. Ovvio che l’esportazione di componenti verrà sovrafatturata (lo ha già prospettato anche Massimo Mucchetti sul Corsera) e i margini di Mirafiori ridotti all’osso (o erosi completamente per giustificare successivi ridimensionamenti o la chiusura dello stabilimento); con tanti saluti per coloro che dalla produzione di nuovi modelli a più alto valore aggiunto – cioè più grandi, più complicati, più lussuosi, più spreconi, per soli ricchi – si aspettano la rimessa in sesto del Gruppo. Ma quale Gruppo?

L’accordo di Mirafiori, dopo quello di Pomigliano, dopo la dismissione di Termini Imerese, dopo lo spin-off di Fiat Industrial – la separazione dall’auto di Cnh e Iveco, i settori più redditizi rimasti in mano agli Agnelli – e in attesa di nuovi accordi anche per Cassino e Termoli (Melfi, cioè Sata, sta già per conto suo), prelude alla dissoluzione di Fiat Group. Intanto va notato che: a) Mirafiori – «nocciolo storico» del gruppo – non produrrà più macchine Fiat e diventerà una «fabbrica cacciavite» che lavora per altri; b) Pomigliano eredita le produzioni e l’organizzazione della fabbrica polacca di Tychy, che è di Fiat ma lavora anche per Ford e che, in attesa di chiarimenti, lavorerà sempre di più per altri; c) Magneti Marelli è in vendita; d) Maserati, Alfa, Lancia e Ferrari sono oggi, con l’eccezione dell’ultima, soprattutto marchi: che possono essere venduti come «marchi senza fabbrica», così come Tychy e Mirafiori sono o possono diventare «fabbriche senza marchio». E poi?

Poi la crisi è tutt’altro che superata. Le finanze di tre quarti dei paesi dell’Ue sono a rischio. I consumi ristagnano. Il mercato europeo dell’auto (a differenza di quelli Usa e asiatico) non dà segni di ripresa. A livello mondiale la capacità produttiva è di 100 milioni di veicoli all’anno mentre la domanda è stata di 60 milioni (sarà forse di 70 quest’anno). C’è un eccesso di capacità non solo in Europa e negli Usa, ma anche in Giappone, Cina e Corea, i cui produttori sono pronti a scalare la classifica delle vendite in Europa. Qualcuno si è chiesto quali siano i vantaggi competitivi con cui Marchionne conta di vendere ogni anno in Europa un milione in più di vetture fabbricate in Italia. Cioè di portare via almeno un milione di vendite annuali a Volkswagen, senza perdere colpi di fronte a Daimler e Kia-Yundai, in piena ascesa, o a Reanult-Nissan e Toyota, molto più solide, per non parlare dello sbarco in Europa dei produttori cinesi.

Alcuni oggi si chiedono che chance può avere una competitività ottenuta strizzando ancor più gli operai, il cui costo incide per non più del 7% sul prezzo finale del veicolo. Molti meno si sono chiesti che senso ha paragonare i 100 o 80 veicoli annui per addetto prodotti da Fiat in Polonia o in Brasile con i 30 degli stabilimenti italiani. A parte la differente complessità dei modelli e il differente confine tra fornitura esterna e fasi internalizzate, come si fa a paragonare la produttività di fabbriche che lavorano a pieno ritmo con quella di impianti dove le giornate di cassa sono più di quelle lavorate? La verità è che se Marchionne vuole vendere, o affittare, o dare in uso ad altri i suoi impianti, ciascuno dei quali farà capo a una diversa società, il valore aggiunto di una manodopera messa alle corde è molto maggiore di quello degli impianti dello stabilimento che li impiega. Ma le due cose sono indisgiungibili. È questo il feudalesimo aziendale a cui ci sta portando l’accordo di Mirafiori; quello che fa degli operai i nuovi «servi della gleba» dell’impresa globalizzata.
Marchionne e i suoi azionisti se riescono a portare a termine la scalata a Chrysler possono anche permettersi di mandare a fondo i lavoratori della Fiat, dopo averli legati con un accordo capestro ai loro rispettivi stabilimenti. Ne ricaveranno un aumento di utili e stock option. Ma chi vive del suo lavoro non può farlo. Però il futuro degli impianti, del knowhow e del lavoro che oggi fanno ancora capo a Fiat o al suo indotto non riposa più sull’industria dell’auto. I settori che hanno un avvenire sono quelli che conducono verso la sostenibilità: rinnovabili, efficienza energetica, ecoedilizia, riassetto del territorio, mobilità flessibile, agricoltura e alimentazione biologiche. Il tutto – tendenzialmente – a rifiuti e a km zero.

Ma la conversione ecologica dell’apparato produttivo e dei nostri consumi avrà ancora bisogno per un tempo per ora indefinibile di industria, economie di scala, grandi flussi di materiali, grandi impianti (il contrario dei chilometri zero) e di lavoratori impegnati, seppure in maniera più creativa e intelligente, su di essi. Sono temi ineludibili. Ma chi può mai lavorare a una prospettiva del genere?
Gli accordi capestro della Fiat avvicinano quello che un tempo era l’esercito dei «garantiti» alla condizione di un sempre più diffuso precariato. Mentre i temi e i modi in cui è andata crescendo la lotta contro la distruzione di scuola, università, ricerca e cultura fa di quel movimento, composto da precari attuali (ricercatori e studenti che lavorano per mantenersi agli studi) e futuri (milioni di giovani a cui è stato rubato il futuro), il segmento più organizzato dell’oceano del precariato italiano.
La domanda di saperi che non servano a costruire operatori, tecnici, insegnanti e ricercatori asserviti a datori di lavoro estemporanei o a imprese ed enti fantasma, dove nessuno avrà mai la sicurezza di un reddito né la possibilità di realizzare le proprie potenzialità, non traduce solo il rigetto della riforma Gelmini e la critica pratica delle forme e dei modi in cui la trasmissione dei saperi viene organizzata e finanziata. Esprime soprattutto la rivendicazione – che può farsi proposta, pratica attiva, percorso di realizzazione – di una riforma della ricerca e dei saperi che investa i contenuti della conoscenza, le sue le finalità, la frantumazione dei saperi in tanti ambiti disciplinari privati di qualsiasi consapevolezza. Per questo il tema centrale di ogni possibile riforma di scuola, università, saperi, cultura dovrebbe essere la conversione ecologica: una prospettiva che richiede l’integrazione di conoscenze sociali, tecniche, giuridiche, economiche, storiche con pratiche fondate sul confronto e la lotta, ma anche sulla capacità di fare proposta e di promuovere organizzazione. Pratiche che possono trovare punti di riferimento e di applicazione concreti nelle lotte dei precari, dei lavoratori delle fabbriche in crisi, dell’opposizione esplicita o soffocata (come i «sì» di Mirafiori) all’avvento del nuovo feudalesimo aziendale.

il manifesto, 20/1/2011

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