Genealogia della buona scuola
Giorgio Mascitelli
Con la pubblicazione del documento La buona scuola. Aiutiamo l’Italia a crescere Matteo Renzi e i suoi collaboratori hanno voluto rendere edotto il pubblico sui progetti e l’attività di riforma del governo nel comparto scolastico. Il documento ha carattere divulgativo, fin nell’impaginazione direi, e pertanto sorvola su parecchi dettagli tecnici limitandosi a enunciare obiettivi e a indicare in linea di massima le vie per realizzarli, con l’unica eccezione della carriera dei docenti trattata abbastanza diffusamente e in maniera cogente per l’amministrazione, oppure investe di una dimensione e di un colore progettuali provvedimenti già in vigore, come nel caso della valutazione del sistema scolastico. Proprio questa assenza di particolari, che poi solo apparentemente sono secondari visto che sono gli aspetti giuridici, regolamentari, organizzativi e finanziari che consentono di farsi un’idea precisa sul funzionamento del dispositivo, rende il testo un’interessante testimonianza di un’idea generale di scuola.
Chiaramente questo documento si presenta in continuità con la riforma Berlinguer e le altre che la hanno seguita e soppiantata e soprattutto con quelle raccomandate dall’Unione Europea e auspicate dall’OCSE, alla prima delle quali istituzioni le abbiamo promesse ( e si sa che ogni promessa è debito, specie se si hanno anche debiti di altro genere). L’enfasi posta sulla centralità dell’inglese e dell’informatica, sull’alternanza scuola lavoro, sull’autonomia degli istituti, sulla loro valutazione, sull’organico funzionale, sullo sviluppo delle competenze anziché dei saperi, sull’introduzione di differenze salariali, non basate sull’anzianità per i docenti di fatto è stata il comun denominatore del discorso sulla scuola in questi anni. È tuttavia analizzando un paio di particolari stilistici del testo renziano, che si può cogliere il quadro ideologico ispiratore.
Non alludo certo alla selva di anglismi presenti nel testo che fanno parte di un folclore managerialminesteriale di pertinenza più che altro degli antropologi culturali, anche se l’annuncio conclusivo che non si terranno convegni per dibattere del progetto ma solo codesign jams, barcamp or worldcafé, è un evidente adescamento della Musa del sarcasmo che si cela in ciascuno di noi. È di maggior interesse, invece, ciò che è stato notato da molti ossia che questo insieme di provvedimenti non viene più chiamato riforma ma patto. In questo caso gli estensori del documento hanno lavorato con saggezza e aderenza ai principi della piena comunicatività del nostro tempo: hanno compreso che il termine riforma è ormai talmente usurato che, persa la sua connotazione positiva, ne ha ormai soltanto una negativa, che richiama la negazione di diritti e di risorse. L’abbandono del termine riforma è significativo anche per un altro aspetto: questa parola infatti implica una sfumatura di definitività o quanto meno di stabilità. L’adozione di una riforma comporta inevitabilmente che il campo oggetto della stessa funzioni per un lasso di tempo, quanto meno pluridecennale, sulla base delle nuove regole.
Per la scuola invece è previsto, come del resto è successo negli ultimi venti anni, una sorta di cambiamento permanente che serva a giustificare una mobilitazione totale in vista dell’adeguamento alle sempre nuove esigenze economiche, organizzative, ideologiche. In particolare queste ultime sono di particolare rilievo: man mano che la crisi perdura, la disoccupazione cresce e le disuguaglianze sociali aumentano, l’inadeguatezza della scuola è e sarà sempre più indicata come responsabile principale di questi fenomeni per non mettere in discussione le politiche neoliberiste.
Ecco dunque che parlare di riforma in una scuola in perpetuo movimento, o meglio mobilitazione, avrebbe un effetto involontariamente demistificante, richiamando un orizzonte di tempo dotato di senso. Viceversa il termine patto non solo è meno impegnativo da questo punto di vista, ma è più simpatico perché questa parola è già presente nel linguaggio scolastico, richiama una dimensione contrattuale, libera e paritaria, e non ricorda invece qualcosa di riconducibile a scelte politiche.
Un altro elemento di grande interesse è che la possibilità per le scuole di scegliere i propri docenti non sulla base delle graduatorie venga definita “la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”. Si tratta di una metafora sportiva, che ha già conosciuto nel nostro paese e non solo in esso un grande successo, anche se finora era stata usata perlopiù per le competizioni elettorali o le trattative politiche. Questa metafora chiarisce che l’istruzione è una competizione e quindi bisogna vincerla. Pertanto tutti coloro che sono della partita sono tenuti a comportamenti esemplarmente agonistici perché va da sé che una squadra vince solo se è compatta e determinata (e naturalmente manda in panchina chi gioca male). La metafora sportiva non è qui un’ingenuità o una superfetazione retorica, ma ribadisce l’unica dimensione pedagogica significativa per le classi dirigenti del neoliberismo: quella dell’educazione alla competitività. Siccome l’homo economicus avido, libero e intraprendente non è una specie così diffusa in natura, ecco che tocca all’istruzione produrlo creando un ambiente naturalmente competitivo.
Naturalmente nel documento sono presenti obiettivi educativi relativi all’inclusione e non mancano citazioni di Montessori o don Milani, nel giusto spirito ecumenico che ci ricorda che siamo tutti, da Che Guevara a Madre Teresa, parte della famiglia umana e così via. Il documento però resta una testimonianza paradigmatica dell’ideologia neoliberista, ma sarebbe sbagliato vedere in ciò un salto di qualità renziano. Al contrario nella scuola il grande rottamatore è semplicemente il grande prosecutore delle politiche dei governi di centrodestra e centrosinistra che lo hanno preceduto.
Alfabeta2, 13/10/14
Non ti meriti proprio niente!
Giuseppe Caliceti
Leggi il documento on line La Buona Scuola e pensi subito: cosa c’è di meglio in Italia di un governo di centrosinistra per portare a termine una politica scolastica di destra? Siamo infatti di fronte alla Scuola del Merito. Ti accorgi che Renzi intende realizzare provvedimenti già introdotti dai luogotenenti berlusconiani e rimasti a metà. Esempio: Decreto legislativo 27 ottobre 2009, n.150, detto Legge Brunetta anti fannulloni: Art.19 comma 2) «…a) il 25 per cento è collocato nella fascia di merito alta… b) il 50 per cento in quella intermedia… c) il restante 25 per cento è collocato nella fascia di merito bassa alla quale NON corrisponde l’attribuzione di alcun trattamento accessorio collegato alla performance individuale». La Buona Scuola: da qui fino al 2019 solo il 66% dei docenti meritevoli avrà qualche euro in più e il 33% di immeritevoli resterà al palo. Ecco, questa è la meritocrazia di cui si parla: un modo per penalizzare ulteriormente un terzo dei docenti italiani. Già i meno pagati in Europa. Il ricatto è lo stesso che si fa a tanti giovani di oggi: o così, o niente.
Fantascienza? No. Se si pensa che in Emilia Romagna, e in altre regioni «virtuose», i docenti di sostegno statali ai bambini disabili sono ormai sostituiti per più della metà delle ore da educatori di cooperative sociali a 5 euro nette all’ora, meno di una babysitter, è chiaro che per lo Stato italiano un docente pagato la miseria di 15 euro l’ora è già troppo. L’ideologia meritocratica è il contrario esatto dello slogan «Noi siamo il 99%» del movimento Occupy Wall Street. Siamo all’Uno-Su-Mille-Ce-La-Fa. O un milione: che non ce la fanno. Non ce la devono fare. Perché è giusto così. È naturale così. Devono risultare, agli occhi di tutti e, soprattutto, di se stessi, persone indegne.
L’ideologia meritocratica iniettata a partire dai sei anni di età ai bambini nella scuola pubblica è il modo più efficace per fascistizzare democraticamente la nostra società. E rassicurare le élite economiche e politiche. Come? Proprio con l’inganno del merito. Inscenando una gara del merito alla pari tra tutti i cittadini, sorvolando sul fatto che alla grande maggioranza di loro non sono garantite pari opportunità e diritti, perché partono fortemente svantaggiati. Sono perdenti già prima che l’ipotetica gara inizi. Sono a priori immeritevoli. Siamo di fronte a un’ideologia totalitaria e razzista. Siamo alla colpevolizzazione dei più poveri e dei più bisognosi. La scuola del merito non è più la scuola di cui si parla nella Costituzione.
Tanti oggi sono a favore del merito: lo ritengono il contrario del clientelismo. In realtà il merito è l’idea più rapida e primitiva per confluire verso politiche antidemocratiche. Ma il segretario del Pd, all’ultima Festa dell’Unità di Bologna, ha sdoganato il merito anche a Sinistra. Parlando di scuola. D’altra parte, già nel 2012 il rettore piddino dell’università di Bologna dichiarava: «La meritocrazia deve far rima con democrazia». Certamente, nell’insistente invocazione al merito e nell’attacco all’uguaglianza dei diritti di questi anni, è nascosto il malessere verso tante difficoltà e debolezze delle nostre democrazie. Ma parlando di merito già nella scuola dell’obbligo, esse non si combattono, ma si accentuano. Funzione primaria del merito è, infatti, sterilizzare ogni tipo di naturale invidia e rivincita sociale – il poeta Edoardo Sanguineti lo avrebbe chiamato odio di classe – che da sempre anima ognuno di noi quando ambisce legittimamente a migliorare la propria condizione sociale. Qual è dunque la reale funzione di chi straparla di merito? Magari perché, anche a sinistra, ritiene la parola «uguaglianza» poco di moda e datata? Giustificare i privilegi di alcune persone su altre, sostituendosi ai vecchi criteri che in passato erano basati principalmente su eredità, corruzione, nepotismo.
il manifesto, 11/10/14
La scuola tedesca
Il metodo scolastico tedesco viene sempre sbandierato da Renzi come il migliore, l’unico da importare in Italia. Ma funziona davvero?
Jacopo Rosatelli
L’opinione dominante è sempre la stessa: la Germania è un modello da imitare. In tutto, e quindi anche nel sistema educativo: ci dovrà pur essere un nesso tra le buone performance economiche e la bravura dei suoi scolari, o no? A pensare così è sicuramente il nostro premier Matteo Renzi, che non si lascia sfuggire occasione per dichiararsi estimatore dell’’istruzione made in Germany. Il leader del Pd apprezza, in particolare, quell’alternanza scuola-lavoro grazie alla quale i ragazzini tedeschi possono svolgere l’ultimo triennio di obbligo formativo divisi fra un istituto professionale e un’impresa: qui starebbe uno dei segreti del successo della locomotiva d’Europa.
Tutto può essere. E in Germania nessuno – nemmeno a sinistra – mette in discussione questo genere di percorso educativo, che si affianca a quello liceale e a quello tecnico-professionale puramente scolastico. Forze politiche progressiste e sindacati si concentrano semmai nel chiedere che i giovani possano poi davvero restare a lavorare nelle aziende dove sono stati formati, mentre ora accade soltanto in una minoranza di casi. Non solo: qualcuno (ad esempio la Linke principale partito di opposizione) chiede che il compenso che percepiscono gli «studenti-lavoratori» corrisponda a un vero e proprio salario con il quale potersi mantenere. Oggi, invece, capita che un apprendista parrucchiere in un Land orientale guadagni la miseria di 206 euro al mese.
Avanti con le «riforme», dunque, e importiamo in Italia senza indugio insieme alle auto e agli elettroutensili di altissima precisione anche il sistema scolastico teutonico? Prima di farlo, occorre essere consapevoli che il «modello di successo» si regge su una filosofia ben precisa: la selezione precoce dei bambini. Fra quelli «destinati» a luminose carriere da classe dirigente, e quelli che invece troveranno il loro posto come lavoratori manuali in posizione di subordinazione. Fra chi «deve» andare all’università e chi è meglio che entri in fabbrica (o in un cantiere o negozio…) il più presto possibile. L’età in cui avviene la scelta decisiva? Dieci anni. Quando cioè si conclude il primo ciclo scolastico, quello della Grundschule, l’unico uguale per tutti. Quello è il momento in cui i bambini vengono indirizzati verso «un’istruzione generale basilare» oppure «un’istruzione generale accresciuta» oppure «un’istruzione generale approfondita». Ciascun livello corrisponde a una tipologia di scuola: Hauptschule, Realschule e Gymnasium. Nei primi due anni del secondo ciclo, ai «migliori» è consentito il passaggio da un livello all’altro: quindi, dopo i dodici anni rien ne va plus.
Nonostante il triennio superiore di alternanza scuola-lavoro sia condiviso in modo generalizzato, esistono voci critiche su ciò che viene prima. Le varie forze di sinistra, compresa quella piuttosto annacquata dei socialdemocratici, sono concordi nel sostenere un modello di scuola unitaria, o comunque un po’ meno classista. E in qualche Land accade, per fortuna, che ai ragazzi siano offerti percorsi che li portano a separarsi fra di loro più tardi, cioè al decimo anno scolastico: una possibilità concessa dal fatto che nella Repubblica federale l’ordinamento scolastico è una competenza esclusiva delle singole regioni (o stati federati, che dir si voglia). La prima «scuola media uni ficata (Gesamtschule)» nacque – e non a caso – nella rivoltosa Berlino ovest nell’anno di grazia 1968. Al di là del Muro, nella Germania realsocialista, la scuola unitaria era la regola ovunque.
Una larga messe di studi mostra che le condizioni di partenza diseguali non vengono superate: solo una piccola minoranza di chi frequenta il Gymnasium, cioè la scuola dei «migliori», proviene dalle famiglie dei ceti più popolari. E se si tratta di migranti, i numeri si fanno ancora più impietosi: non aiuta, ovviamente, il fatto che negli ultimi anni si siano create scuole-ghetto dove i genitori tedeschi non iscrivono più i loro figli. L’esempio forse più noto è quello della Rütli-Schule del quartiere Neukölln a Berlino, dove il 90% degli alunni è di origine non-tedesca: alcuni anni fa guadagnò la ribalta della cronaca per numerosi episodi di violenza e degrado, ora è oggetto dell’attenzione delle istituzioni con moltissimi progetti di sostegno all’integrazione e al successo scolastico.
Prima di importare il sistema della Germania, quindi, bisognerebbe pensarci. E se proprio si vuole si potrebbe cominciare però dal diffuso stile educativo antiautoritario, e dalle materie che da noi sono completamente dimenticate o quasi. L’educazione sessuale, ad esempio: prevista dalle leggi di molti Länder con la finalità di «determinare la propria vita in libertà e responsabilità», «preparare gli studenti a rapporti paritari con il/la partner» e sviluppare «il consenso verso l’esistenza di differenti orientamenti sessuali» (qui citiamo dalla normativa del Nord-Reno Vestfalia).
E l’educazione civica, importantissima. Agli studenti sono insegnati i valori della democrazia nata dalla sconfitta del nazismo, ma senza che ciò si traduca in prediche inascoltabili impartite ex cathedra: al centro della disciplina c’è lo sviluppo di uno spirito critico orientato a cimentarsi con i problemi e le controversie del presente. Imparando, nei limiti del possibile, anche il valore del conflitto. E il diritto alla resistenza contro il potere ingiusto, riconosciuto in Germania persino dalla Costituzione.
il manifesto, 11/10/14
La scuola inglese
Metodo scolastico inglese: dalla Thatcher ai laburisti fino ai tory, come ti distruggo il welfare e consegno gli studenti al privato
Leonardo Clausi
Una delle caratteristiche salienti dell’assetto scolastico britannico dal secondo dopoguerra è la condotta quasi del tutto bipartisan tenuta nei suoi confronti da Tories e Labour. Una quasi unanimità, scaturita inizialmente dal consenso fordista basato sul welfare, che è passata indenne attraverso l’era thatcheriana e la privatizzazione — quando non il completo smantellamento — dello stato sociale che vi ebbero luogo.
Benché consacrata anima e corpo a quell’ideologia neoliberista il cui presupposto fondante è la netta revoca del ruolo stato e del settore pubblico in generale dalla vita dei cittadini, Margaret Thatcher, che dal 1970 al 1974 ricoprì la carica di Secretary of State for Education (grossomodo equivalente al nostro ministero della pubblica istruzione), sovrintese alla creazione del maggior numero di comprehensive schools (scuole medie superiori) di qualsiasi altro collega nella stessa carica prima o dopo di lei. Semplicemente perché sarebbe stato troppo complesso e costoso invertire il processo, iniziato sotto i laburisti.
Le comprehensive sono scuole superiori statali introdotte nel 1965 in Inghilterra e in Galles che non pongono limiti qualitativi ai requisiti dello studente per garantirgli l’accesso, e tantomeno discriminano in base al censo: sono frequentate dal 90 percento degli studenti britannici. Si distinguono dalle assai più sparute – ne restano 164 — grammar schools, per accedere alle quali è necessario un test d’ammissione e che sono retaggio del nemmeno troppo carsico dna classista del paese.
Ma se, da education secretary, Thatcher si era dovuta piegare alle sinergie predicate nel dopoguerra, una volta divenuta primo ministro avrebbe coscienziosamente ripudiato tale approccio, da lei considerato un nefasto fattore egualitario abbracciato dai laburisti nella pubblica istruzione non meno che negli altri servizi civili e sociali, nonché un relitto dell’economia mista di stampo keynesiano.
L’agenda di Thatcher, una volta premier – mutare il consenso fordista basato su economia reale e welfare in quello postfordista, grazie al binomio tagli al welfare/deregulation finanziaria – è filtrata pressoché indenne nella lezione blairiana fatta propria dalla socialdemocrazia europea (la stessa che con vent’anni di ritardo Renzi sta «ottimisticamente» cacciando giù per la strozza agli italiani).
In cosa consisté un simile sconvolgimento della pubblica istruzione? In una manovra di graduale privatizzazione naturalmente, tutt’altro che osteggiata nel successivo premierato di Blair. La facoltà di fare e disfare trama e ordito dello stato da parte della maggioranza di governo di turno in Gran Bretagna è data, naturalmente, dall’assenza di costituzione scritta. Il potere centrale si era fino allora affidato alla delocalizzazione specialistica della competenza, lasciando cioè agli addetti ai lavori – insegnanti, sindacati d’insegnanti, professori, funzionari scolastici — il compito di tenere la barra dell’istruzione nazionale, fidando nelle loro capacità di prendere le giuste decisioni per il bene degli studenti e delle famiglie, limitandosi a finanziarne le iniziative.
Ma con la crisi economica della fine degli anni Settanta, la controffensiva neoliberista capitanata da Thatcher prese di mira soprattutto la cultura politica di questi stessi addetti ai lavori. Rei di essere troppo contaminati da permissive ideologie socialiste, sessantottine e libertarie, corpo docente e funzionari scolastici furono additati a concausa della dissoluzione della famiglia nucleare, vecchio bastione ideologico dei conservatori della cui difesa ad oltranza l’allora Primo Ministro aveva fatto il caposaldo della propria politica.
Arrivata dunque al potere nel 1979, mossa dall’astio ideologico nei confronti di quella che considerava una conventicola di hippies, Thatcher cominciò la rifondazione sistematica dell’assetto della pubblica istruzione nazionale, rimasta finora relativamente immutata dagli anni Trenta. Con Kenneth Baker, suo education secretary dal 1986 all’89, promulgarono lo spartiacque dell’Education Reform Act del 1988, i cui principi a tutt’oggi sovrintendono la struttura della pubblica istruzione nazionale.
Le scuole primarie e secondarie sono gestite secondo i principi dell’«open enrolment» (iscrizione aperta) e del «local management». In base ad essi, le scuole medie e superiori devono iscrivere tutti i bambini i cui genitori facciano richiesta, per poi ricevere automaticamente i fondi necessari all’educazione dello scolaro e del cui uso ha piena discrezione. Questo significa creare un’ibridazione fra società e mercato in cui la scuola diventa un’azienda come un’altra, il cui successo dipende dalla qualità e desiderabilità dei prodotti, nella fattispecie i buoni risultati degli studenti agli esami, a loro volta forieri di abbondante clientela (iscrizioni) e quindi di sovvenzioni statali.
La qualità della scuola è monitorata regolarmente da un’agenzia di controllo, Ofsted, le cui ispezioni sono temutissime dagli staff degli istituti in difficoltà. Chi fa bene si merita un bollino di qualità come una bottiglia di rosso doc, nella fattispecie uno striscione colorato appeso all’ingresso della scuola. Le scuole che invece ottengono scarsi risultati sono additate al pubblico ludibrio, oltre a ricevere sanzioni disciplinari e a perdere iscritti. Una logica di soddisfatti o rimborsati, in cui le famiglie/clienti sono supremo giudice del rendimento della scuola è succeduta al sistema precedente, dove erano le istituzioni locali a decretare chi andava in quale scuola ed erogava i fondi. Così, il settore privato continua a ingoiare vaste fette della succulenta torta dell’istruzione.
Una tendenza che il recente ministro Tory Michael Gove, noto altresì per la stretta autoritaria che ha voluto imprimere a livello disciplinare (non che non vi siano grossi problemi in questo senso, come prova il recente omicidio dell’insegnante di spagnolo Ann Maguire in una scuola di Leeds da parte di un alunno sedicenne) ha rafforzato con la recente istituzione delle free school e la conferma delle academy: le prime sono scuole del tutto autonome, create dai genitori degli alunni secondo le proprie convinzioni culturali e religiose, sono sovvenzionate dalle autorità locali e non dallo stato, e non devono seguire il national curriculum (l’insieme stabilito per legge delle materie insegnate). Le seconde erano state istituite già dai laburisti per risollevare scuole in aree socialmente depresse grazie all’attrazione di sponsor privati (gruppi religiosi, istituti di beneficienza, altre scuole private).
Le free schools di Gove, che ha proseguito nella tradizione di attaccare indefessamente la cultura politica degli educatori, sono già più della metà delle scuole secondarie nazionali. Molte stanno dando prova di aver peggiorato il livello dell’insegnamento e del rendimento degli alunni, anziché elevarlo. L’assetto istituzionale del paese fa sì che le riforme non possano dimostrarsi riuscite che in corso d’opera. E se falliscono è troppo tardi, il danno è subito. Non che un simile rischio dissuada il Labour qualora vinca le prossime elezioni: l’attuale ministro ombra della pubblica istruzione, Tristram Hunt, non intende disfare quanto fatto dal predecessore ma solo introdurre dei correttivi, sempre nel segno della logica bipartisan di cui sopra. Sia il centrodestra che il centrosinistra abbracciano lo stesso feticcio meritocratico sbandierato ormai ossessivamente anche in Italia.
il manifesto, 11/10/14
La scuola in Francia
Malgrado la crisi, in Francia il budget per la scuola resta il principale capitolo di spesa pubblica. Eppure le aule fanno i conti con le discriminazioni e la tendenza in crescita dell’abbandono degli studi
Anna Maria Merlo
In Francia ci sono 66 milioni di specialisti della scuola, tanti quanto gli abitanti del paese. Essendo uno dei paesi europei che fanno più figli, tutti hanno in un modo o nell’altro a che fare con la scuola. Intanto, c’è il peso della storia: è la scuola pubblica, laica, repubblicana e gratuita (in Francia anche i libri sono gratis fino alla fine del liceo) che ha costruito la Francia, il maestrodella terza repubblica, hussard de la République delle leggi di Jules Ferry, è una figura che permane nella mitologia nazionale. Ancora oggi, malgrado la crisi, il budget per la scuola resta il principale capitolo di spesa pubblica (e nella finanziaria 2015, piena di tagli, sarà in aumento del 2,4%).
Questo investimento, anche sentimentale, nella scuola pubblica rende tanto più frustranti i confronti internazionali. I francesi aspettano con ansia ogni anno i risultati dell’inchiesta Pisa dell’Ocse e si rammaricano per i mediocri risultati. Secondo il rapporto Pisa del 2012, la scuola francese sarebbe il sistema che rafforza di più le ineguaglianze sociali di partenza. 150mila giovani ogni anno escono dal percorso scolastico senza aver ottenuto nessun diploma, anche se l’obiettivo di avere l’80% di una generazione con il Bac (il diploma di fine studi secondari) sta per essere raggiunto (77,3% nel 2014). Degli studiosi della scuola, molto numerosi in Francia, definiscono «ipocrisia nazionale» la visione che persiste nel paese rispetto alla scuola, considerata sulla carta una struttura di eguaglianza, che darebbe a tutti eguali possibilità. Secondo uno studio del think tank Terra Nova, a 4 anni un bambino di famiglia povera avrebbe ascoltato 30 milioni di parole in meno di un suo coetaneo di famiglia agiata. E la scuola non riesce più a colmare questo gap. Nella narrazione nazionale, la scuola deve restare un «santuario», ma ormai è da tempo che i muri crollano e che gli scossoni della società entrano in pieno nelle aule. Di qui la crescita di scuoleghetto, concentrate nei quartieri in difficoltà. E degli effetti di questo fenomeno: la scuola che nel passato permetteva di prendere l’ascensore sociale per le classi popolari, ora porta all’università un terzo di figli di quadri superiori e di professioni liberali (che nella società sono il 15% della popolazione), percentuale che sale a più del 50% nelle Grandi scuole, con entrata per concorso selettivo. In queste Grandi scuole (in particolare scuole di ingegneria o economia), c’è solo il 6% di figli di operai e impiegati.
Di qui il diffondersi di una vera e propria nevrosi nelle famiglie e la grande difficoltà che hanno i governi successivi a fare delle riforme. Il percorso scolastico è pressoché predeterminato. I corsi iniziano all’asilo (che non è obbligatorio, ma sempre più frequentato dai 2 anni e mezzo), con un ciclo che si conclude con la prima elementare (Cp) dopo tre anni di materna. La scuola primaria conserva ancora un po’ di libertà, anche sociale, nel senso che la strategia scolastica delle classi medio alte si mette all’opera a partire dal collège (4 anni di media) e permette ancora alle elementari classi miste socialmente e per l’origine etnica. Il collège, considerato l’anello debole del sistema, scatena già la caccia alla buona scuola da parte delle famiglie che (soprattutto a Parigi) inventano di tutto per mostrare di avere la residenza nelle zone dove si sono quelli migliori (le iscrizioni avvengono per quartiere, ma si può cambiare zona giocando sulle «opzioni»). La scelta del liceo dipende dai professori del collège e da un sistema informatizzato che a Parigi soprattutto funziona come la Borsa valori: bisogna avere un certo livello di voti per poter sperare di iscriversi in un buon liceo, ma <CW-8>il livello dipende dal numero delle domande. Stesso sistema per l’indirizzo, dopo un primo anno di seconde générale (a meno di non essere già stati indirizzati verso le scuole professionali). Il Bac S (scientifico) è il più ricercato, perché apre tutte le porte: la scuola francese promuove sulla matematica. Poi, l’accesso alle classi preparatorie per i concorsi alle Grandi scuole dipende dai voti mentre l’iscrizione all’università, sulla carta in gran parte libera, lascia adito a molte incognite: per le università più ricercate, i sindacati degli studenti denunciano una selezione nascosta (attraverso il risultato del Bac). Sta di fatto che la selezione avviene per entrare al secondo anno, sulla base dei voti: l’abbandono al primo anno di licenza è enorme, solo 4 studenti su dieci passano al secondo anno, il 26% ripete e il 32% lascia per sempre.
In questo clima, è molto difficile proporre delle riforme. La scuola francese boccia molto, anche se tutte le ricerche internazionali affermano che ripetere serve a poco (il 67% degli alunni entrati in sixième – prima media — nell’89 avevano ripetuto o ripeterà almeno un anno prima della fine della scuola secondaria, ora la percentuale è un po’ diminuita). Ogni anno infuriano le polemiche sul degrado delle docenze, che secondo i detrattori non trasmetterebbe più gli insegnamenti fondamentali: eppure, su 864 ore annuali di corsi alle elementari, 360 sono dedicate al francese e 180 alla matematica. La legge ora stabilisce che ripetere l’anno deve diventare un «ultimo ricorso», ma nella pratica insegnanti e famiglie sono reticenti ad evitare le bocciature. Cambiare i programmi solleva polemiche a non finire. L’ultima battaglia è in corso alle elementari, attorno alla proposta del ministero dell’Educazione nazionale di dedicare qualche ora all’abc dell’eguaglianza, per sconfiggere gli stereotipi di genere. La destra ha organizzato manifestazioni contro una supposta «teoria di genere», accusando la scuola di pervertire l’ordine naturale. Altro scoglio: la modifica dei «ritmi scolastici» alla materna e alle elementari, per evitare le giornate di corsi dalle 8,30 alle 16,30, facendo frequentare le aule anche il mercoledì mattina, giorno tradizionalmente libero. I comuni dovrebbero proporre delle attività complementari dopo le 15,30, alleggerendo le giornate di corso. Ma insegnanti, famiglie (e persino medici) affermano che andare a scuola 4 giorni e mezzo «stanca» i bambini.
il manifesto. 11/10/14
La scuola negli U.S.A.
Alla cronica penuria dei fondi pubblici e alle sconfortanti classifiche degli studenti, le famiglie Usa hanno reagito con l’autogestione e con istituti ad hoc. Risultato, esodi di massa e classi-ghetto
Luca Celada
Il mese scorso ha suscitato un certo scalpore la notizia che, come parte del programma di smobilitazione del Pentagono, il distretto scolastico di Los Angeles avesse ricevuto in dotazione 60 fucili d’assalto militari M16, 3 lanciarazzi ed un veicolo anfibio anti-mina da poco rientrati dall’Iraq.
Un eccesso di zelo anche per un sistema — quello scolastico americano col vizio di confondere un po’ troppo spesso la pubblica istruzione con un problema di ordine pubblico. Il distretto di Los Angeles, secondo solo a quello di New York per grandezza, mantiene una forza di polizia autonoma di 350 agenti armati e 126 guardie giurate che pattugliano le scuole col potere di arrestare assenti ingiustificati o ragazzi che fumano uno spinello. E dire che la disciplina non sarebbe il problema principale di un sistema assillato da mille difficoltà, che piazza regolarmente i propri studenti in deludenti posizioni nelle classifiche attitudinali internazionali (gli ultimi dati danno i ragazzi americani trentunesimi in matematica e ventunesimi nel mondo in scienze e lettere).
Incredibilmente inoltre solo il 70% degli iscritti finisce le scuole secondarie, un tasso straordinario visto che quasi terzo addirittura dei ragazzi non finisce la scuola dell’obbligo.
Oltre alla cronica penuria di fondi pubblici, sempre insufficienti, i problemi della scuola americana in generale derivano in gran parte alle diseguaglianze inerenti ad una società multietnica e multirazziale caratterizzata da forti scompensi sociali. In Usa, l’istruzione pubblica fa capo ad amministrazioni municipali o provinciali operanti nell’ambito delle linee guida di massima stabilite dal ministero federale. Così un provveditorato come quello di Los Angeles si trova ad amministrare 700mila studenti in un migliaio di scuole che riflettono la vasta diversità della città. All’interno dello stesso distretto esistono scuole drasticamente diverse: mentre nel quartiere nero di South LA è normale trovare campus asfaltati e reticolati con studentesche interamente più sorvegliate che istruite, lo stesso distretto amministra istituti in zone agiate in cui scuole modello dispongono di laboratori di robotica e orti biologici. La differenza la fanno di solito le associazioni di genitori che hanno ampio spazio per intraprendere iniziative e fund-raising per affiancare le anemiche casse pubbliche.
La situazione è stata esacerbata negli anni dalla fuga di famiglie bianche e più agiate verso un numero crescente di scuole private (dal costo medio di circa 10mila dollari l’anno), un esodo di massa che ha fatto si che oggi nelle scuole pubbliche di Los Angeles il 70% degli studenti sono ispanici, il 15% neri, appena il 10% sono bianchi e 5% circa asiatici. Ovvero un sistema pubblico popolato da studenti poveri, moltissimi di recente immigrazione fra cui sono rappresentati più di 30 ceppi linguistici. Dalle elementari alle secondarie le scuole si trovano così ad affrontare un immane opera di socializzazione e integrazione di base, a partire dall’insegnamento dell’inglese.
I tentativi di rimediare ai macroscopici «scompensi anagrafici» risalgono ai tempi della Great Society di Kennedy e Johnson quando dopo il movimento per diritti civili, il governo federale cercò di integrare scuole segregate, un impresa di massiccia «ingegneria sociale» dagli intenti nobili quanto disastrosi i risultati. Il cosiddetto «busing» incontrò prevedibilmente la feroce opposizione dei «privilegiati» ma in definitiva anche quella degli «integrati» che venivano spediti a studiare lontano dai propri quartieri. L’integrazione «pilotata» oggi è stata in gran parte abbandonata e chi è obbligato o sceglie di rimanere nella scuola pubblica resta anche in balia di una burocrazia sorda e tentacolare, incapace di modificare schemi dannosi e inefficaci.
L’effetto è stato di stimolare le soluzioni «autogestite» non solo con le solite collette dei genitori per pulire gli edifici o comprare i computer, ma sotto forma del movimento delle Charter School un fenomeno che negli ultimi anni è letteralmente dilagato, soprattutto in California. La «charter» sono scuole a statuto speciale finanziate dal provveditorato ma gestite in piena autonomia. Chiunque può presentare un progetto per una scuola indicando eventualmente un indirizzo specifico, a patto di garantire il programma di base. In 20 anni, le scuole charter in California sono passate da 31 a 1130. Alcune insegnano il programma tradizionale, senza grandi variazioni, sfruttando la maggiore autonomia amministrativa, altre modificano ampiamente i metodi di istruzione, dall’insegnamento in spagnolo, coreano o armeno a metodi didattici steineriani; tutte sono finanziate pubblicamente al 100% con numero chiuso e l’accesso regolato da un sistema di lotteria.
Solo a Los Angeles ne operano attualmente ben 269, spesso si tratta di scuole piccole, ospitate in istituti riqualificati o in altri locali affittati per l’occasione, ex fabbriche o magazzini. Non sempre però: la più grande, la Granada Hills Charter High School, ha 4000 iscritti, si tratta di una scuola pubblica che ha deciso di «emanciparsi» dal distretto in seguito al voto della maggioranza degli insegnanti che ora viene amministrata direttamente dal preside.
Le charter hanno raccolto circa il 10% della popolazione studentesca, compresi molti che prima frequentavano istituti privati, come le scuole cattoliche, ottenendo risultati accademici nettamente superiori alle pubbliche ordinarie. Fra i fautori del sistema ci sono diversi mecenati, solitamente di provenienza imprenditoriale e spesso dall’industria digitale come Reed Hastings il fondatore della azienda di video streaming Netflix e Bill Gates che ha fatto della riforma delle scuole un impegno centrale della sua fondazione. Gates ha anche finanziato la produzione di Waiting For Superman, un bel documentario di Davis Guggenheim (Una scomoda verità) su un gruppo di famiglie che tentano la lotteria per iscrivere i propri figli a elementari charter e salvarsi dallo sfacelo delle scuole dei quartieri fatiscenti in cui abitano. Presidenti come Bill Clinton e Barack Obama hanno pubblicamente sostenuto le charter come alternative possibili e funzionanti rispetto al percorso tradizionale.
Allo stesso tempo, non sono mancate le polemiche, specialmente per il fatto che meno del 10% delle charter sono sindacalizzate e usano invece contratti flessibili per impiegare gli insegnanti.
il manifesto. 11/10/14
La scuola in Cina
L’esame in Cina determina la vita dei ragazzi. Secondo la votazione ottenuta si può continuare o meno con l’università. Alcuni studenti si suicidano, addirittura
Simone Pieranni
Il nostro sistema educativo si basa su un dato: l’umanità non ha talenti naturali, viene tutto dall’istruzione. Così, quando esci dalla scuola, ti viene spontaneo accettare il fatto che l’umanità non abbia diritti e che tutti i diritti ti vengano dallo Stato. In molte nazioni l’istruzione non prevede temi scolastici specifici, ma non mi sembra di aver mai sentito che la gente di quei paesi non sappia mettere insieme il lessico studiato per scrivere». Parola di Han Han, talento letterario, e non solo, cinese. La critica dell’ex ragazzo prodigio è contro il sistema educativo nazionale e in particolare la sua esigenza mnemonica, meccanica che non invita al ragionamento. Il sistema educativo di Pechino si basa su un momento che determina la vita di ogni cinese, il gaokao, l’esame di ammissione all’università simile al nostro esame di maturità. Il gaokao si iscrive all’interno delle tradizioni cinesi: fu sospeso solo durante la Rivoluzione culturale (1966–1976) e poi ripreso nel 1977. Il record di studenti esaminati c’è stato nel 2008: 10, 5 milioni. Nel 2014, nel giugno scorso, sono stati 9 milioni, il 3 per cento in più rispetto al 2013. Il gaokao è il momento più importante nella vita dei cinesi: sulla base del risultato ottenuto, gli studenti potranno accedere a università prestigiose, garantendosi un futuro. L’alternativa: università più scadenti o addirittura la necessità di completare gli studi all’estero. L’esame di ammissione è un momento importante a livello nazionale. Le famiglie si indebitano per consentire ai propri figli il giusto riposo in alberghi lussuosi, quando devono svolgere l’esame lontano dal villaggio di appartenenza. Le vie limitrofe alle scuole diventano iper controllate: non si possono suonare i clacson, tutto deve essere tranquillo ed aiutare alla concentrazione gli studenti. Spesso alcuni dei ragazzi e delle ragazze, dopo un fallimento all’esame si suicidano: la pressione è altissima e tutto ricade sulle loro spalle.
Ma il problema, ormai per certi versi sdoganato, è nelle tecniche di insegnamento e di studio. Se la Cina viene detto, vuole completare quel ciclo che dovrà favorire l’innovazione, a scapito delle capacità – ottime – di replicare quanto già esiste, dovrà necessariamente cambiare il sistema scolastico. È questo cui si riferisce Han Han. «La Cina ha una popolazione altamente alfabetizzata. Oggi ha il sistema in più rapida crescita — in qualità e quantità — di istruzione superiore nel mondo. Questo è il motivo per cui molte delle principali università del mondo hanno istituito centri di ricerca e di insegnamento in Cina». È l’opinione, consegnata al New York Times, di William Kirby, che insieme a Warren McFarlan e Regina M. Abrami, hanno scritto Can Cina Lead? Reaching the Limits of Power and Growth, proprio sulle potenzialità cinesi nel campo della ricerca e dell’educazione. La Tsinghua University e l’Università di Pechino sono ormai regolarmente classificate tra le prime 50 istituzioni di tutto il mondo. «Se saranno educati a creare e innovare, distinguendosi dagli insegnamenti in vigore da ben prima del 1949 non vi è alcun limite al loro futuro», ribadisce Kirby. Nell’ambito dei tanti cambiamenti della Cina, anche il gaokao sarà presumibilmente sottoposto a modifiche e riforme, proprio per andare incontro alle nuove esigenze della Cina, ormai player globale. Come sostiene Lan Fang, direttore della rivista economica Caixin, «Entro il 2020, la Cina dovrà definire un modello d’esame per la selezione degli studenti basato su prove che riguardano singole materie, un esame multidisciplinare e un sistema di ammissione diversificato. Si dovrà, inoltre, separare in maniera più netta l’esame dalla selezione degli studenti; aumentare le alternative per gli studenti; garantire alle università, pur nel rispetto delle leggi vigenti, una maggiore discrezionalità per la selezione degli studenti; implementare l’organizzazione di strutture specializzate, la gestione a livello macro da parte del governo e meccanismi di supervisione partecipativa da parte della società» (l’articolo completo è su www.carattericinesi.china-files.com )
I cambiamenti nel modello d’esame, dopo la riforma, saranno enormi. Sarà, infatti, attribuita maggiore importanza al cosiddetto «esame generale» (huikao) per valutare le competenze acquisite nelle scuole medie e superiori; ci saranno meno materie da portare al gaokao. «In questo modo, conclude Lan Fang, ogni studente avrà più opportunità di essere ammesso ad un corso universitario».
il manifesto, 11/10/14
La scuola a Cuba
Il sistema scolastico cubano è considerato uno dei migliori del mondo, per qualità e capillarità. Ma i suoi docenti soffrono per i salari troppo bassi e cresce la corruzione
Roberto Livi
Il sistema educativo cubano è il migliore dell’America latina e dei Caraibi e l’unico del subcontinente che può essere paragonato a quello dei paesi sviluppati. È questo il giudizio espresso dalla Banca mondiale nel suo ultimo report (intitolato Professori eccellenti) sull’insegnamento in America latina e nel Caribe. L’istituzione guida del neoliberismo mondiale afferma, infatti, che Cuba possiede un corpo insegnante di buona qualità che presenta parametri elevati – in talento accademico, autonomia professionale, rendimento — tali da poter essere messo sullo stesso piano di paesi all’avanguardia, dalla Finlandia, alla Corea del Sud, passando per Singapore, Cina e Svizzera.
Non è certo il primo né l’unico riconoscimento che la maggiore delle isole caraibiche ottiene a livello internazionale ed è il frutto della scelta di base attuata dalla rivoluzione castrista che fin dall’inizio, dal 1959, ha puntato su un sistema che permetta l’accesso universale e gratuito alla salute e all’educazione, ottenendo risultati straordinari, sradicando l’analfabetismo (il tasso di scolarizzazione nella primaria – le nostre elementari — è del 100% e alla secondaria del 99,7%), mentre il tasso di mortalità infantile è inferiore a quello degli Usa. Per l’insegnamento Cuba stanzia il 13% del bilancio nazionale: più del triplo di quanto faccia il governo Renzi.
In un’inchiesta dedicata al tema dell’insegnamento il quotidiano della gioventù comunista, Juventud Rebelde, scrive che «lo Stato cubano…si fa carico della strutturazione e del funzionamento di un sistema nazionale di educazione… fondato su cinque principi basici: 1) scuola di massa e basata sull’equità, dunque l’educazione come diritto e dovere di tutti i cittadini (anche i villaggi sperduti nella montagna hanno una scuola); 2) studio legato al lavoro, per un’integrazione dell’educazione con l’economia; 3) la partecipazione democratica di tutta la società nel compito dell’educazione del popolo; 4) coeducazione e scuola aperta alla diversità, per garantire uguaglianza di accesso a tutti i gradi dell’istruzione senza discriminazione di sesso, razza, religione e provenienza sociale; 5) gratuità: agli studenti vengono forniti gratis libri di testo e materiale educativo e, nelle primarie e secondarie, anche un capo della divisa – pantaloni e camicia.
Per chi sceglie il sistema a tempo pieno, la scuola provvede a un pasto quasi gratuito (nella primaria, la mensa costa circa 50 centesimi di euro al mese — avete letto bene! — anche se, in generale, è di bassa qualità). Insomma, lo Stato prende in carico tutti gli alunni dall’età di cinque anni (prescolar) fino, per chi merita, all’università, in un sistema scolastico gratuito che pretende di coniugare educazione di massa e educazione di qualità. Uno sforzo enorme se si pensa che Cuba vanta un maestro ogni 43 abitanti (la media nazionale è di 11,5 alunni per maestro nella primaria e secondaria e di 4,7 alunni per professore nelle superiori). Nell’isola, poi, esistono 162 istituti di livello universitario (compresa una famosa università internazionale di medicina e una scuola internazionale di cinema).
Non male, per un piccolo paese che gli Stati Uniti sottopongono da più di cinquant’anni a un brutale blocco economico che è costato a Cuba centinaia di milioni di dollari. Ma , proprio il sommarsi degli effetti del bloqueo e della crisi conomica, più un gigantesco burocratismo dovuto al controllo centralizzato di tutto il settore, hanno messo il sistema educativo, dalla fine del secolo scorso, in un continuo stato di emergenza: il deficit di professori, i bassi salari (meno di venti euro al mese), le difficili condizioni di lavoro e di studio (mancanza di supporto tecnico) e negli ultimi anni un serio problema di corruzione (legato ai bassi salari) e una crescente insoddisfazione delle famiglie hanno indotto il governo a varare una serie di riforme per migliorare e rendere più efficace il sistema di insegnamento.
Le ultime misure sono state varate a partire dall’anno accademico in corso e prevedono l’incorporamento di 7000 nuovi maestri, giovani diplomati nelle scuole di pedagogia, per coprire i ruoli specialmente nelle scuole periferiche. Inoltre le nuove misure – in linea con le riforme economiche e sociali — prevedono la concessione agli istituti di una maggiore flessibilità e autonomia nella scelta degli orari e delle materie complementari di insegnamento. Nella primaria, ad esempio, si possono concentrare gli insegnamenti basici (spagnolo, matematica, «il mondo in cui viviamo») nelle quattro ore di scuola del mattino, mentre le due ore del pomeriggio sono riservate agli «specialisti», docenti d’arte e di musica, inglese e informatica o professori di educazione fisica (mio figlio fa tennis quattro pomeriggi la settimana, ndr).
Un cambio radicale è stato annunciato per gli esami di ingresso all’università (vi si accede, in generale, dopo tre anni di scuola preuniversitaria) a partire dallo scandalo scoppiato la scorsa estate per le massicce frodi accertate, che hanno portato ad arresti e misure disciplinari di professori che vendevano le prove e inficiavano una parte degli esami. Non vi saranno questionari segreti nelle tre materie d’esame – spagnolo, matematica, storia — ma si comunicheranno in anticipo cento domande e a ogni allievo verranno rivolte cinque domande scelte a caso per ciascuna materia.
il manifesto, 11/10/14
La scuola Ceca.
Nella Repubblica ceca, il sistema scolastico è fatto ad ostacoli e si intromettono anche gli industriali: difficile che chi provenga dagli istituti tecnici riesca poi ad andare all’università
Jakub Hornacek
A metà settembre si sono riuniti, all’ombra dell’esposizione del Museo nazionale della tecnica di Praga, i rappresentanti della politica ceca con gli imprenditori. Al centro della discussione, c’era il sistema duale dell’istruzione nelle scuole superiori.
Da alcuni anni, gli imprenditori cechi lamentano una cronica mancanza di forza lavoro tecnica a livello di operai qualificata. Secondo loro, i giovani cechi schivano gli indirizzi di studio presenti negli istituti tecnici preferendo i licei, che permettono un accesso all’università. Una scelta di vita mal digerita dagli industriali, che non hanno apprezzato la crescita del numero degli iscritti universitari registrato a inizio del secolo, vista solo come una strategia adottata dagli studenti e dalle loro famiglie per posticipare l’entrata sul mercato di lavoro. «È necessario che la giovane generazione impari a levarsi alle sette di mattina per andare a lavorare, altrimenti è finita», non si è trattienuto il presidente degli industriali Jaroslav Hanak.
Per fermare la caduta degli istituti tecnici, la Camera di commercio ceca spinge dal 2010 per l’introduzione di un sistema duale di istruzione secondaria. Nelle richieste della principale associazione imprenditoriale ceca c’è la partecipazione degli imprenditori alla strutturazione dell’offerta di formazione dei singoli indirizzi degli istituti tecnici, la formazione pratica dei studenti nelle aziende, che dovrebbero dotarsi con un contributo statale di laboratori adatti alla formazione e una partecipazione dell’imprenditoria locale alla direzione del singolo istituto. In cambio di una formazione fatta su misura delle aziende, gli imprenditori dichiarano la disponibilità di assumere i studenti con voti oltre la media. Peccato che in pochi istituti, dove il sistema duale funziona, le promesse di assunzione sono state mantenute solo per le primi due-tre classi, e poi, essendo state occupate le posizioni libere, le aziende non hanno assunto più.
«Vogliamo introdurre il sistema duale di istruzione, rivitalizzando così gli istituti tecnici e facendo incontrare la domanda e l’offerta sul mercato del lavoro», ha confermato il ministro socialdemocratico dell’istruzione Marcel Chladek. Il ministro ha sostenuto che il sistema duale dovrebbe ridurre la disoccupazione giovanile che, tuttavia, nella fascia d’età dei maturandi non è ancora a livelli d’allarme.
Qualche dubbio sulla sua funzionalità ce l’ha, invece, la sociologa Linda Sokacova, secondo cui «è naturale che in molti optino per altri tipi di scuole, considerando la situazione e l’offerta formativa e culturale degli attuali istituti tecnici». Linda Sokacova, inoltre, ha notato la discrepanza tra i discorsi di tutte le forze politiche, che vorrebbero rinfoltire gli istituti tecnici, e la pratica dei singoli politici, che mandano a studiare la propria prole nei licei d’élite.
Con l’acceleratore premuto sul sistema di istruzione duale è ritornata al centro la volontà delle imprese: quella di poter orientare sempre più la produzione di un bene comune come l’istruzione in cambio della promessa (sempre più precaria) di un impiego. Un tema affrontato già due anni fa dalle proteste studentesche e dai ricercatori dell’Accademia delle scienze, quando l’allora governo di centrodestra sostenne che il lavoro di studio e di ricerca si dovesse adattare alle esigenze delle aziende tramite una maggiore rappresentazione degli imprenditori nei consigli d’amministrazione delle facoltà e un sistema di prestiti d’onore. «Il nostro sistema fa troppa ricerca di base e poco quella applicata utilizzabile dalle aziende», disse allora il premier Petr Necas, suscitando un asprissimo scontro con tutta la comunità accademica e gli istituti di ricerca.
Dopo un conflitto di due settimane il governo di centrodestra dovette far completamente marcia indietro. Oggi l’esecutivo a trazione socialdemocratica sta tentando di sottoporre una cura simile alla scuola superiore, che è chiamata a produrre forza lavoro qualificata, corrispondente alle esigenze aziendali. Inoltre gli studi sul sistema duale tedesco, modello per quello ceco, sottolineano la bassissima probabilità degli studenti degli istituti tecnici di accedere alle università.
La selezione verrebbe così fatta alla radice, direttamente nelle scuole superiori. Negando così a molti una cultura, che li aiuti a diventare dei cittadini critici e consapevoli.
il manifesto, 11/10/14
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Ed ora un occhio alle cifre ipotetiche, visto che le chiacchiere, che abbondano ne “La buona scuola”, evitano accuratamente di parlare di investimenti. Da alcune considerazioni apparse sul Sole 24Ore…
E’ cronaca la pubblicizzazione da parte Governativa di un settore scolastico al centro dei finanziamenti nella prossima Legge di Stabilità. C’è da assumere i precari e da avviare tante nuove novità, come la valutazione, la scuola-lavoro. In realtà, almeno secondo quanto scrive il Sole24Ore, i tagli saranno superiori agli investimenti.
Un miliardo è stimato il finanziamento al settore scuola, annunciato dal Premier già prima dell’estate, gran parte del quale andrà per le assunzioni di 148mila docenti.
Da dove verranno tali finanziamenti? Ovviamente, le risorse dovranno essere trovate all’interno stesso della scuola. Ma c’è di più, a conti fatti, i tagli saranno superiori all’investimento.
Il calcolo è stato anticipato dal Sole24Ore. Il Ministero dell’istruzione parteciperà con 1,1 miliardi sui 6 miliardi di tagli attesi per il 2015. Come parteciperà il settore scolastico?
Secondo il quotidiano (l’articolo completo, con i tagli provenienti anche da Università e Ricerca, lo trovate a questo indirizzo), i tagli saranno così distribuiti:
- 144mln dal taglio dei membri esterni dell’esame di maturità;
- 130mln dal taglio del fondo per le spese di pulizia;
- 80 milioni dal blocco degli scatti di anzianità, che diventano 189 in 3 anni;
- 55 mln dall’eliminazione delle supplenze brevi;
- 50 dal taglio dei progetti nazionali di istruzione.
Nessun cenno, da parte del Sole24Ore, del taglio agli organici ATA con blocco del turno-over, precedentemente anticipato da Italia Oggi.
Sta di fatto che l’istruzione parteciperà per un sesto dei tagli attesi per il 2015 e riceverà meno di quanto dovrà cedere.
a cura di marco sansoè