100 anni fa nasceva in Martinica Franz Fanon. Lo psichiatra e pensatore radicale dell’anticolonialismo e del panafricanismo, autore de «I dannati della terra». La sua eredità è stata raccolta dalle Black Panthers fino ai resistenti di Gaza. Jamila Mascat, su il manifesto, da Fort de France in Martinica, ci ricorda la grandezza del pensiero di questo medico, intellettuale militante, fondatore del pensiero della decolonizzazione. Non un filosofo dell’identità e delle filiazioni, ma un fautore della disidentificazione e delle affiliazioni partigiane, morto troppo giovane, lasciando una eredità immensa
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Oggi Frantz Fanon avrebbe compiuto 100 anni. Psichiatra, filosofo, fenomenologo dell’alienazione coloniale e teorico della rivoluzione anticoloniale, Fanon muore invece prematuramente di leucemia nel 1961 all’età di 36 anni, a pochi mesi dalla firma degli accordi di Evian del marzo 1962 che sanciscono la fine della guerra d’Algeria (1954 -’62) e la liberazione dell’ex colonia dalla dominazione francese – traguardo a cui Fanon, martinichese di nascita e algerino d’adozione dopo aver rinunciato alla cittadinanza francese, aveva consacrato tutto il suo impegno militante degli ultimi anni in qualità di dirigente del Front de Libération nationale e ambasciatore itinerante del Governo Provvisorio della Repubblica Algerina.
Nonostante la sua precoce scomparsa, lascia alla posterità una cospicua mole di scritti prodotti nell’arco di dieci anni, in cui scintillano filosofia, clinica, teoria politica e propaganda. Tra questi, Pelle nera, maschere bianche (1952), edizioni ETS, la prima tesi con cui Fanon tenta di laurearsi in medicina a Lione, ma che verrà respinta dal suo relatore per la struttura e il contenuto anticonvenzionali; L’an V de la révolution algerienne (1959), in Scritti politici II, deriveApprodi, una raccolta di scritti brevi sulla situazione coloniale in Algeria; Pour la révolution africaine (1964), in Scritti politici I, , deriveApprodi, pubblicato postumo, che riunisce lettere, annotazioni e articoli e redatti tra il 1952 e il 1961 e in cui prende corpo il disegno di una panafricanismo radicale; e infine Les damnés de la terre (1961), I dannati della terra, Einaudi, testamento teorico-politico, concepito e dettato di getto, pubblicato a pochi giorni dalla sua morte con una controversa prefazione di Jean-Paul Sartre e destinato a diventare la Bibbia delle lotte di liberazione degli oppressi di tutto il mondo, dalle Black Panthers alla resistenza palestinese (aggiungiamo Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichoatria coloniale, ombre corte).
Se gli anni Novanta segnano l’inizio della scoperta accademica di Fanon nell’ambito degli studi culturali e postcoloniali anglofoni, è a partire dagli anni 2000 che il corpus degli studi fanoniani cresce esponenzialmente e internazionalmente attraverso i Black studies, la Critical Race Theory, e la teoria decoloniale, riverberando la prepotente ricircolazione dell’opera di Fanon tra le fila dei movimenti antirazzisti e decoloniali degli anni 2010, come Black Lives Matter o Rhodes Must Fall.
La sua canonizzazione nel pantheon dei classici del pensiero radicale, tuttavia, non è omogenea né pacifica. Come scriveva Homi Bhabha in Remembering Fanon nel 1987 «ricordare Fanon è un processo di scoperta e disorientamento intensi». Per non perdere la bussola è essenziale ravvivare l’idea di quel nuovo umanesimo radicale su cui Fanon proiettava il destino della rivoluzione anticoloniale, concepita attraverso l’incanto della lotta dei popoli oppressi e il disincanto della sua tragica possibile ricaduta nell’usurpazione borghese dei nazionalismi terzomondisti. Esortando ad estendere il marxismo nell’impresa di comprendere la realtà coloniale e prospettarne il riscatto, ne I dannati della terra Fanon complica il quadro dell’analisi di classe negli ingranaggi del mondo colonizzato e addita profeticamente il rischio del fallimento della decolonizzazione data in pasto alle borghesie nazionali.
Della grammatica marxista ricollocata nella realtà socioeconomica del mondo colonizzato, Fanon produce un uso eretico e abusivo in nome dell’invenzione urgente di una lingua nuova capace di nominare le passioni e le contraddizioni della politica anticoloniale. Il disegno palingenetico di un’umanità nuova, esito dell’abolizione della dominazione capitalista coloniale, aiuta a calibrare l’altro cardine essenziale del pensiero fanoniano, il pensiero della razza a partire da «l’esperienza vissuta del ne(g)ro» illustrata nelle pagine di Pelle nera, maschere bianche, che tanta fortuna incontra nelle correnti afropessimiste. La fenomenologia psicoanalitica della razza, del resto, è forse il ramo che ha generato più frutti nel processo di riscoperta e riappropriazione dell’opera fanoniana dentro e fuori gli spazi dell’accademia, a partire dagli anni ’90.
In un testo del 1996 che riflette entre autres sulla mostra pionieristica dedicata a Fanon Mirage: Enigmas of Race, Difference, and Desire (presso l’Institute of Contemporary Arts di Londra), Stuart Hall si domandava: «Perché Fanon? Perché ora? E perché Pelle nera, maschere bianche?». La risposta, non univoca, di Hall insisteva sulla necessità congiunturale per la politica antirazzista di quegli anni di un movimento di ritorno al corpo nero, «sito enigmatico» di cui Fanon ha distillato l’enigma attraverso una ricostruzione multivocale dell’alienazione razziale. Hall, tuttavia, metteva in guardia contro il fraintendimento di reperire in Fanon il locus originario di una identità di razza compatta e naturalizzata, sottolineando al contrario la natura sociogenetica della concezione fanoniona del soggetto razzializzato, che Fanon concepisce sempre in vista di un suo superamento. Non filosofo dell’identità e delle filiazioni, ma fautore piuttosto della disidentificazione e delle affiliazioni partigiane […].
Jamila Mascat, il manifesto, 20 luglio 2025