Dalla culla alla tomba: quanto è estesa la maternità? …di Lea Melandri

Non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate, e nell’immaginario ancora dominante lo sono tuttora, con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminili “al suo servizio”, o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono, separandosi, di non essere più quel corpo a disposizione.

È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla “normalità”, dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione.

Rendersi indispensabili, “far trovare buona la vita all’altro” è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di “foggiare se stesse” hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: “A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io”.

Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?

Comune, 14 novembre 2025

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