Censurati e/o dimenticati i testi scritti dalle vittime del colonialismo italiano ci inchiodano alle nostre responsabilità e ci aiutano a capire. Suggerimenti e percorsi di Claudio Canal apparsi su Alfabeta2
Gebreyesus Hailu, una storia coscritta
Claudio Canal
Quasi trent’anni fa Gayatri Spivak si chiedeva «possono parlare i subalterni?». Aveva in mente soprattutto le subalterne. Coloro che sono sottoposti a un dominio hanno la possibilità e la capacità di parlare apertamente di se stessi e della loro condizione? Cioè di agire attraverso segni divulgabili e interpretabili, rompendo in questo modo la colata di parole pronunciate per definirli, ingabbiarli e battezzarli? Spivak dava una risposta articolata e in movimento. Storicamente i colonizzati hanno dovuto sgretolare il discorso del colonizzatore, che non solo imponeva il suo potere di senso ma stabiliva anche il vocabolario al quale era costretto il colonizzato, in un estenuante processo di rispecchiamento. È il lavoro rivoluzionario che ha squarciato la maschera del colonialismo e della sottomissione. I subalterni hanno parlato, ma spesso non hanno trovato nessuno all’ascolto.
Sul colonialismo italiano adesso sappiamo molto, grazie a storici che non si sono fatti intimidire (Giorgio Rochat, Angelo Del Boca e in seguito altri). Sappiamo cos’era la macchina colonizzatrice, ma siamo rimasti sordi e disinteressati alle voci colonizzate: quasi a riaffermare che, nel bene o nel male, siamo sempre noi al centro, sempre noi il motore della storia. Inciampare in piazza Massaua, darci appuntamento in viale Derna o in piazza dei Cinquecento, abitare in via Dogali, non aggiunge niente alla nostra ignoranza consolidata di quello che è stato l’imperialismo italiano.
Sono trascorsi più di ottant’anni e ancora non ci arriva alle orecchie Il mio solo tormento, poema composto e recitato da Rajab al-Manfi in un terribile campo di concentramento italiano in Libia nel 1931/32 (rinvio al manifesto del 3 giugno 2015). Ne sono passati novanta e non abbiamo mai sfogliato Una storia. Hade Zanta, romanzo scritto nel 1927 da Gebreyesus Hailu in tigrino, una delle principali lingue della «colonia primigenia» italiana, l’Eritrea: tra i primi, se non il primo romanzo africano in lingua non coloniale. Le autorità italiane naturalmente non permisero allora la sua pubblicazione, anche se il romanzo ebbe ampia circolazione come racconto orale. Verrà stampato ad Asmara solo nel 1953, quando gli italiani se ne erano ufficialmente andati da più di dieci anni. Nel 1984 lo scrittore keniota Ngũgĩ Wa Thiong’o rivendicava per gli autori africani non il diritto bensì il dovere di esprimersi nelle lingue africane anziché in quelle coloniali, se si voleva «decolonizzare la mente». Hailu, che morirà nel 1993, la mente se l’era decolonizzata diversi decenni prima: le sue strategie testuali mostrano una chiara intenzione di educare i suoi conterranei a rigettare le premesse razziste del colonialismo italiano. Nel 2013 Hade Zanta viene tradotto in inglese da Ghirmai Negasi, per l’Ohio University Press, con il titolo The Conscript.
La cronologia è pedante, ma scolpisce i tempi di una rimozione colossale. Quando il romanzo fu scritto il colonialismo italiano, «proletario» o «straccione» che fosse, era in piena espansione, stava cercando di domare col ferro e col fuoco la resistenza dei libici e all’orizzonte appariva la nuova preda: faccetta nera, bell’abissina, l’Etiopia. Non esisteva ancora il post-colonialismo, l’incontro/scontro coloniale era nel vivo, così come lo è oggi in Palestina. Era forte però il sentimento anticoloniale. Nel romanzo breve di Hailu, futuro prete cattolico, il colonizzato riflette su se stesso, lavora sulla propria autonomia, si slega dalla gabbia mentale in cui è costretto dal dispositivo coloniale. Tuquabo, il giovane protagonista, è un volontario che si arruola in un reggimento «indigeno» dell’esercito coloniale italiano. È un ascaro, parola oggi quasi svanita dal vocabolario corrente e seriamente in pericolo di passare a designare fastidiosi parassiti. I soldati eritrei, inquadrati da ufficiali italiani, vengono portati in treno dall’altipiano a Massaua e di qui, via mare, in Libia: perché devono combattere contro i libici che si stanno opponendo armi in pugno all’occupazione italiana e al decantato Impero.
Doveva essere un’affascinante avventura bellica, per un ragazzo che veniva da uno sperduto villaggio eritreo, e invece si trasforma in un doloroso viaggio dentro se stesso e la propria gente. Vede morire in combattimento i compagni, li vede perdersi nel deserto. Per chi, poi? Per comandanti che in fondo li disprezzano, per consolidare un progetto coloniale di cui erano loro stessi vittime. Vede la fermezza dei resistenti libici e capisce che non sono loro i suoi veri nemici, che invece combattono una guerra che potrebbe anche essere la sua. Tuquabo si rende conto di essere uno strumento in mano agli italiani dai quali, al pari di tutti i colonizzati, è trattato come un bambino o come un animale. Sa anche di non poter risolvere tutto nell’opposizione oppressore/oppresso, e che esiste un coinvolgimento, se non una vera e propria complicità, tra gli ascari eritrei e l’esercito coloniale, che ci sono zone di contatto tra apparati coloniali e soggetti colonizzati. Non esiste ancora né la parola né il concetto di post coloniale, ma Hailu preconizza entrambi nell’unico modo plausibile, ossia con l’anticolonialismo: nella maniera che Pasolini chiamerà La grazia degli Eritrei.
Quasi a un secolo di distanza noi abbiamo cominciato a capire, grazie in particolare ai contributi di Uoldelul Chelati Dirar, che il ruolo degli ascari è stato importante nell’immaginare una nazione eritrea, e dunque a trasferire nel futuro la colonialità. A quel tempo Tuquabo lo percepiva confusamente e doveva rendere conto, prima di tutto a se stesso, della sofferenza che provava e che Gebreyesus Hailu riepiloga nell’ultima scena del romanzo: Tuquabo è tornato a casa, dopo due anni di guerra italiana in Libia, nel frattempo la madre è morta e lui, sopraffatto dall’emozione, intona un lamento funebre, un melqes, col quale riconosce la sua responsabilità: se n’è andato per vanità, per spirito di avventura, per sete di eroismo virile, per stare dalla parte del più forte, ma d’ora in poi basta con l’Italia e i suoi tormenti che mi hanno allontanato dalla mia terra e dai genitori, basta con l’arruolamento e le medaglie italiane. Addio alle armi!
Una bibliografia:
Gebreyesus Hailu, The Conscript, A Novel of Libya’s Anticolonial War, traduzione di Ghirmai Negasi, introduzione di Laura Chrisma, Ohio University Press 2012: http://www.ohioswallow.com/book/The+Conscript
Tesi di laurea di Abraham Zere, Narration in Gebreyesus Hailu’s The Conscript, 2014. Center for International Studies of Ohio University: https://etd.ohiolink.edu/!etd.send_file?accession=ohiou1407920806&disposition=inline
Ghirmai Negash, Native Intellectuals in the Conctat Zone: African Responses to Italian Colonialism in Tigrinya Literature, in «Biography», 1, 2008: http://www.jstor.org/stable/23540870?seq=1#page_scan_tab_contents
Uoldelul Chelati Dirar, Fedeli servitori della bandiera? Gli ascari eritrei tra colonialismo, anticolonialismo e nazionalismo (1935-1941), in Riccardo Bottoni, L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941), il Mulino 2008: https://www.academia.edu/1336476/Fedeli_servitori_della_bandiera_.Gli_ascari_eritrei_tra_colonialismo_anticolonialismo_e_nazionalismo_1935-1941
Si veda anche:
Colonialism and the Construction of National Identities: The Case of Eritrea, in «Journal of Eastern African Studies», 1-2, 2007
From Warriors to Urban Dwellers. Ascari and the Military Factor in the Urban Development of Colonial Eritrea, in «Cahiers d’études africaines», 3, 2004: https://www.academia.edu/1332472/From_Warriors_to_Urban_Dwellers._Ascari_and_the_Military_Factor_in_the_Urban_Development_of_Colonial_Eritrea
Due significative recensioni a The Conscript nel n. 1 del 2014 del «Journal of Eritrean Studies» (jerstudies@gmail.com)
Molto interessante Irma Taddia, Autobiografie Africane. Il colonialismo nelle memorie orali, Franco Angeli 1996; Francesca Locatelli, «Oziosi, vagabondi e pregiudicati»: Labor, Law, and Crime in Colonial Asmara, 1890-1941, in «The International Journal of African Historical Studies», 2, 2007:http://www.jstor.org/stable/40033912?seq=1#page_scan_tab_contents
Di Ngũgĩ Wa Thiong’o è stato finalmente reso disponibile in italiano Decolonizzare la mente, traduzione di Maria Teresa Carbone, Jaca Book 2015.
All’inizio mi riferivo a Gayatri Chakravorty Spivak e al suo Can the Subaltern Speak?, in Ead.,Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press 1988. Oggi è disponibileCritica della Ragione Postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, traduzione di Gabriele D’Ottavio [complimenti!], Meltemi 2004, testo impegnativo e folgorante.
Chi cercasse un diverso avvicinamento al colonialismo in Eritrea, legga di Erminia Dell’Oro i romanzi: Asmara Addio, Dalai 1993, e L’abbandono, Einaudi 1991.
Alfabeta2, AlfaDomenica, 15 maggio 2016