Rivoluzione sotto l’albero, …di Thomas Sankara
A 30 anni dall’assassinio di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, una sintesi del suo discorso tenuto il 22 aprile 1985 nel quadro della settimana rivoluzionaria del lavoratore forestale
Il luogo dove celebriamo la settimana rivoluzionaria del lavoratore forestale non potrebbe essere più significativo. In tempi antichi lo si sarebbe potuto chiamare bois de Boulogne, talmente gli alberi erano fitti. Oggi, eccoli, pochi e rachitici, e senza un futuro se non ci diamo da fare.
La lotta contro l’avanzata del deserto non può essere separata dalla lotta antimperialista, contro le forme di dominio e balcanizzazione. È una lotta ideologica e politica prima di essere pratica e tecnica. Piantare alberi, evitare di tagliarli, deve essere un cosciente atto politico, se non vogliamo essere noi stessi gli agenti del deserto che ci invade. Con questa lotta gli Stati africani capiranno che l’unità africana è una necessità, non una semplice opzione. Ognuno deve cedere un po’ di sciovinismo, un po’ di sovranità per cancellare quelle cicatrici che sono le frontiere. Esse ci dividono. Occorre rifare la Conferenza di Berlino. Possiamo lottare contro la desertificazione solo facendo dell’Africa un continente unico. Le ricchezze, le abbiamo.
In Burkina Faso abbiamo deciso di avviare tre lotte, compagni, tre lotte: contro gli incendi nella savana, contro la divagazione degli animali d’allevamento, contro il taglio incontrollato degli alberi per farne legna da ardere. Gli incendi sono d’ora in poi considerati un crimine. I detrattori della rivoluzione diranno che noi reprimiamo, ma sono persone che non hanno mai seminato, coltivato un campo, non sanno che cos’è e che cosa produce un incendio nella savana. I villaggi, e in particolare i locali Comitati per la difesa della rivoluzione, i Cdr, devono sorvegliare il proprio territorio. Ogni anno spendiamo molto denaro e molta energia, facciamo debiti per costruire sistemi anti-erosivi dei quali in passato non c’era bisogno. Bastavano le radici degli alberi e delle piante a mantenere uno spesso strato di humus su un suolo ben solido malgrado la forza del ruscellamento delle acque. Oggi in Burkina Faso l’acqua fugge via. Il nostro impegno nella lotta saprà trattenerla.
La seconda lotta è contro le mandrie erranti, che divorano tutto quello che cresce sul suolo, distruggendo la natura e condannando le prossime generazioni. La terza lotta è contro il taglio incontrollato di alberi per farne legna da ardere. D’ora in poi tutta la filiera sarà controllata e per tagliare alberi occorrerà una licenza, con una quota massima annua. Le popolazioni rurali potranno fare legna per l’autoconsumo familiare ma non per la vendita. La legna non sarà più abbondante e ognuno ormai si ingegnerà per economizzarla nelle attività culinarie, ricorrendo a tecniche e tecnologie fino a oggi neglette. Le donne in particolare libereranno – per necessità – il proprio genio creativo. E l’Istituto burkinabè per l’energia (Ibe) diffonderà le invenzioni che per ora dormono nei cassetti e sotto gli alberi, perché nelle nostre città e campagne non se ne è ancora compreso il senso e l’importanza. E forse potremo puntare sull’energia che abbiamo in abbondanza: il sole.
Infine ognuno di noi, chi vuole e anche chi non vuole, dovrà ormai piantare alberi. Per avere il diritto all’ombra e all’acqua occorre proteggere la natura. Il rimboschimento è dunque un’esigenza per chiunque viva qui, burkinabè e stranieri. Piantare un albero fa parte delle richieste minime per essere e rimanere in Burkina. Gli alberi saranno piantati dovunque; voi, compagni della Direzione acque e foreste, avrete il compito di sviluppare il progetto, e anche creare vivai popolari a disposizione di tutti.In tutti i villaggi dovranno nascere piccoli boschi, come nell’antica Grecia. Ne avevamo tanti, i nostri padri ce ne parlavano, per spiegare e inquietarsi di fronte alla desertificazione, alla sahelizzazione galoppante. Boschetti dove approfondire la filosofia comunitaria del villaggio, dove educare ogni bambino, dove iniziare tutti al rispetto di regole vitali. La distruzione dei boschetti ha distrutto la filosofia che li accompagnava e i metodi di organizzazione. Così abbiamo consegnato il nostro paese all’invasione del deserto che lo ha ridotto in polvere.
Ricreeremo i boschetti. Ogni autorità del Burkina Faso – e ciascuno di noi ormai è un’autorità nelle sue peregrinazioni – deve rendere concreto questo principio. Quanto ai forestali rivoluzionari che celebriamo in questi giorni, saranno molto distanti da quelli di ieri, che andavano a far comunella con i bracconieri per degustare le teste di pipistrello e le zampe di rospi della brousse.
La lotta del popolo burkinabè non si può dissociare da quella degli altri popoli. Anch’essi devono impegnarsi nella costruzione di scudi protettivi contro il deserto che avanza. A che cosa potrebbe mai servire un rimboschimento se i paesi che sono a nord, che sono fra il deserto reale e il semi-deserto attuale (la nostra realtà), non si applicano in uno sforzo analogo ed effettivo? Abbiamo il dovere di esigere che anch’essi rimboschino.
Ma per questo, dobbiamo iniziare da noi stessi.
da Carrefour Africain n°880, 26 aprile 1985. Traduzione e adattamento di Marinella Correggia
Più e meno di un Che Guevara africano, di Marco Boccito
Muraglie verdi. Giustizia e ambiente, diritti delle donne e presunto «debito» dell’Africa, disarmo e cultura. Le politiche ante litteram del buen vivir nelle parole e nei fatti concreti di un visionario, il presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, eliminato insieme alla sua rivoluzione il 15 ottobre di trent’anni fa.
Avanza lenta tra mille intoppi la Grande Muraglia Verde, un serpentone alberato che snodandosi dalla Mauritania a Gibuti dovrebbe salvare dal deserto un bel pezzo d’Africa. Burkina Faso compreso. Lanciata dalla Comunità degli stati del Sahel e del Sahara nel 2005, viene definita un’iniziativa «pioneristica», su Wikipedia. Quindi il discorso ai «compagni forestali» di Thomas Sankara che pubblichiamo qui (aprile 1985) quantifica il ritardo accumulato nel frattempo e dimostra come i 30 anni dall’assassinio del suo autore, che ricorrono oggi, siano passati quasi invano.
Quanto in meglio avrebbe cambiato il mondo l’opera che Sankara riuscì solo ad abbozzare, lo si capisce anche da come quella sua visione organica torna ad illustrare oggi le pratiche di tanti movimenti di nuova concezione, alla convergenza tra più fronti. Tra corpi e territori., nella consapevolezza che la liberazione o sarà totale o non sarà.
Ambiente, disarmo, donne, il «debito» presunto, nuovi schiavismi e colonialismi finanziari, sovranità alimentare e cultura, molta cultura, soprattutto sonora e visionaria. Una politica “permaculturale”, in cui l’etica marxista è dinamizzata nel contesto, la «de-crescita» è per forza «felice» e la felicità un diritto. Tutto è ante litteram in Sankara, come forse lo fu solo in Amilcar Cabral, che in più era agronomo e poeta, ma che per passare ai fatti non ebbe poi neanche quei quattro anni, dal 1983 al 1987, in cui il President du Faso scatenò la sua rivoluzione pacifica nel «paese degli integri».
Il «Guevara africano», si è spesso detto. Rispetto al Che, Sankara aveva forse meno esperienza e meno fiducia nelle armi. In compenso sapeva farci con la chitarra. La sua band si chiamava Tout-à-Coup Jazz e anche se lo dice il nome stesso – diffidare anche in questo caso di Wikipedia – non suonava proprio jazz. A noi interessa che mentre lui era un buon chitarrista, al servizio del tutto, il cantante, un certo Blaise Compaoré, narciso e malvagio come solo i cantanti a volte sanno essere, volendo intraprendere una carriera solista decise a un certo punto di uccidere Sankara, e dunque la musica stessa. Seguono 27 anni di silenzio. E buio, malgrado le luci del Fespaco, il festival del cinema africanodi Ouagadougou, ridotto a sinistro bagliore nel post-Sankara.
Oggi, dopo la rivolta popolare che ha cacciato Compaoré, il protagonismo civile di tanti burkinabè sembra sankarismo puro. E se anche le lotte dei Mapuche in Patagonia lo sono, allora sì che questo 15 ottobre è meno cupo dei precedenti.
il manifesto, 15/10/2017