Stiamo guardando a un fenomeno per molti versi speculare al quiet quitting nel mondo del lavoro: la scelta di sottrarsi da una competizione asfittica facendo il minimo indispensabile. Un fenomeno giovanile globale che sembra mettere in discussione i tempi e i modi della meritocrazia o forse una “rivolta individuale” alla ricerca di una riconquista del sé perduto. Sicuramente un fenomeno da capire
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C’è chi lo ha definito il quiet quitting della scuola, la tendenza a ridurre il proprio investimento emotivo negli esami scolastici, considerati parte di un sistema iper-competitivo che rischia di nuocere alla salute mentale degli studenti.
Negli Stati uniti questo fenomeno è sintetizzato dallo slogan “C’s Get Degrees”, che descrive la scelta di impegnarsi poco per ottenere un titolo di studio, puntando al minimo, e non al massimo, dei voti. In Brasile lo slogan degli studenti è “NoDreams”, la decisione di cambiare le proprie aspettative e i propri sogni per sottrarsi alla necessità di essere continuamente performanti, perché questa necessità fa vivere in uno stato di ansia permanente. In Cina lo chiamano “Be a bird”: gli studenti si travestono da uccelli e scelgono di limitare il proprio coinvolgimento nella competizione scolastica. «Gli uccelli possono volare senza scopo, liberi. Gli umani devono sempre dimostrare qualcosa», ha spiegato il ventenne Wang Weihan.
Stiamo guardando a un fenomeno per molti versi speculare al quiet quitting nel mondo del lavoro: la scelta di sottrarsi da una competizione asfittica facendo il minimo indispensabile. È in questo quadro che possiamo leggere il caso degli studenti che si sono rifiutati di sostenere l’esame orale alla maturità.
La scelta di sottrarsi alle aspettative di competizione che strutturano l’istruzione è stata criticata estesamente con toni, spesso, paternalistici. Essa, tuttavia, illumina una trasformazione di lungo corso che ha modificato qualitativamente gli obiettivi della scuola.
Lo aveva anticipato Roger Abravanel nel suo libro Meritocrazia (2008). L’università deve avere due grandi obiettivi: «creare poche università eccellenti a livello nazionale» e «monopolizzare l’accesso ai migliori posti di lavoro e alle più alte opportunità di reddito da parte di chi ha il pezzo di carta» (p. 135). Deciso questo, è stato sufficiente ripensare l’intero comparto dell’istruzione come una filiera che dalle scuole all’università ha un unico scopo: fornire capitale umano al mercato, assicurandosi di consentire ai soli studenti in grado di mantenere una performance eccellente per tutto il corso della propria carriera di essere reclutati per i posti di lavoro più remunerativi. E così la crisi del mercato del lavoro è stata scaricata sugli studenti, costretti a competere dalle elementari all’Università per un futuro dignitoso. Le riforme dell’istruzione degli ultimi vent’anni vanno lette in questo quadro.
La decisione di rimodulare la didattica in obiettivi quantificabili, ad esempio, ha consentito di misurare più facilmente l’output (gli effetti della didattica sulle competenze apprese dagli studenti), mentre si dimenticava l’input (cosa si insegna e perché), in un processo teso a ordinare ogni studente in un ranking.
Il voto, in questo contesto, è la punta dell’iceberg: il simbolo di un sistema di valutazione continua dietro al quale si nasconde la decisione politica di abdicare alla funzione democratica della scuola, quella funzione che prevedeva, da Condorcet in poi, che l’istruzione fosse universale e gratuita fino all’università, perché solo con una migliore distribuzione dei saperi è possibile ridurre la distribuzione diseguale della ricchezza. Questa idea di scuola non esiste più. Oggi, quanti studenti entreranno nei corsi di laurea a numero chiuso dipende dai posti disponibili nei corsi a numero chiuso, non dalla performance degli studenti. Eppure, con attente politiche di valutazione che iniziano nella scuola e continuano all’università, sarà possibile scaricare sulla performance degli studenti la responsabilità di essere riusciti a entrarci o meno.
In questo modo, l’istruzione non è più uno strumento di uguaglianza, come voleva Condorcet, ma un filtro che separa i migliori studenti dai peggiori, come proponeva l’economista della Scuola di Chicago Kenneth J. Arrow nel 1973.
Quando Pietro Marconcini chiede che il suo voto venga abbassato al minimo, ovvero a 60 centesimi, esprime la sua contrarietà a un sistema di istruzione che aumenta le diseguaglianze tra studenti, invece di ridurle, decretando sin dalla giovane età chi saranno i sommersi e i salvati.
È facile, in questo contesto, capire perché, secondo l’Oms, gli studenti italiani sono tra i più stressati d’Europa; perché il 75% affermi di vivere una condizione di stress causata dalla scuola o il 60% abbia paura del fallimento.
Il problema non è che questa generazione è ansiosa. Il problema è un sistema che scarica sugli studenti la responsabilità dell’odierna assenza di prospettive. È facile per il Ministro Valditara chiedere agli studenti di affrontare le «grandi sfide della vita». Più difficile è fare sì che ad attendere gli studenti dopo la scuola ci sia un qualche futuro oltre all’espatrio, un lavoro da mille euro al mese e un tasso di disoccupazione giovanile al 22,8%.
Francesco Coin, il manifesto, 19 luglio 2025