[…] arrivo al 1969, anno in cui uno dei nostri grandi scrittori, Luciano Bianciardi, scrive un articolo per la rivista Kent – una sorta di succedaneo di Playboy, alla quale lo scrittore collaborò, probabilmente per spirito di contraddizione e per non sentirsi al soldo di una borghesia che aborriva. [Aveva rifiutato le 300mila lire al mese (un mucchio di soldi) che l’allora direttore del Corriere, Indro Montanelli, gli offriva per scrivere sul suo giornale quello che ritenesse opportuno. Luciano dunque rifiutò e, dopo il successo enorme de La vita agra, scelse invece di collaborare con testate molto meno prestigiose, anzi piuttosto dubbie, come Le Ore, ABC, Kent, Playmen]. Nel settembre del 1969 Bianciardi è a Tel Aviv (ricorda ai suoi lettori che il nome della città significa “il colle della primavera”), al seguito di una squadra di “palla al canestro”, come la chiama lui, che fa anche, a modo suo, il cronista sportivo. Bianciardi ha come guida per la visita della città “Ester, una livornese alta un metro e quaranta, con due medaglie al valore”, la quale comincia subito a fare il suo “spiegone” al gruppo di giornalisti italiani in visita a Tel Aviv:
“Ecco gli autocarri che durante la guerra dei sei giorni abbiamo strappato agli egiziani. Ecco i resti, dipinti col minio, degli automezzi andati distrutti durante la guerra del ’48, E ora, gente, eccovi una sorpresa. Questi sono i carri armati che abbiamo strappato agli egiziani durante la guerra dei sei giorni. Vedete quanti sono? Noi siamo contenti che i russi diano carri armati agli egiziani, così ci forniscono i pezzi di ricambio”.
Io comincio ad averne le tasche piene. “Scusi, signora Ester” – chiesi, “se voglio salutare una persona, da queste parti, che cosa debbo dire?” “Lei deve dire scialom”. “E cosa significa?” “Significa pace” “Benissimo, grazie” […]
Ester aveva riattaccato lo spiegone: “Ecco la porta dei Leoni. Di qui durante la guerra dei sei giorni, entrarono a Gerusalemme i nostri paracadutisti. Gli arabi invece fuggirono dalla porta della spazzatura”.
A un certo punto la Ester mi redarguì. “Signor Luciano, perché lei cammina così piano?”
“Ma perché siamo a Gerusalemme”.
“E allora?”
“A Gerusalemme si cammina lemme lemme. E anche a Betlemme. Sempre lemme lemme”.
“Ma lei mi prende in giro!”
“Non è vero. È contenta, cara Ester di vivere qui in Palestina?”
“Vivere dove?”
“In Palestina”
“Cosa è la Palestina?”
“È qui, dove siamo noi”.
“Guardi che noi diciamo Israele”.
“Ma davvero? A scuola mi avevano insegnato in altro modo”.
“Cioè?”
“A dire Palestina. O anche Terra Santa”.
“Ma lei mi prende in giro!” […]
Siamo poi andati in un kibbutz di frontiera, tutto pieno di soldati e soldate (dire soldatesse è sbagliato, altrimenti dovremmo dire pure cognatesse anziché cognate), i quali militari più che altro scavano bunker e coltivano qualche raro pomodoro. La Ester ci fece vedere la piantine appena nate. E il mio amico Arnaldo le chiese: “Scusi, Ester, che grado ha il comandante di questi soldati che coltivano pomodori?”
Questo per dire, con una lunga e arguta citazione, che da troppo tempo le cose in Palestina vanno male. Da troppo tempo la Palestina ha perso pure il nome e si parla ormai di Terra Santa soltanto nei dépliant dei pellegrinaggi. […]
Giovanna Lo Presti, Volere la luna, 24 ottobre 2025
