Il carcere è un’isola sconosciuta. Forse per disinteresse, per mancanza di informazioni da parte dei media, perché è la “istituzione totale” per eccellenza, priva di contatti con l’esterno. E poi perché, per i più, i detenuti e le detenute non meritano alcuna attenzione e si dovrebbe “buttare la chiave”. Neanche la sequenza di suicidi e di atti di autolesionismo basta a rompere l’isolamento di una realtà che rinchiude 62.000 persone, in gran parte senza diritti e senza speranza. Inoltre aggiungiamo che in Italia la durata media di un processo civile fino alla sentenza di Cassazione è di circa sei anni, per i processi penali occorrono quattro anni e mezzo. Per contribuire a uno sguardo diverso presentiamo (Volere la luna.) un frammento di Tazio Brusasco, laureato in antropologia, insegnante di Italiano e Storia nelle scuole superiori, da tre anni presso la sezione carceraria del proprio istituto.
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Al termine della lezione nel padiglione ad Alta Sicurezza un ex allievo si è affacciato alla porta dell’aula. Ha sorriso.
– Sono venuto a salutarti, prof! Forse.
– Forse?
– Sì. Domani ho la sentenza di Cassazione.
– Davvero? Auguri. Da quanto sei dentro?
– Troppo prof. Troppissimo.
– ?
– Vuoi conoscere la mia storia? Attento, perché non è solo la mia, ma quella di troppi. Di troppissimi.
– Qual è ?
– Mi hanno arrestato più di sei anni fa. Dopo l’ingresso in carcere c’è stato l’interrogatorio di garanzia, ma non immediatamente: sono trascorsi cinque giorni. E dopo, sai cosa è successo?
– …
– Mi hanno rinviato a giudizio. Dopo otto mesi mi è arrivata la notifica di avviso chiusura indagini. Ed è passato altro tempo: ho dovuto attendere le motivazioni e poi scegliere tra rito abbreviato e ordinario per iniziare finalmente il processo.
– …
– Un impianto complesso, con vari filoni, peraltro: 180 udienze. Tre anni, nei quali sono stato chiuso qui. Mi hanno condannato, ma per le motivazioni ho dovuto attendere centottanta giorni, trascorsi i quali mi è stato detto che ne servivano altri centottanta. Un altro anno, in poche parole.
– Era un processo complesso hai detto, no?
– Sì. Ma ho anche detto un anno! E senza le motivazioni non potevo neanche preparare il ricorso. Così ho dovuto aspettare.
– Poi?
– Poi naturalmente ho fatto ricorso in appello. Stavolta con i tempi è andata meglio: una ventina di udienze, un anno. Però per le motivazioni di nuovo centottanta più centottanta. Altri due anni. E io sempre qui. Intanto le mie attività sono fallite, non sono più aggiornato sul lavoro e poi, se anche dovessi uscire, come mi presenterei sul mercato? A oltre cinquanta anni devo ripartire da solo e da zero, per di più con il dispiacere di avere perso mio padre senza aver potuto fare nulla per lui.
– Capisco. Ma hai parlato della Cassazione.
– Perché mi hanno condannato anche in appello. E comunque anche in questo caso ho aspettato, il relatore ha rinviato la sentenza perché ha detto che non è riuscito a leggere tutti gli atti.
– Come hai preso quella notizia?
– Male, ma paradossalmente mi ha rassicurato: ho pensato che se non altro li stava leggendo. Erano molte pagine. Comunque, facendo gli scongiuri, domani i giudici si pronunciano.
– E tu aspetti, oggi con speciale intensità. E speri.
– Sì. Spero che annullino e assolvano, così esco. Se dovessero rinviare devo fare un appello bis, con i suoi tempi. Se invece confermano sai cosa dovrei fare?
– No.
– Aspettare. Aspettare le motivazioni, ma tanto a quel punto… E intanto oggi, dopo oltre sei anni trascorsi qui, io non so ancora se per lo Stato italiano sono definitivamente colpevole o innocente.
Tazio Brusasco, Volere la luna, 18 marzo 2025