Come abbiamo già scritto tante volte, abbiamo una sorta di repulsione per le “Giornate nazionali o mondiali del/della…”. Anche quella del Ricordo non sfugge a questo nostro stato d’animo. Ma l’uso politico della storia è ancora più fastidioso, ancor più se si fa riferimento alla Nazione e di seguito al nazionalismo italico. Qui riportiamo lo stralcio di un recente articolo dello storico Claudio Vercelli, apparso su il manifesto. Un intervento misurato, che ci invita a contestualizzare, approfondire, non ipotizzare, non fare letture clamorose della storia. Quando cominceremo a capire e, così, a fare silenzio? Quando prenderemo atto che noi eravamo i colonizzaztori?
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[…] L’associazione tra le foibe, come luoghi di «martirio» e di soppressione della memoria delle vittime, e l’idea che i morti siano molti di più di quelli censiti per riscontro empirico o attribuiti per deduzione, induce ancor oggi, in quanti sono titolari diretti o per via familiare del ricordo di quei fatti, un’immediata reazione nei confronti di qualsivoglia obiezione nel merito dei numeri e dei significati da attribuire a essi. Numeri che la ricerca storica, come già si è visto, dimensiona a soglie di un certo tipo, mentre quella che è ormai una consolidata mitografia pubblicistica, ripresa da parte dei mass-media, proporziona ad altri livelli, a volte ben più corposi. Non è un caso se è proprio in questo cortocircuito tra esperienza, riscontri e convincimenti, che si è inserito chi del ricordo fa un uso politico, seguendo un’ottica di rivalsa e di compensazione rispetto ad altri crimini.
Per essere molto chiari: se nell’Alto Adriatico vi fu un genocidio, questo non riguardò né gli italiani né le comunità slave.
[…] Se qualcosa di simile avvenne nell’Alto Adriatico, durante gli anni della guerra, riguardò soltanto gli ebrei, a prescindere dalla loro nazionalità d’origine. Non c’è nulla di più odioso e astioso dell’avviare una sorta di conflitto sulla memoria delle vittime delle diverse tragedie del Novecento, stabilendo una gerarchia del dolore.
Non è così che si possono affrontare i nodi storiografici della nostra contemporaneità. Non c’è chi viene prima così come non c’è chi arriva dopo. Anche cercare di gonfiare i numeri, quando lo si vada facendo, non dà maggiore tangibilità (e credibilità) a quanto si intenda sostenere. Non di meno, è inaccettabile parificare non il ricordo delle vittime, ma i diversi contesti storici in cui la degenerazione dei rapporti tra società portò alla guerra e all’eliminazione fisica di una parte della loro popolazione. Se i morti si equivalgono da un punto di vista etico, demandano semmai alla pietà nei confronti della loro memoria, le circostanze, i criteri, i modi e le «ragioni» per cui sono stati uccisi non sono particolari di secondaria rilevanza.
Quanto meno per i vivi. Non c’è mai nulla da giustificare di quel che avvenne. Sarebbe di per sé un esercizio tanto illusorio quanto aberrante. Semmai – ed è il nocciolo dell’agire storico come dell’azione storiografica – si tratta di identificare e cogliere il contesto epocale in cui le tragedie si consumano. Solo da ciò – che non è mai una concessione ideologica, ma piuttosto il risultato di una concezione analitica e il prodotto di un’indagine che è anche logica (dove si fa storia attraverso l’identificazione progressiva di concatenazioni di significati condivisibili) – si può desumere il senso di quello che fu. Posto che quest’ultimo vale per i contemporanei, ossia per ognuno di noi. La storia non è un manganello da dare in testa a qualcuno, per intendersi.
Claudio Vercelli, il manifesto, 7 febbraio 2025