«Se toccano uno, toccano tutti». Quando la repressione colpisce, la formula di rito è questa. Ma chi sono davvero «tutti»? In prima fila ci sono, ovviamente, i compagni e le compagne dei centri sociali, dei collettivi, dell’associazionismo. Al di là dei giudizi che ciascuno può avere sul lungo percorso del Leoncavallo, è chiaro che lo sgombero del Leo rappresenta un colpo durissimo all’intero arcipelago della sinistra sociale. Vedere la presidente del Consiglio che rivendica l’azione apre la strada a un’inedita offensiva contro gli spazi di libertà e indipendenza. Come ha spiegato bene Giuliano Santoro sul manifesto, per i postfascisti al governo colpire le realtà sociali non è un incidente: è un programma politico, insieme vendetta ideologica e tassello di un’agenda autoritaria.
C’è poi il cosiddetto “giro largo”: frequentatori e simpatizzanti che storicamente hanno rappresentato la vera forza dei centri sociali, straordinari aggregatori urbani di giovani ed energie. Oggi la loro presenza è più rarefatta rispetto all’età dell’oro ma resta una linfa vitale e una ricchezza che va raccolta, l’humus necessario a ogni progetto di partecipazione radicale.
Dentro quel «tutti» preso di mira dallo sgombero agostano c’è anche la sinistra politica. Anche questa è nel mirino: smantellare un’esperienza storica come il Leoncavallo significa dimostrare che la sinistra non sa difendere neppure i luoghi amici, e prosciugare i serbatoi sociali e culturali da cui attinge.
E tuttavia il punto più interessante riguarda chi, almeno per ora, manca all’appello in quel «tutti». Si tratta di quell’ampia e variegata composizione sociale che apparentemente poco o nulla ha a che fare con l’attuale Leoncavallo, ma che, chissà, potrebbe riconoscersi in ciò che scaturirà da questa vicenda.
Perché – ed è questo il nodo centrale, che anche gli stessi esponenti del centro sociale sembrano condividere – lo sgombero non riguarda solo il Leoncavallo, né si può ridurre a un regolamento di conti tra il potere e una specifica comunità politica. Il contesto in cui l’operazione si colloca è infatti decisivo: la Milano sempre più invivibile della speculazione immobiliare e degli scandali urbanistici. È possibile che lo sgombero sia stato anche uno sgarbo al sindaco Sala, tenuto all’oscuro, o un ulteriore colpo per mettere in difficoltà un centrosinistra che non ha saputo – o voluto – risolvere la questione.
Ma la sostanza resta: la cancellazione di spazi come il Leoncavallo non è in contraddizione con il “modello Milano”. Ne è anzi un tassello perfettamente coerente. La logica neoliberale, assecondata dalle amministrazioni Sala, impone che investimenti, proprietà e interessi privati siano tutelati attivamente, anche con la forza, a scapito di ciò che privato non è e tenta di perseguire logiche diverse.
In un modo o nell’altro, infatti, il Leoncavallo doveva lasciare spazio alla valorizzazione immobiliare del quartiere. Poteva essere tollerato solo se relegato in una zona marginale, dove la rendita è più bassa. E qui sta il punto di contatto: la sorte del Leoncavallo è la stessa di molti abitanti della città, sempre più spinti ai margini della città.
Proprio coloro i quali mancano all’appello di quel «tutti» – di quel «noi» che dobbiamo diventare: i tanti che, come il Leoncavallo, subiscono gli effetti marginalizzanti ed espulsivi del modello Milano, tra repressione poliziesca e violenza economica.
Se la rabbia di chi amava il centro sociale riuscirà a unirsi all’interesse di chi oggi patisce le conseguenze di una città sempre più escludente, se la protesta contro lo sgombero saprà trasformarsi in una protesta contro questo modello, allora sì che tutto potrà diventare molto interessante.
Non solo opposizione all’insopportabile autoritarismo dello Stato di polizia meloniano, ma anche alle condizioni materiali di vita che ci hanno imposto.
il manifesto, 23 agosto 2025