di Guido Caldiron
«Per immaginare il futuro della sinistra non conta tanto stabilire da dove veniamo, ma dove vogliamo andare. Non è importante se uno è ecologista, socialista o comunista, la stagione dei partiti è finita in ogni caso. Penso che oggi non abbiano più senso né i partiti-azienda né i partiti-macchina: credo che dovremmo tutti immaginarci qualcosa di diverso, inventare una cooperativa politica, capace di tradurre una tendenza in strategia. E’ necessario ripoliticizzare la società civile e, contemporaneamente, civilizzare la società politica».
Daniel Cohn-Bendit questa sua formula la va ripetendo da tempo, già da prima delle recenti elezioni regionali che hanno visto la formazione di Europe Écologie, di cui è stato uno dei fondatori, raccogliere il dodici e mezzo per cento dei consensi, dopo che alle europee del 2008 aveva toccato il sedici.
Figlio di ebrei tedeschi rifugiatisi in Francia durante il nazismo, Cohn-Bendit è stato uno dei protagonisti del Maggio ’68 parigino. Approdato al movimento dei Verdi è stato eletto nel 1989 al consiglio comunale di Francoforte, dove è diventato responsabile per gli affari multiculturali. Dal 1994 è deputato europeo. La sua proposta per la costruzione di una nuova sinistra è stata raccolta nel volume Che fare? pubblicato recentemente da Nutrimenti (pp. 144, euro 12.00).
All’indomani delle recenti elezioni regionali francesi lei ha ribadito un tema su cui sta riflettendo da tempo, quello della fine dei vecchi partiti novecenteschi. Ci può spiegare di che si tratta?
E’ la forma tradizionale di organizzazione dei partiti, così come si è andata definendo nel corso del Novecento, che penso debba essere messa in discussione oggi. Allo stesso modo è un parte del bagaglio ideologico della sinistra, ma anche della destra, che deve essere rivisto: in particolare tutto ciò che è legato all’idea che basti la semplice crescita economica per risolvere ogni problema di redistribuzione della ricchezza e di uguaglianza sociale. Credo che in questo nuovo millennio non si possano più affrontare le cose in questi termini, del resto le nuove povertà e le nuove esclusioni che crescono proprio nei paesi più ricchi e sviluppati sono lì a dimostrarlo.
In quest’ottica, quale percorso auspica per la sinistra?
C’è bisogno che tutta la sinistra si interroghi in modo nuovo, al di là delle diverse sensibilità che esprime attualmente: dai socialdemocratici alla sinistra radicale fino a ciò che io definisco come una nuova posizione politica emergente, vale a dire quella incarnata dall’ecologia. Si dirà che l’ecologia non rappresenta più una novità dell’ultima ora, eppure credo che continui a sfidare l’identità più “tradizionalista” delle sinistre, le loro storie e le loro forme di presenza e azione nella società, il loro stesso modo di fare politica. Ecco, intanto si potrebbe ripartire da questa sfida che mi sembra molto interessante e, potenzialmente, prolifica.
Lei ha detto che i partiti sono morti e che la forma di aggregazione a cui pensa è quella della cooperativa: ma cosa rappresenta una coop in politica?
Parlare di “cooperativa” riguardo alla politica significa un po’ tornare a una parte del nostro patrimonio politico, quella rappresentata dalle pratiche e dall’idea dell’autogestione. Io ne parlo per indicare la ricerca di forme di cooperazione politica che sappiano sottrarsi alla solita “macchina della politica” gerarchizzata e sempre pronta a strumentalizzare la disponibilità e la passione dei militanti. Penso a una “cooperativa politica” dove ciascuno conta per quello che fa, e ogni elettore può far pesare il suo voto, senza che su tutto questo si produca la solita formazione di stati maggiori e di funzionari. Se oggi c’è qualcosa di nuovo che si sta mettendo in moto nella società, non si deve fare l’errore di affidare all’ennesimo “nuovo” partito questa dinamica: si deve immaginare una forma nuova che rispetti la pluralità e, al contempo, la singolarità delle sue componenti.
In “Che fare?” ha scritto che solo questa “nuova politica” potrà cogliere appieno le trasformazioni avvenute nella sfera produttiva e il diffondersi di quel capitalismo cognitivo che sfrutta ogni forma di relazione umana e di sapere. In quale modo potrà avvenire?
Diciamo che la società cognitiva in cui siamo immersi ci consente di immaginare anche nuove forme per l’organizzazione politica, per esempio utilizzando la rete, dove gli scambi sono immediati e privi di “gerarchia”. In questa prospettiva, di una società più libera e aperta, possiamo immaginare che proprio il nuovo ruolo assunto dal sapere ci indirizzi verso il superamento delle fondamenta stesse del capitalismo.
Oggi in Europa non ci si misura solo con la crisi delle sinistre, ma con una potente ventata di destra, se non una vera e propria Rivoluzione Conservatrice che accompagna e interpreta una ristrutturazione economica e sociale. L’ultimo paese da cui è venuto un tale segnale è l’Ungheria dove si è votato nel weekend. Cosa ne pensa?
Intanto, proprio in Ungheria si è assistito alla spettacolare crescita dell’estrema destra razzista e antisemita e della nuova destra neoliberale, al crollo della socialdemocrazia locale, proveniente daggli ambienti postcomunisti, ma anche dall’affermazione, ed è la prima volta in un paese dell’Est, di una forza ecologista di sinistra che ha raccolto circa il sette per cento dei consensi. Quindi anche qui si misurano più o meno le stesse tendenze che vediamo all’opera in Italia o in Francia o in altri paesi più ricchi e organizzati. L’ecologia politica emerge come la migliore risposta alla deriva autoritaria neoliberale, quando non apertamente venata di fascismo, che si sta sviluppando nelle nostre società. Di fonte alle inquietudini sorte nell’ambito delle società globalizzate le due ipostesi sono in campo: personalmente considero l’ecologia la vera alternativa alle spinte reazionarie.
Quindi, come uscire dalla crisi sociale e politica contrastando le spinte regressive e razziste che emergono un po’ ovunque in Europa?
Bisogna mettere la società davanti alle proprie responsabilità. Alla crisi legata alla globalizzazione e alle forme di funzionamento del capitalismo, si può rispondere con l’individualismo generalizzato – in Italia avete un’ottima formula, quella di qualunquismo, per descrivere questa tendenza – incarnato ad esempio dalla figura di Silvio Berlusconi, oppure con la costruzione di una nuova solidarietà. E’ questo il vero tema che fa da sfondo al dibattito che si è aperto nella sinistra europea: un altro modo di fare e vivere la politica e un’innovazione potente nel linguaggio come nelle proposte può cercare di far pendere le nostre società verso lo spazio di una nuova solidarietà, piuttosto che in quello dell’individualismo dove crescono le nuove destre e il razzismo.
Ci sono delle nuove parole d’ordine per spiegare tutto ciò alle persone?
Non è con le parole d’ordine che si possono convincere le persone, ma con una nuova credibilità nel proprio comportamento politico. E soprattutto con una nuova politica.
Liberazione, 13/04/2010